L’incedere dell’autunno – nei versi del Poeta – «già lo sentimmo venire/ nel vento di agosto/ nelle piogge di settembre/ torrenziali e piangenti/ e un brivido percorse la terra/ che ora, nuda e triste,/ accoglie un sole smarrito». La metafora in poesia rischia di inverarsi nella angosciosa realtà di un presente prossimo venturo. La Terra “nuda e triste” è desertificata dalla siccità, incenerita dagli incendi, minacciata dai ghiacciai che si sciolgono, affaticata da un surriscaldamento climatico che non è più un’astrazione scientifica né la retorica di un monito ma un’apocalittica evidenza empirica. Il brivido che la percorre spoglia i greti dei fiumi riarsi, scatena la furia impazzita dei venti, scuote rovinosamente il già fragile equilibrio dell’ecosistema che il furore distruttivo dell’antropocentrismo ha via via consumato e logorato.
«Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui» ha scritto Claude Lévi-Strauss nell’ultima pagina di Tristi Tropici (1955). Descritto l’uomo «come una macchina, forse più perfezionata delle altre, che lavora alla disgregazione di un ordine originario e precipita una materia potentemente organizzata verso un’inerzia sempre più grande e che sarà un giorno definitiva», l’antropologo invitava a chiamare “entropologia” «questa disciplina destinata a studiare, nelle sue manifestazioni più alte, questo processo di disintegrazione». Un esito tanto più drammaticamente vicino quanto più «l’arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nel vuoto scavato dal nostro furore».
L’eco delle parole di Lévi-Strauss della metà del secolo scorso giunge ai nostri giorni densa di cupi e inquietanti presagi. Lo sciame dei fenomeni catastrofici investe tutti i continenti, la crisi su scala globale spinge impetuosamente ad un medesimo disperato destino tutti gli uomini. Ma l’emergenza non è soltanto ambientale, è più profondamente culturale. «Stiamo vivendo – ha dichiarato, in una recente intervista a La Lettura del Corriere della Sera (21 agosto 2022), Edgar Morin – una crisi più insidiosa, invisibile e radicale: la crisi del pensiero». Attardati sui cascami di Nazione, Stato, Patria, nell’orizzonte asfittico di un anacronistico sovranismo, accecati dal miraggio della crescita infinita e dal mito dell’assalto al cielo, non ci accorgiamo che «il vero problema oggi non è aumentare la potenza dell’uomo ma rafforzare le relazioni umane. Contro il sogno del dominio, si tratta di dominare il dominio […]. Non dobbiamo più opporre l’universale alla patria. Ma legare le nostre patrie (familiari, regionali, nazionali, europee…) e integrarle con la nostra unica patria terrestre». Così il filosofo e sociologo francese che ha appena compiuto 101 anni nel lascito di un messaggio che è ancora generosa testimonianza di umanesimo.
Invertire lo sguardo dal centro alla periferia, ci esorta nel suo reiterato appello da queste pagine Pietro Clemente. Oggi più che mai urge invertire la rotta suicida, per salvarci prima di essere travolti dalla risacca, prima di giungere al punto di non ritorno. Da qui l’attenzione per i luoghi, la cura per i piccoli paesi afflitti dallo spopolamento, per il mondo umano e culturale delle zone interne che è un po’ – scrive l’antropologo – come «rileggere in controtendenza la modernità». Potrebbe sembrare un’inezia – aggiunge – a fronte del devastante quadro planetario entro il quale «è sempre più complesso guardare positivamente alla rinascita delle aree marginali, se non per vederle come luoghi da ‘sfollamento’, come rifugio da possibili disastri climatici o bellici. È una fase complicata in cui è difficile pensare e progettare senza tenere nel conto l’apocalisse nel cui gorgo siamo finiti o stiamo finendo».
