Ad un anno di distanza dall’inizio di tutto, si contano quasi centomila morti in Italia, il bilancio di una tragedia ancora non del tutto compresa, il viatico di un lutto non ancora elaborato. «Mi pare – scrive Pietro Clemente in questo numero – che nel dibattito pubblico questo tema manchi. Non sia nella mente di chi vuole riaprire i ristoranti, di chi vuole andare la domenica in un’altra regione, di chi finisce per scambiare il Covid con chi gestisce il potere». La morte è rimossa, i morti dimenticati. Il loro numero cresce ogni giorno confuso agli algoritmi epidemiologici dei bollettini e con esso crescono assuefazione, prostrazione e indifferenza. Abbiamo cessato di cantare dai balconi, dismessa la complicità propiziatoria dell’“andrà tutto bene”, stiamo imparando a convivere con il virus senza paura, forse più per stanchezza che per maturazione. La percezione diffusa di un déjà vu che rischia di produrre apatia e perfino cinismo. Nei più vulnerabili, nei giovani più sensibili provoca estraniamento, disorientamento, alienazione, inazione.
«Sento il cervello come intorpidito, incapace di assorbire lo shock: ho le idee confuse, ho perso moltissimi punti di orientamento nella navigazione cognitiva e culturale. Non so collocarmi con chiarezza nel dibattito su pandemia e politica: mi riesce difficile prendere le distanze, tracciare confini, distinguere il circo mediatico dal conflitto sociale, le strategie sistemiche dagli elementi anti-sistema, la resistenza dal delirio, le narrazioni tossiche dalle buone pratiche. Più ci penso e più la questione mi sembra ingarbugliata». Così scrive il giovane ricercatore Eugenio Giorgianni nella sua escursione etnografica nel mondo caotico e magmatico del negazionismo, e la ricognizione dall’interno del complesso fenomeno apre uno squarcio sul profondo malessere del corpo sociale, rappresentando «l’irrompere della morte nell’orizzonte quotidiano, e le tante danze macabre che l’accompagnano».
Quanto devastante e logorante sia l’opera di aggressione del virus sulle nostre vite come sulle nostre parole lo annota con la consueta ironia Nino Giaramidaro: «Questa pandemia sta rendendo anche noi mutanti. Con difficoltà avevamo cercato di abbandonare il pessimismo della ragione e diventare “positivi”. Invece abbiamo dovuto assoggettarci al testa-coda del termine: il nuovo indice di benessere è la certificata negatività». Anche nella grammatica del tempo e dello spazio il virus ha portato metamorfosi e disordine. Concetta Garofalo si interroga sull’Italia del Duemilaventi fragile e schizofrenica, dimidiata tra chiusure e aperture: «abbiamo dovuto ripensare Estia come un sistema chiuso obbligato ed Ermes un sistema aperto vietato». E, nella sincresi del tempo a cui siamo costretti, «siamo stati chiamati ad agire l’attesa! Una comunità claudicante fra un DPCM e l’altro, fra un’ondata e l’altra, fra una stagione e l’altra: ed è subito estate, ed è subito autunno, ed è subito inverno e ricorre una nuova primavera alle porte». Una interessante lettura di quanto ci sta accadendo con i giorni che rotolano come pietre insieme ai morti senza nome che si accumulano nella fredda contabilità quotidiana delle statistiche.
Di certo, l’irruzione della pandemia ha cambiato profondamente il modo di vivere ma anche quello di morire, di pensare la morte, di congedarci dai nostri cari senza guardarli e senza toccarli. Dialoghi Mediterranei, anche in questo numero, rinnova l’impegno a ricordarli, attraverso le storie di vita di alcuni di essi che valgono simbolicamente per tutte le vittime spazzate via dal covid. Umane dimenticate istorie è il piccolo archivio di queste testimonianze che valgono a surrogare in qualche modo quel lutto mutilato dei riti del cordoglio e della memoria.
Del mondo post pandemico – o meglio, come suggerisce con più cautela Giovanni Cordova, infra pandemico – sono stati ipotizzati scenari utopici o apocalittici, prospettive di salti evolutivi o di irreversibile declino, progetti di profondo rinnovamento, di cambio di paradigma come usa dire, o di semplice ricominciamento con qualche aggiustamento, di febbrile “ripartenza” per riprenderci quella “normalità” che era e resta la causa prima della crisi endogena al sistema. Un appello “Per non ricominciare” è stato lanciato nello scorso numero da Francesco Faeta che, nel proporre una riflessione sulle poetiche e sulle politiche della cultura oggi, ha inteso promuovere un’attenzione nuova sull’impegno che gli intellettuali devono recuperare perché non si limitino a descrivere il mondo così com’è ma immaginino come cambiarlo, contribuiscano a costruirlo come dovrebbe essere.
