Un paio di settimane prima che ci lasciasse Luigi M. Lombardi Satriani, rispondendo al mio invito a partecipare al dibattito sulla guerra promosso dalla rivista, mi aveva mandato questa email: «Caro Antonino, ho scritto proprio in questi giorni una poesia che esprime il mio pensiero riguardo…. guerra e pace. Spero che non ti sorprenda la formula poetica piuttosto che quella saggistica. Con viva amicizia, Luigi M. Lombardi Satriani». Mi aveva riscritto pochi giorni dopo – il 27 maggio, appena tre giorni prima della morte – inviandomi una nuova versione della poesia che in nulla si differenziava dalla precedente se non per un verso a cui aveva aggiunto la parola “sofferente”. Un messaggio in bottiglia, forse. Il desiderio di esprimere in modo più puntuale il sentimento o lo stato d’animo, l’urgenza di precisare, di testimoniare una condizione, il dolore per la guerra che sillabava e incarnava nel suo corpo sofferente.
Luigi Lombardi Satriani amava la parola, ne aveva estrema cura, ne conosceva le più nobili sfumature, ne ricercava le suggestioni più eleganti. La letterarietà della sua scrittura, che nulla sottraeva alla scientificità delle sue argomentazioni, ha accompagnato e connotato il suo modo di essere antropologo, di fare antropologia come esercizio di «un’ininterrotta autobiografia», come spesso diceva. Il linguaggio del dolore e dell’amore, al centro della poesia che ha voluto inviare a Dialoghi Mediterranei, è stato – a pensarci bene – al centro di tutta la sua produzione intellettuale, del lessico e della semantica della sua riflessione intorno alle culture degli uomini. L’incessante tensione alla comprensione degli altri, all’interrogazione sulla morte, alla narrazione delle vite della “perduta gente”, ha attraversato e segnato profondamente il suo itinerario scientifico ed esistenziale. L’attenzione privilegiata per il sacro e i riti della memoria ha orientato il suo sguardo particolarmente aperto alla connessione dei saperi, oltre la frammentazione delle discipline, ha scandito il suo erratico stare nel mondo con un orizzonte dalla latitudine universale che non ha dimenticato né mai abbandonato la Calabria delle sue origini.
In mezzo al drammatico frastuono della guerra, all’implosione della emergenza ambientale, ai rischi della carestia e al riacutizzarsi dello sciame pandemico, nel tempo cupo e difficile che viviamo, se ne è andato dunque l’ultimo di una illustre generazione di maestri dell’antropologia italiana che hanno non soltanto studiato ma anche difeso e valorizzato la cultura del mondo popolare, dei ceti contadini, delle classi subalterne del Mezzogiorno d’Italia. «Con la scomparsa di Lombardi Satriani – scrive Francesco Faeta in questo numero che al suo ricordo raduna molte “voci” di colleghi, allievi, amici – «credo sia lecito affermare che una solida pietra di confine è stata posta». Da qui la necessità di avviare un critico ripensamento delle stagioni dell’antropologia italiana dopo l’età demartiniana, il bisogno di «intraprendere un lavoro di sistematica riflessione in direzione di una storiografia della contemporaneità». Faeta ricorda la lungimiranza e la intelligente intuizione del maestro nel sostenere e incoraggiare l’interesse del giovane allievo per la fotografia quando questa attenzione era ancora scambiata per un «giocare con le figurine». Racconta della scoperta delle lastre fotografiche scattate in Calabria dal padre Alfonso, «un’autentica rivelazione per Luigi», che assieme allo zio Raffaele demologo aveva modo di riconsiderare la figura paterna e più ampiamente lo stimolante contesto familiare della propria vicenda intellettuale.
Tra gli studiosi che hanno raccolto l’invito a ricordare Lombardi Satriani molti sottolineano gli insopprimibili legami che lo studioso ha intrattenuto con la sua San Costantino di Briatico, il suo radicamento culturale e sentimentale a quel palazzo aristocratico presso il quale si sono svolti i funerali, «la radice metaforica – scrive Roberto Cipriani – che ha tenuto legato il cattedratico della Sapienza alla sua patria d’origine», «il punto della mappa che sembra indicare costantemente una direzione di riferimento, quale che sia la meta del viaggio», ribadiscono Fulvio Librandi e Vito Teti, l’axis mundi attorno al quale ha elaborato quella geografia della memoria, quel «far la guardia a un paese» che vale a «sovrascrivere il dolore con un linguaggio di senso, ad arginare l’assurdo, a proteggersi dal rischio di sradicamento». E in «una comunità disgregata e dispersa per gli insulti della natura e della storia», Nardodipace, «un comune collinare e montano delle Serre vibonesi in Calabria», Lombardi Satriani svolse una delle sue prime ricerche etnografiche, da cui furono ricavati un docufilm e un libro (L’assenza del presente). Nel ripercorrerne le vicende alla luce del percorso scientifico dello studioso, Tonino Ceravolo scrive in conclusione che quell’esperienza costituisce «una testimonianza importante e partecipe della sua prossimità e vicinanza all’universo contadino».