Ripartire dai luoghi e da quelli periferici da recuperare, da riabitare, da rivitalizzare, è paradigma di idee e di proposte da anni fil rouge che attraversa le pagine di Dialoghi Mediterranei. «Tutto comincia sempre nelle periferie, delle regioni, degli Stati, del mondo. Sono i luoghi avamposto, i luoghi esposti, i luoghi barricata, i luoghi fantasma, i luoghi vetrina». Così scrive Giuseppe Sorce in questo numero. Mentre «il caldo e i temporali si inseguono in una danza di morte, spettacolo e nichilismo», dobbiamo prima che sia troppo tardi tornare ai luoghi, fragili e indifesi, ripensarli e interrogarli, riascoltare le voci delle poche anime rimaste, per conoscere il futuro della Terra, l’avvenire dell’umanità. «Cosa possiamo e non possiamo fare ce lo dicono i luoghi, quel risultato narrativo del rapporto uomo-Terra». Ecco perché abbiamo bisogno di una nuova narrazione, di una contronarrazione, di una decostruzione critica delle rappresentazioni politiche e mediatiche che dei luoghi ipocritamente tradiscono identità e speranze, contrapponendo, per esempio, borghi a paesi, l’immaginario turistico neoromantico alla verità complessa e disincantata dei piccoli comuni.
Di narrazioni sui luoghi come segni e simboli di geografie culturali discriminatorie, fondate su «una gerarchizzazione dello spazio in luoghi ammirabili e luoghi disprezzabili, in luoghi desiderabili e in luoghi deprecabili, in luoghi a cui approdare e luoghi da cui fuggire», ragiona Antonello Ciccozzi nel suo contributo che muove da una polemica giornalistica per introdurre auspicabilmente un dibattito sul place shaming, inteso come razzismo territoriale. Dei significati connessi all’uso degli spazi scrive anche Linda Armano che ha studiato a lungo le comunità indigene tradizionali del Canada e ha concluso che «tutta la storia coloniale dei Northwest Territories si è tradotta, ed è consistita, in una mera intuizione: gestire lo spazio come un capitale (o una risorsa) significa gestire una forma di potere», laddove nell’ottica ecosistemica dei nativi il territorio ha un eminente valore simbolico e gli elementi naturali integrano fra loro le dimensioni culturali, religiose, storiche dei fenomeni e dell’esperienza sociale. Una lezione di tutela ambientale e una visione di futuro possibile che non abbiamo capito né recepito.
Più in generale di narrazioni, della loro straordinaria forza di influenza e penetrazione sociale e politica, della loro rilevanza antropologica per capire le dinamiche contemporanee delle società e dei poteri, si occupano nei loro scritti molti degli autori. Un’analitica ricognizione di Nicola Martellozzo dà conto del complesso mosaico delle teorie complottiste diffuse negli Stati Uniti, dalla tesi della “Grande sostituzione” sostenuta dal suprematismo bianco al prepotente ritorno dei post oracolari dei gruppi estremisti di Qanon, soprattutto dopo la recente decisione della Corte Suprema di rivedere la legge sul diritto all’aborto. Giovanni Gugg, che continua la sua lettura ‘laterale’ della guerra in Ucraina, documenta il crescente ricorso ai maghi e agli astrologi da parte della popolazione in Russia, una tendenza che più di qualsiasi indicatore economico rivela delle incertezze individuali e collettive, quando «negli sconvolgimenti improvvisi in cui l’ordine – almeno quello convenzionale – viene radicalmente disordinato, ci si pone insistentemente un interrogativo profondo sulle cause, sul senso complessivo da attribuire all’evento estremo e, pertanto, si cercano responsabilità, appigli, nessi causali che possano dare risposte rassicuranti rispetto alla disgrazia avvenuta». Dalla stessa guerra muove il racconto di Bruno Genito, «per approfondire e provare a conoscere meglio realtà geografico-culturali delle quali la maggior parte di noi occidentali non aveva mai sentito parlare, ahimè, prima». Apprendiamo della densità di stratificazioni di civiltà nel territorio del Mar Nero e dell’Ucraina centro-meridionale, complessi sostrati d’insediamenti ampiamente evidenziati «sia dalle fonti storiche che da quelle archeologiche», una lunga vicenda con una sua propria centralità e unicità culturale a dispetto delle letture etnocentriche e colonialiste che identificano il Paese come Stato cuscinetto. «Ciò ha reso quelle aree – conclude lo studioso – diverse e irripetibili e qualunque strumentalizzazione che si possa fare di esse a posteriori, in un senso o nell’altro, rischia di non far comprendere quali sono state le sue profonde complessità».