Tra quanti hanno raccolto la sollecitazione a partecipare al dibattito avviato da Faeta, Lia Giancristoforo ha coniato forse l’immagine plastica più efficace per definire la condizione in cui siamo e la postura intellettuale che dovremmo assumere. «La pandemia – ha scritto – invita a riscoprire l’essenziale per una nuova socialità, in esistenze che, come una vite impazzita, hanno prodotto infiniti e sterili polloni nei quali la linfa si disperde. Polloni che non porteranno frutti, e che vanno riorganizzati grazie ad una operazione di potatura. La potatura – ha aggiunto – è un gesto antico, una tecnica capace di tramandare la vita. Attraverso il taglio, che di per sé è un’operazione dolorosa, si dona una nuova vita alle piante, ma non solo: con la potatura si riesce a tutelarne la longevità, a regolare il carico di gemme e quindi la produzione dei frutti». Lia Giancristofaro declina al femminile l’invettiva di Faeta, la inasprisce nei toni e negli accenti sarcastici, richiama il ruolo di dissidente esiliato che l’intellettuale è chiamato ad esercitare, «la vocazione a dire la verità al potere», e denuncia quei professionisti che «pongono il proprio lavoro al servizio dell’ordine costituito», e magari «sciacquandosi la bocca con Gramsci, anzi facendo addirittura i gargarismi con questo nome, praticano esattamente ciò che lo studioso considerava terribile: cioè, colonizzare il mondo con un potere autoreferenziale e latore di disuguaglianze».
No, l’antropologa Giancristofaro non avverte nessuna nostalgia di queste pratiche e costumi culturali, che evocano tribù e branchi, cordate e affiliazioni a parentele politiche, gregarismi e servitù al sistema. Non alla tribù ma alla comunità degli antropologi si rivolge Vito Teti perché porti alle conseguenze più radicali la vocazione della disciplina all’eresia, «la critica di alcuni modelli di sviluppo, la sua voce di libertà, la sua capacità di demitizzare e demistificare, di unire passione per l’umano a discorsi di verità». Nella sua lettera generosa e dolente, Teti recupera una parola obsoleta: “militanza”, che oggi vuol dire la volontà di «partecipare alla nascita di mondi nuovi». A fronte di questa apocalittica e planetaria fine del mondo, anche Sergio Todesco affida agli intellettuali il compito non solo di «interrogarsi sulla natura di questo mondo» ma anche e soprattutto di «costruire, con fatica, la fine di quel mondo». Al ruolo fondativo dell’antropologia, quale scienza della critica culturale, si richiama Giovanni Cordova, il quale ricorda che «fare ricerca con l’altro/a significa percorrerne insieme gli itinerari; condividerne storie, speranze e paure; incrociarne i posizionamenti politici e gli interstizi sociali di oppressione, dominio e subalternità». Ma poi aggiunge: «Fare ricerca ai nostri giorni, tanto più se nell’ambito delle scienze umane e sociali, significa fare ricerca in tempi di un’accademia inglobata nell’orizzonte del neoliberismo, cui negli anni si è progressivamente piegata introiettando nelle sue pratiche scientifiche e organizzative linguaggi aziendali, obiettivi di misurabili efficienza e produttività, procedure calcolatrici e rendicontative». Un lucido e analitico j’accuse che è spia del disagio dei giovani ricercatori che non trovano spazio nel mondo universitario e condividono con i soggetti delle loro ricerche le condizioni di precarietà e subalternità.
«Siamo orfani delle Grandi Narrazioni», osserva Augusto Cavadi, per il quale la via d’uscita passa per una grande intrapresa pedagogica, un’alfabetizzazione politica che promuova «una elaborazione progettuale alternativa al pensiero unico». Non diversamente Alberto Giovanni Biuso rimpiange il radicalismo della Scuola di Francoforte, rilegge Adorno e Marcuse a sostegno della tesi che solo «rimuovendo la realtà diventata simulacro» è possibile «comprendere la potenza della realtà materiale e semantica dentro la quale si dà l’accadere». Da Bologna che, a differenza del passato, «non esprime più pensiero nuovo né piani di proposte positive» giungono, attraverso il racconto di Lella Di Marco, le voci solitarie dei giovani nativi e migranti senza lavoro, stretti entrambi «nella trappola di Amazon o nella consegna di pasti a domicilio». Davide Accardi, infine, esorta a «tornare a produrre cultura dove più necessario, in Largo Domenico delle Greche a Tor Bella Monaca o ai Quartieri Spagnoli e non nei salotti borghesi ai quali siamo abituati. Perché quella in mano ai potentati finanziari non è che una minima parte di tutta la cultura prodotta, la più rassicurante».