Se Gianfranca Ranisio sul filo dei ricordi personali si intrattiene sui rapporti di Lombardi Satriani con la cultura folklorica campana, l’osservazione e la partecipazione dei Riti settennali di penitenza in onore della Madonna Assunta a Guardia Sanframondi, la rispettosa postura dello studioso che a Napoli nella Cappella del Tesoro davanti alle reliquie di San Gennaro e al mistero del sacro riteneva necessaria la sospensione di ogni giudizio, Patrizia Resta, invece, riprende con un serrato ragionare sui temi dell’antropologia giuridica il suo vivace dialogo con l’autore del Diritto egemone e diritto popolare, avendo condiviso nell’amicizia impegno e interesse per il dibattito disciplinare pur nelle diverse prospettive rispetto alla concezione culturale della mafia, che come la morte restava comunque per entrambi «un altrove, segno di differenze alle quali, tenacemente, rifiutiamo di piegarci».
Sulle pagine de Il ponte di San Giacomo, l’opera forse più densa e significativa di Lombardi Satriani (scritta insieme a Mariano Meligrana), si ritrova inevitabilmente a riflettere la gran parte degli allievi e dei colleghi: «Un testo fondamentale – annota Letizia Bindi – per articolare e tematizzare i temi toccati e delineati in precedenza dal demartiniano Morte e pianto rituale e quelli incompiuti e potentemente evocativi contenuti nell’inestinguibile miniera de La fine del mondo». Vi si leggeva chiaro – aggiunge – «il riferimento all’esistenzialismo francese, ad Heidegger, alla psicanalisi e all’etnopsichiatria di Jervis e di Servadio». Sonia Giusti ne ricorda le qualità letterarie per le quali il libro ricevette nel 1982 il Premio Viareggio e scrive che nella chiave di lettura dell’antropologo lo «smarrimento vitale» di fronte al trapasso, «secondo articolate modalità cultuali si fa pensiero addomesticato», così che «il rapporto tra vivi e morti, nell’orizzonte folklorico, risulta non di contrapposizione, ma di continuità tra storia e metastoria».
Un altro volume che ha segnato l’apprendistato e la formazione di non poche generazioni di studiosi è stato senz’altro Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura, pubblicato nel 1973 e di recente ristampato nell’edizioni del Museo Pasqualino. «Mi colpì – confessa Paola Elisabetta Simeoni – il diverso approccio antropologico, ispirato anche a Gramsci, che si immergeva senza tentennamenti nelle trasformazioni storiche attuali, l’analisi dell’uso del folklore come cultura di contestazione, l’antropologia come interpretazione dei cambiamenti in atto nella società colta». In questo lavoro come in altri successivi Lombardi Satriani dimostrò di saper coniugare l’attenzione per il mondo arcaico della tradizione contadina e lo studio dei processi di trasformazione dell’Italia dei consumi, la lezione di De Martino e le intuizioni di Pasolini, l’immaginario magico e taumaturgico di Natuzza Evola e quello virtuale e postmoderno della comunicazione mediatica. A pensarci bene, quella lontana denuncia dei rischi di un folklore reificato e mercificato conserva in fondo ancora oggi una sua attualità nel dibattito critico sulle operazioni di patrimonializzazione dei beni etnoantropologici.
Sergio Todesco infine con la sua testimonianza descrive la figura dell’uomo, del maestro «sempre in grado di dispiegare quelle che a me sono parse le qualità essenziali per bene vivere nel mondo, ossia l’intelligenza, l’ironia e la pietà». E forse il lascito più vero del suo insegnamento, di cui anche la redazione di Dialoghi Mediterranei resta grata, è «quella simpatia umana, quell’umana solidarietà che non di rado fanno difetto agli uomini di scienza». La stessa cordiale e generosa umanità che traspare dalle foto scattate da Federico Faeta in occasione di un convegno internazionale tenuto a Valladolid nel 2007: immagini in cui lo studioso appare pensoso e nello stesso tempo colloquiale e aperto all’ascolto.