Narrare è voce verbale e fattuale per molti versi omologa alla pratica antropologica, e della sua funzione consustanziale ai processi filogenetici e neurologici della specie umana ha scritto il compianto Alberto Sobrero, «la cui attenzione per la narrazione – annota nel suo ricordo Piero Vereni – non è una forma di disimpegno in cui rifugiarsi una volta caduto il mito dell’oggettività scientifica, ma piuttosto un segnale di responsabilità ulteriore, conoscitiva e morale». La riflessione sulla sua eredità è occasione per una riconsiderazione del ruolo e degli orientamenti dell’antropologia contemporanea, «una disciplina non asettica, non cinica, in cui l’impegno rimanga quello di conoscere il proprio oggetto senza disseccarlo, ma anzi contribuendo con la nostra scrittura, e con la nostra voglia di narrarlo, alla sua vitalità».
Altri contributi in questo numero sollecitano un dibattito interno all’antropologia, intorno alla sua ridefinizione epistemologica nel concerto delle scienze umane e nell’ordinamento professionale. Letizia Bindi critica le politiche adottate dal Museo delle Civiltà di Roma nel recente riassetto delle collezioni e nella selezione degli esperti: «trasformazioni improntate a una crescente spettacolarizzazione dei contenuti e sul piano delle professionalità una tendenza a un forte accentramento di competenze – se possibile ancora maggiore che in passato – nelle mani di storici dell’arte». All’assenza sistematica degli antropologi nelle strutture museali si accompagna l’invisibilizzazione delle specificità disciplinari, anche per storiche debolezze della demo-etno-antropologia italiana nelle strategie di comunicazione pubblica e nel potere di rappresentatività della categoria. Meritano un approfondimento anche le questioni sollevate da Lia Giancristofaro sui criteri di valutazione delle commissioni della abilitazione nazionale sovente penalizzanti rispetto alle attività di studio riconducibili alla demologia e più in generale ai filoni tradizionali dell’antropologia “italiana”. La scomparsa o il pensionamento di maestri che hanno nel secondo dopoguerra ricostruito la disciplina e hanno contribuito a ridefinirne lo statuto, «non dovrebbe segnare – osserva la studiosa – l’interruzione dei percorsi di ricerca che hanno messo in cantiere coinvolgendo tanti antropologi (strutturati e non) tuttora attivi e militanti, in modo collaborativo, in un settore-chiave come quello dell’heritage». E infine: «Cosa caratterizza oggi l’antropologia culturale? Quali cambiamenti deve affrontare in Italia per rimanere competitiva rispetto a discipline affini che potrebbero “inglobarla”? Quanto, e fino a che punto, essa può ibridarsi e aprirsi ad altri approcci teorico-metodologici?». Domande urticanti e cogenti che si offrono ad una autoanalisi collettiva di tipo metantropologico ma anche ad un aperto e franco dialogo destinato a coinvolgere non solo gli addetti ai lavori.
A Luigi Lombardi Satriani, uno dei maestri richiamati da Giancristofaro recentemente scomparso, Dialoghi Mediterranei torna a dedicare ricordi e testimonianze di suoi allievi. Antonello Ricci ricostruisce la geografia e la genealogia di quella vasta scuola che attorno alla sua carismatica figura seppe attrarre «un nucleo di studiosi orientati e collocati in un preciso settore dell’antropologia italiana di quegli anni». Nel segno del viaggio – «metafora iscritta nel cuore della nostra disciplina» – Laura Faranda ricompone la mappa delle diverse tappe di ricerca in compagnia di Luigi Lombardi Satriani, dalla Casa Museo Uccello di Palazzolo Acreide nel 1978 al soggiorno di studio in Senegal a Dakar nel 1992 e poi in Tunisia nel 1998 e nel Mali nel 2006 per tornare infine alla sua Calabria, all’eremo di Santa Maria del Bosco, a Serra San Bruno, «lo spazio sacro nel quale accorrevano gli spirdati», perché Luigi era «un viaggiatore malinconico e nostalgico» e sentiva nelle sue migrazioni il richiamo irresistibile del “campanile di San Costantino”». Il giovane Gianluca Martini, invece, raccoglie nella sua tesi di laurea le ultime interviste realizzate in un intenso colloquio con Lombardi Satriani – una sorta di autobiografico bilancio delle sue molteplici esperienze umane e intellettuali – di cui in questo numero si riportano alcuni inediti e significativi stralci.