La sintesi approssimativa che abbiamo tentato fin qui dei contributi al dibattito sull’appello di Faeta non può certo contenere la ricchezza dei testi che meritano di essere letti con puntuale attenzione. Le diverse prospettive da cui muovono gli autori tracciano percorsi che si incrociano, si sovrappongono, si divaricano, ma insieme formano un’interessante rassegna di idee sulle potenzialità di una politica culturale impegnata a sfidare e riscattare nei luoghi dove si producono conoscenza e coscienza i concetti mutilati e deformati di umanità, diritti, civiltà. Su questi temi il dibattito resta in tutta evidenza aperto agli altri contributi che ospiteremo nel prossimo numero.
Del fallimento della cultura ispirata al liberalismo progressista – «ciò che appariva àncora di salvezza si è rivelato nostra mortale zavorra» – scrive Leo Di Simone che, sollecitando al nostro sguardo distratto il dramma dei migranti bloccati alle frontiere dei Balcani sotto la neve, riflette sul destino del genere umano, su miopie, ipocrisie ed egoismi: «le nostre sistemazioni nelle aree residenziali della storia occludono la visione delle periferie e dei crocicchi di questo mondo», annota , e aggiunge: «Mai come in questo nostro frangente storico pandemico siamo ansiosi di smascheramento. Stiamo sperimentando la situazione innaturale che la maschera comporta. È giunto il tempo di mettere in crisi la lunga, millenaria presunzione che ci ha partorito e ci ha allevato». Quell’insensato e autodistruttivo complesso di superiorità, «quel peccato di hybris che se ostinatamente perseguito vedrà l’umanità precipitare rovinosamente al suolo come Icaro», osserva Maria Rosaria Di Giacinto nel suo ragionare sul volume di van Aken, Campati per aria, intenso breviario delle questioni culturali connesse al collasso climatico planetario. Quelle stesse illusioni di potenza che hanno sgretolato le memorie collettive e ci impediscono di ricordare le migrazioni storiche di cui siamo stati protagonisti. Mariano Fresta, Federico Jorio, Franco Pittau, Sandra Waisel dos Santos e Chiara Privitera, scrivono in questo numero della radicata presenza degli italiani in Brasile e negli Usa.
Che la Storia non corra verso le magnifiche sorti e progressive in cui avevamo creduto, ma spinga invece verso una condizione permanente di incertezza e di vulnerabilità, è consapevolezza che stenta a farsi strada, forse a causa della «doppia e ambigua natura dell’homo sapiens – ammonisce Mario Sarica – capace di spiccare il volo in cielo o sprofondare con la stessa naturalezza nelle tenebre degli inferi». Anche il nostro rapporto con gli animali va ripensato, suggerisce Pietro Li Causi nel suo illuminante contributo sul pensiero degli antichi greci intorno alla loro commestibilità.
Non sfugge alla crisi pandemica la deriva linguistica, quel deprecabile fenomeno culturale che privilegia l’uso smodato dell’inglese non solo nella comunicazione mediatica ma anche nelle ricerche specialistiche, nelle pubblicazioni accademiche, nei sistemi di valutazione, come unico vettore di certificazione della verità e della scientificità di un’opera. Su questo tema, che ha a che fare anche con le questioni sollevate da Faeta sulla funzione politica degli intellettuali nella società contemporanea, Dialoghi Mediterranei ha avviato nel numero scorso una riflessione che è stata ripresa e sviluppata da altri studiosi (Atria, Barbuzzi, Clemente, Geraci, Giusti, Lombardi Satriani, Schiavo), nel comune convincimento, pur da posizioni diverse, che non si tratta di una battaglia di retroguardia, di sciocca resistenza su trincee di vieto purismo ma semplicemente di buon senso, di misura e di stile. Ugo Iannazzi, che si è messo alla testa di questa battaglia, ha ragione ad affermare che «la nostra lingua è importantissima e ha lo stesso valore di un Colosseo! Se si sottovaluta la sua importanza se ne decreta la perdita».