Il tema della guerra, che anche in questo numero è in primo piano, si apre con l’intensa poesia di Luigi Lombardi Satriani, versi che nella loro lenta scansione sembrano distillare grumi di un dolore estenuato e pure d’improvviso stemperato dalla luce della speranza di una parola sola: Pace. La stessa su cui ragionano Andrea Cozzo e Leo Di Simone. Il primo al pacifismo, «benemerito ma che può limitarsi alla protesta», preferisce la nonviolenza, ovvero la pratica attiva per la pace ed elabora una sorta di vademecum di interventi strutturali «per cacciare poco a poco, come si dice, la guerra fuori dalla Storia». Da qui la proposta, tra le altre, di rinunciare a tutto il gas russo, «se si ha davvero a cuore, non solo a parole, l’Ucraina» e cogliere l’occasione «per cambiare i nostri stili di vita e ridimensionare i consumi e l’inquinamento, e, facendo pagare i costi alle classi abbienti, per introdurre qualche grammo di giustizia sociale». Di Simone, riprendendo la riflessione pubblicata sul numero scorso intorno all’apocalisse della guerra che ci fa vivere «sull’orlo dei tempi ultimi di questo Evo», pare cristianamente dialogare con il componimento di Satriani quando scrive che «È l’amore la vera risposta al male e alla violenza, l’amore disarmato e crocifisso». Il teologo rilegge la storia bimillenaria della Chiesa che dilaniata da discordie intestine «troppo spesso si è illusa di combattere il male con le stesse armi dell’Avversario». Un’analisi che a tratti descrive un mondo «senza speranza teleologica, senza una possibile via d’uscita escatologica».
Alle categorie della politica riconduce il contributo di Gianluca Serra, che con ampio corredo di dati e documenti pone il problema delle spese militari da razionalizzare in un quadro europeo di saggia cooperazione e di intelligente economia, nella consapevolezza che ogni euro risparmiato sulle armi sarebbe destinato a colmare divari tra territori e diseguaglianze tra persone, così che «entrando in un nuovo ospedale, in una nuova biblioteca, in una nuova scuola sarà d’ispirazione poter trovare una targa che recita: “Bene pubblico realizzato con i risparmi sulle spese militari”». Da un’altra prospettiva Antonello Ciccozzi legge la guerra in Ucraina attraverso «la guerra delle narrazioni» e propone una riflessione, argomentata con rigore e passione che si offre problematicamente al dibattito, sul «rischio antropologico del riemergere di una concezione dello Stato nazionale come “società guerriera” in seno alla postmodernità occidentale», un tema sulle questioni dell’insorgere dei princìpi etnonazionalisti che sembrano ispirare e agitare la rovinosa infodemia del conflitto quale unica opzione possibile.
Si può raccontare questa guerra tanto pervasiva quanto paradossalmente sfuggente guardando agli aspetti più intimi, quotidiani e meno visibili, alle microstorie che documentano i fenomeni di adattamento, di domesticità, di comunità, le strategie di elaborazione culturale a fronte degli eventi di crisi e delle esperienze di vulnerabilità. Lo fa Giovanni Gugg che in questo numero ricostruisce le migrazioni di un’immagine oggetto di un culto allo stato nascente, il lungo percorso di una fotografia scattata nella metropolitana a Kyiv di una madre che allatta il bambino, ripresa e reinterpretata da un’artista, diffusa sui social-media e approdata in una parrocchia dell’hinterland napoletano dove la mamma ucraina diventa icona mariana, la Madonna di Kyiv. Un interessante processo di produzione e invenzione di una pratica devozionale, il cui sviluppo – conclude l’antropologo – «dipenderà dalla capacità con cui quell’immagine riuscirà ad inserirsi nel territorio, da come e quanto, allegoricamente, la Madonna ne sarà parte e partecipe».
Di “guerre silenziate” scrive infine Linda Armano, la quale, dopo aver passato in rassegna gli studi di antropologia della guerra, l’ampia letteratura e le numerose definizioni elaborate, interrogandosi sui parametri che stabiliscono come una guerra possa essere ritenuta tale, richiama l’attenzione sul drammatico caso delle residential school in Canada, «istituzioni costruite su pratiche di violenza legalizzata a danno delle comunità indigene» e in quanto tali assimilabili alla categoria di un vero e proprio genocidio, la forma più alta e crudele delle tecniche di annientamento dell’uomo, del dominio politico e degli esiti più devastanti di un conflitto armato.