Il testo che pubblichiamo di Fabio Dei è stato presentato nella giornata di incontro e di studio tra numerosi colleghi in occasione dell’ottantesimo compleanno del suo maestro Pietro Clemente: si tratta di «una raccolta di memorie e suggestioni centrate sul momento di passaggio fra gli anni Ottanta e i Novanta, e sulla fase in cui Pietro si spostava da Siena a Roma, dando vita fra le altre cose alla rivista Ossimori». Sono pagine quanto mai utili per «tornare nel dettaglio al clima di quegli anni cruciali – alle letture, ai dibattiti, alle riviste, ai progetti – serve forse a capire meglio quello che siamo o non siamo diventati dopo». Nell’evoluzione del profilo scientifico di Clemente si riverberano infatti le felici traversate e gli accidentati tornanti di una buona parte dell’antropologia italiana, “i turbamenti epistemologici” che lo hanno portato sempre più «a cercare la verità in quell’effimero contatto fra singoli soggetti umani in cui in definitiva l’etnografia finisce sempre per consistere, e che viene spesso colta dalla parola o dall’intuizione poetica più che dall’oggettivazione “scientifica”».
Sperimentale ed eccentrica è l’antropologia praticata da Stefano Montes, un esercizio originale di scrittura ispirato a un tono volutamente conversazionale, un’etnografia riflessiva che si muove tra stile narrativo e lettura semiotica, in una cornice etnoprammatica e decentrata su aspetti e momenti della quotidianità che fa della datità spaziale e temporale della vita nuda il “campo”. Nel contributo a questo numero si pongono in dialogo le parole dell’autore e le immagini scattate dal figlio Mattia intorno alla descrizione e osservazione di un mercato palermitano, teatro per antonomasia della sinestesia e dell’iperbole. In questa prospettiva densa di riferimenti alla letteratura specialistica si applica «un metodo di ‘incursione antropologica’ che mette l’accento sul processo e il percorso vissuto in prima persona». Esempio di altre vie ed esperienze possibili di fare ricerca, di indagare e ragionare sulla pluralità e unicità delle culture, nel solco pur sempre di una disciplina storicamente tra le più indisciplinate e ribelli delle scienze umane.
La riflessione che il teologo Leo Di Simone propone sulle connessioni complesse, arcaiche e profonde tra arte e religione, «sottile filo rosso di affastellante simbolicità», si può certamente leggere in chiave propedeutica ad un dibattito più ampio sull’antropologia del sacro, tanto più che l’autore confessa di aver lanciato soltanto un sasso. «Un sasso che provochi una più osmotica relazione tra studiosi di discipline umane, teologi, artisti ed esteti». In questo numero le fotografie di Melo Minnella offrono già una preziosa documentazione etnografica sulle tecniche e i modi del pregare che «del linguaggio della religione è forma ed espressione più liberamente affrancata dai dogmi e dalle identità teologiche, e tra i riti del sacro è sicuramente quello più semplice e più diffuso, più popolare e più universale». Nella sezione Immagini affiorano altre narrazioni e altre suggestioni su riti e comunità, su paesi e tradizioni, appunti su un’antropologia dei luoghi raccontati e illustrati dai fotografi, sovente nel rigore espressionistico del bianco e nero: Castelbuono, Palermo, Carrara, Lucca, Scapoli, Il Cairo, cui si aggiungono Istanbul, Lemno, Selinunte, Avola, Fiamignano, Amatrice, Zeppara, Messina, Topolò, Rapone, Bisinchi, Zarzis, città antiche e moderne, località note e sconosciute, mitiche o marginali, piccoli centri, minuscole e misconosciute contrade di provincia di cui scrivono i diversi autori nei loro rispettivi contributi alla eclettica rassegna di questo fascicolo.
Un’antologia che, tra i tanti testi di interesse storico, artistico e letterario, comprende il commosso ricordo del linguista Luca Serianni e quello del folklorista Dante Priore, scomparsi di recente, figure lontane e diverse per generazione e per formazione eppure comparabili e assimilabili nel rito della memoria che resta preminente responsabilità etica e culturale nella linea editoriale di Dialoghi Mediterranei. Soprattutto in anni come quelli che stiamo vivendo, «anni questi – scrive Franca Bellucci nell’incipit delle sue stimolanti Divagazioni – che sembrano una faglia nel tempo: nella linea che disegnavamo progressiva nel tempo». Anni di traumi collettivi irrisolti, di vertiginosa accelerazione della storia nei mutamenti climatici e nel moltiplicarsi dei rischi della sopravvivenza, tra interminabili guerre e gli immensi costi umani in stragi, carestie e migrazioni, possibili fughe radioattive dalle centrali nucleari, pandemie globali, gravissime crisi energetiche ed economiche, un groviglio inestricabile di tensioni, di minacce e di sfide in uno disordinato e instabile scenario geopolitico.