Alla lingua, in fondo, al suo ineludibile statuto di veicolo unitario e identitario, può connettersi la bella metafora dello specchio, usata da Paul Schafer nel suo contributo per spiegare la specificità del ‘paesaggio culturale’: «Una comunità – scrive lo studioso canadese – è come uno specchio in frantumi. Ogni persona ne possiede un pezzo abbastanza grande da poter vedere il proprio riflesso. Tuttavia, nessuno ha un pezzo abbastanza grande da ottenere un riflesso della comunità nel suo insieme. […] Un paesaggio culturale è uno strumento che permette alle persone di partecipare ovunque per rimettere insieme lo specchio in frantumi della comunità». La stessa immagine dello specchio la ritroviamo nelle pagine di Pier Giorgio Solinas che, nella sua densa “investigazione” comparativa (per usare le parole dell’autore) o piuttosto affascinante narrazione a tutto campo, navigando tra Goody e Braudel, compie il suggestivo periplo intorno ai concetti chiave dell’antropologia mediterranea (famiglia, parentela, onore, vergogna, etc) su cui si sono affaticati non pochi studiosi, spesso di origine non mediterranea. «Le culture – scrive Solinas – si rimandano l’una con l’altra la propria figura, le culture si riflettono, emettono le loro onde di significato che nello spazio di incontro interferiscono, si trasformano e ritornano composte di altre onde. Non è di sicuro questa la metafora più appropriata (…). Tuttavia, c’è qualcosa di interessante in questa figura». Contro i rischi della poetica mediterraneistica, «che si inebria di unità nelle varianti, e delle singolarità come repliche della unicità mediterranea», l’autore invita a «ripercorrere il formarsi intrecciato, con-fuso, delle identità nel loro evolversi, a impegnarsi in una anamnesi culturale e antropologica che prende coscienza della sua stratigrafia e delle sue stesse rimozioni».
In questo lavoro di cura e studio comparativo si distinguono il Gruppo di ricerca e la Collana “Medioevo Romanzo e Orientale” che pubblicano testi sul Mediterraneo come «comunità interletteraria» dall’Antico al Moderno. Ne dà conto uno dei curatori Antonio Pioletti che spiega la strategia editoriale volta a documentare le diverse culture nelle loro «reciproche contaminazioni e ricezioni per singole tematiche di ampio respiro e di larga irradiazione». Un esempio di migrazione letteraria è senz’altro la figura di Giufà che ritroviamo in Sicilia come nel Nord Africa e in Turchia. Rosy Candiani e Ada Boffa ne illustrano brevemente le origini e le permanenze nelle tradizioni popolari: contributi che – unitamente a quello di Enrica Fei su un autore di favole contemporanee – si inseriscono nel progetto “I sentieri della fiaba”, promosso dall’Enciclopedia Treccani, a cui ha aderito Dialoghi Mediterranei, con l’auspicio di assumere il ruolo di collettore in Sicilia di ricerche e materiali etnografici sulla cultura fiabistica tradizionale.
Nell’inevitabile omissione di tanti titoli e di tanti autori presenti in questo cospicuo numero, che inaugura il nono anno di vita della rivista, si segnalano gli interventi di Laura Leto, di Maria Chiara Modica e di Lina Novara, attente e versatili studiose di aspetti, segreti dettagli e invisibili tessiture, del vasto mondo dell’arte; lo scrutinio attento e paziente dei “Riveli generali delle anime e dei beni” in Sicilia ad opera dello storico Rosario Lentini, quali fonti e documenti fondamentali per la conoscenza delle dinamiche economiche e demografiche e perfino onomastiche delle comunità locali; il ricordo di Sciascia a cento anni dalla nascita a cura di Mario Giacomarra e di Francesco Virga; nonché i profili di due maestri siciliani dell’architettura, Giuseppe Vittorio Ugo e Pasquale Culotta, a firma rispettivamente di due illustri personalità dell’università palermitana, Cesare Ajroldi e Antonietta Jolanda Lima.
Un discorso a parte e uno spazio ben più ampio meriterebbero i contributi fotografici che, unitamente a quelli già pubblicati nei fascicoli precedenti, costituiscono uno straordinario archivio di materiali inediti di antropologia visuale. Nel contrappunto di immagini e parole sta la forza di ciò che i fotografi documentano, raccontano, ricordano, denunciano. Sguardi diversi sul mondo: su borghi e architetture, su riti e gesti, su volti affaticati di varia umanità, sulla grazia e sulla pena del vivere, sull’arte dell’arrangiarsi e sull’arrangiarsi dell’arte. Se cliccate sulle fotografie, si aprirà quel mondo e potete avvicinarvi alla sua bellezza e alla sua verità. Perché, come ha insegnato Susan Sontag, non è vero che cuore e testa, pensare e sentire siano dimensioni e percezioni contrapposte. «Ho l’impressione – ha scritto la grande filosofa – che pensare sia una forma di sentimento e sentire una forma di pensiero». Forse più di ogni altra espressione artistica, la fotografia interpreta e rende vera questa affermazione. Il fatto che le foto di Baiamonte, Garcia, Herranz, Ingrasciotta, Marchisio, Polizzi, Sapienza, Taddei e Tarantino siano belle sul piano formale nulla toglie alla verità della realtà effettuale che rappresentano. C’è bisogno di buone fotografie per arginare l’alluvionale profluvio di cattive immagini che ci opprime e sommerge. Dialoghi Mediterranei si candida a dare un contributo a sostegno di questo obiettivo.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021