La guerra in Ucraina, d’altra parte, nel suo parossistico incanaglirsi e dilatarsi nel tempo e nello spazio, che «spinge sempre più in alto il potlach della distruzione reciproca» – come scriveva Piergiorgio Solinas nel numero scorso (che vale la pena rileggere) –, nella crescente polarizzazione a sostegno della “costruzione del nemico”, ci racconta – tra le pieghe dell’infosfera attraversata da omissioni, distrazioni e contraddizioni – di pulizie etniche e di fosse comuni, di deportazioni, di atti criminali e di politiche di tipo genocidiario, così da porci davanti al rischio che si avveri la profezia distopica immaginata quasi un secolo fa da Il mondo nuovo di Aldous Huxley, dove la verità sfigurata non ha più identità e finisce col naufragare in un mare di irrilevanza tra le ragioni e i torti non più riconoscibili. Tra le balbuzie, gli strepiti e i mugugni della comunicazione tanto rapida quanto effimera della Tv. «Non c’è tempo di soffermarsi sulla parola – scrive Nino Giaramidaro – sul suo suono, sui suoi accenti, il ritmo che impone alla frase e al nostro senno. I predicatori della tv continuano – sì, impuniti – ad offendere le pause della lingua, le sue legazioni, le sue costruzioni, le sincrasi, le dieresi e tanti eccetera». Dialoghi Mediterranei continuerà a interrogarsi sulla legittimità dei dubbi, ma anche sul diritto alla conoscenza, sull’esigenza di chiamare le cose con il loro nome, sulla necessità di capire le dinamiche, i punti di vista, i segni visibili, le retoriche invisibili, le derive e le traiettorie di questa tragica infinita guerra, quanto più spettacolarizzata tanto più dissimulata.
In questo numero le migrazioni sono ancora una volta il tema connettore di numerosi contributi, migrazioni di uomini e donne ma anche di memorie, di storie, di parole, di immagini e di immaginari. Si torna a ragionare sul divario Nord-Sud in Italia nel drammatico contesto dell’attuale marginalizzazione del mondo mediterraneo, dove ancora oggi la cronaca non cessa di segnalare naufragi e stragi. Di scuola, di pedagogie “altre” e di buone pratiche didattiche scrivono alcuni autori che tracciano percorsi educativi interculturali innovativi e anticonvenzionali. Della presenza e del protagonismo delle donne nella vita quotidiana, nel lavoro e nei movimenti politici così come di cinema, di letteratura, di architettura, di filosofia, di poesia e come sempre di libri – appena editi o classici sempre nuovi – si offrono ampie proposte di lettura e di sollecitazione culturale, sfogliando le pagine di questo numero plurale e complesso. Si riscopre, nel centenario della nascita, uno dei più autorevoli filologici classici del Novecento, Sebastiano Timpanaro, ma si ricorda anche lo storico Paul Ginsborg, da poco scomparso, un inglese che aveva intelligenza del mondo e della vita e ha contribuito a far conoscere e capire agli stessi italiani il nostro Paese.
Particolarmente ricco e composito è l’album fotografico. Come è noto, attribuiamo alle immagini il potere di ricordarci il passato e di rieducarci alla bellezza del guardare, allo stupore dello scoprire, alla grazia dell’incantare, siano esse ricerca o testimonianza, sperimentazione creativa o sintassi narrativa, ispirazione estetica o ibridazione concettuale. La fotografia che si fa arte ci salva dalla soffocante ipertrofia delle produzioni visive contemporanee, ci insegna a soffermarci sui dettagli, a dialogare con il nostro tempo da angoli e mondi diversi. E diversi e unici sono gli sguardi dei fotografi: il racconto del rito arboreo di Accettura, il diario della mattanza di Carloforte, la memoria della casa dell’infanzia sigillata nelle cose sopravvissute, l’inventario della comunità di Agrigento, istantanee affettuose di ritratti e di strade, i cortili del centro storico di Palermo abitati e animati dalle devozioni popolari per la Santuzza, la rivisitazione artistica del museo del visionario Guatelli, le cronache degli eventi negli scatti di un fotoreporter della Rai narrate da uno scrittore, le rappresentazioni di una città immaginaria nel progetto di ricerca di un architetto e nella rilettura di un fotografo e infine i faticosi percorsi della rotta balcanica dei profughi alle frontiere dell’Europa.