L’autunno in Italia è sempre stato ‘caldo’ e difficile. Quello che si prepara, oltre ai problemi del carovita, dei probabili razionamenti e della temuta bancarotta, evoca scellerati blocchi navali e preoccupanti progetti di limitazione dei diritti delle minoranze e dei princìpi democratici della solidarietà sociale. Ancora una volta la questione dei profughi e dei migranti è tornata al centro delle cronache elettorali, per propalare insicurezze e intolleranze, paure e odio, un inquietante amalgama che ha già prodotto i frutti velenosi del razzismo. Torna il lessico che celebra il feticismo dei confini, lo stigma dello straniero, la retorica cinica delle parole d’ordine irridenti contro ogni esperienza di accoglienza. Torna il Mediterraneo all’attenzione pubblica con gli sbarchi annunciati che affollano il centro di Lampedusa e i naufragi invisibili che riempiono di cadaveri le terribili foibe del mare. Rischia di tornare la criminalizzazione dei soccorsi prestati dalle ultime navi della società civile, la proclamata chiusura dei porti, la sistematica violazione degli obblighi imposti dalle convenzioni internazionali.
A questo proposito vale la pena leggere le pagine di un libro, Salvarsi insieme (Ponte delle Grazie, 2020), che è la storia di un salvataggio in mare di settanta persone, il racconto, toccante e appassionato, di Alessandra Sciurba che ha partecipato in prima persona nel luglio del 2019 alle operazioni di recupero dei naufraghi in un tratto del Mediterraneo controllato dalla Libia. Contro l’indifferenza delle istituzioni dei governi europei, i prolungati silenzi del centro di coordinamento marittimo italiano, i tentativi delle motovedette libiche di sequestrare i profughi, l’insensato divieto all’approdo al porto di Lampedusa, gli uomini e le donne a bordo dell’imbarcazione si sono riconosciuti simili, si sono presi cura l’uno dell’altro, stringendosi nel vincolo di una strenua e coraggiosa resistenza a difesa dei diritti e della dignità della persona. E quando sono finalmente sbarcati l’autrice legge negli occhi di un giovane sopravvissuto qualcosa che assomiglia alla felicità: «Lui è felice, così felice, perché ha l’Italia davanti, ad un passo. Quanto ne ha fatti, di passi, per arrivare fin qui. Tutti quei giorni e quelle notti, tutto quell’inghiottire violenza a violenza, la fatica che non si può raccontare. (…) Potessimo, noi, che ci siamo nati, guardare la nostra terra come sta facendo lui. Ricordarci la fortuna di abitarla per ciò che di buono è stato conquistato, che poi è esattamente ciò che lui è venuto a cercare: libertà, e poi diritti, e pace, la pace». Parole di speranza nella comune umanità, parole che ci aiutano forse a capire meglio cosa davvero succede in quel mare, chi sono i cosiddetti clandestini, chi siamo noi.
Nel frattempo, mentre può dirsi definitivamente naufragata ogni ipotesi di riforma della legge sulla cittadinanza, così che i figli degli immigrati nati e scolarizzati in Italia resteranno ancora a lungo apolidi, questo nostro vecchio Paese non riesce a fermare il progressivo e catastrofico declino demografico, a riabitare le aree interne spopolate, a riprodurre la vita delle piccole comunità periferiche, a costruire una qualche idea di futuro. Che l’immigrazione non sia questione di ordine pubblico né di semplice soluzione filantropica ma piuttosto fenomeno complesso che riguarda alla radice nodi strutturali della demografia e dell’economia è tema che Dialoghi Mediterranei ha posto fin dalla nascita al centro della sua ragione editoriale, trama che dipana e connette i diversi fili di ogni nostro discorso, impegno civile e culturale destinato a rinnovarsi finché non si farà finalmente del Mediterraneo una questione europea, ineludibile crocevia delle politiche di dialogo e di cooperazione internazionale.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022