Ne “Il centro in periferia” Pietro Clemente mette insieme ancora una volta un’antologia di testi che associano voci, riflessioni ed esperienze diverse, microstorie, testimonianze di attive e generose realtà periferiche che stentano però a trovare rappresentanza politica, progettualità di lunga durata e alleanze di ampio respiro. «La politica – scrive l’antropologo – anche in fase di PNRR, è ben lontana da investire sui luoghi. Attribuisce fondi, ma senza connetterli in un progetto, finirà per esserci una altissima dispersione, e un forte orientamento a investimenti culturali subalterni alle tendenze dominanti». Alla assenza di una mirata attenzione politica per lo sviluppo delle aree interne può supplire la coscienza di luogo, quella passione civica che sostiene il programma e l’azione dei ‘territorialisti’. «Forse – aggiunge Clemente – per vincere una battaglia come questa c’è bisogno di ‘credere’, c’è bisogno di ideologie, di sentimenti forti di comunità. Forse occorre tradurre le indicazioni prospettiche dei territorialisti, e quelle politico-economiche di Riabitare l’Italia e della SNAI in un percorso di alto valore simbolico, quasi religioso, visto che le implicazioni più forti non stanno solo nel tornare nei paesi, ma nel darsi una speranza per salvare la terra».
L’antropologo che rinnova idee e idealità in un indomito slancio progettuale ha compiuto da pochi giorni 80 anni e gli amici, gli allievi e i colleghi hanno a lui dedicato una intensa e partecipata giornata di studi. Ci siamo uniti in quella occasione agli auguri e alla gratitudine per la generosa e preziosa collaborazione che lo studioso offre a questa rivista dal n. 19 del 2016. Ad ascoltare i diversi interventi, le voci di chi ha testimoniato affetto, stima e riconoscenza ricordando le molteplici esperienze vissute insieme allo studioso, al docente, al maestro, a Roma, a Firenze, a Siena e in numerose altre città e località dove ha fatto ricerca e lasciato qualcosa di sé, ci siamo chiesti quante vite Pietro Clemente abbia vissuto fin qui, quante vite degli altri ha condiviso, quante persone ha incontrato e fatto incontrare nelle diverse stagioni del suo percorso umano e scientifico. Pagine e capitoli sempre nuovi e diversi di un romanzo che ha raccolto storie e mondi nuovi e diversi come nel segreto di una accogliente matrioska. Paziente costruttore di reti, tessitore di amicizie e sodalizi, di attività e comunità, di relazioni ed emozioni, incantevole narratore di memorie autobiografiche di uomini e cose, di luoghi e paesaggi, l’antropologo ha sempre amato attraversare i confini disciplinari, oltrepassare i modelli e i modi di fare ricerca dentro e più spesso fuori dell’accademia: dallo studio pioneristico sulla mezzadria toscana e sui canti di questua alla speciale attenzione per le storie di vita e le scritture popolari, dalla ricognizione degli oggetti di affezione e dei graffiti museali all’impegno per i temi del patrimonio dei beni culturali fino alla cura e ai progetti per lo sviluppo e il destino delle aree interne del nostro Paese.
«Dopo la crisi del marxismo e delle ‘grandi narrazioni’, mi sono abituato ai patchwork teorici», scrive Pietro Clemente in questo numero. Patchwork che negli accostamenti inconsueti ovvero negli “ossimori” cari allo studioso dispiegano scenari originali, rilanciano nuove avventure intellettuali sulla spinta di una inarrestabile tensione critica e di una giovanile energia creativa. Da qui l’impressione di aver partecipato, in verità, non semplicemente ad una giornata di festa e di felicitazioni per il suo compleanno ma anche allo «spettacolo meraviglioso di una cultura vista dall’interno di una vita, e di una vita vissuta all’interno di una cultura», per usare le parole del suo lessico familiare. Da qui la consapevolezza del debito che questa rivista ha contratto con lui, della riconoscenza per i suoi generosi contributi a questa piccola impresa artigianale ai margini della vita culturale del nostro Paese. Attraverso il suo appassionato ragionare sui temi dei luoghi e della coscienza dei luoghi, l’antropologo ci ha insegnato a ‘invertire’ lo sguardo, a fare perfino di questa nostra rivista periferica il centro di un dialogo col mondo.
Grazie Pietro, Auguri!
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022