Stampa Articolo

EDITORIALE

Corpi (ph. Francesco Faraci)

Corpi (ph. Francesco Faraci)

Sarà perché l’Albania è tornata protagonista nelle cronache di queste settimane ma nell’aria sembra soffiare un vento coloniale d’altri tempi, quando il Paese delle Aquile era un pezzo d’Italia esportato nell’altra sponda adriatica.

Nel dibattito pubblico il colonialismo è pratica politica dissimulata nella esternalizzazione delle frontiere e nella delocalizzazione di quei Centri di rimpatrio destinati a trattenere i migranti trasferiti come merce, simbolicamente e fattualmente deportati come i condannati ai campi di concentramento. La nuova “campagna d’Albania” progettata per dare visibilità all’orgogliosa immagine propagandata dell’identità nazionale fuori della nazione porta gli stessi segni dell’ignominia militare del 1939, lo stesso disonorevole quanto grottesco fallimento.

Nelle forme e nelle edizioni rinnovate, il colonialismo è storia che non è mai finita, restando la sua politica incistata nello sguardo etnocentrico, nella postura xenofoba, nel linguaggio razzista, tutte azioni e pulsioni esercitate contro i migranti, gli stranieri e le minoranze etniche. Coloniale è il concetto di patria inteso come suolo sacro non solo da proteggere ma da espandere per un diritto di primazia della nazione. Coloniale è la concezione della cittadinanza, impastata di terra e di sangue, privilegio per escludere e non riconoscimento per includere. Coloniale è infine la stessa idea di Stato che, unico  depositario di valori etici e pedagogici, stabilisce per legge come debbono nascere i figli e come debbono morire i cittadini, come deve essere formata la famiglia e come debbono essere educati gli adolescenti. Un regime culturale che rischia di trasformare la convivenza civile in una distopica amministrazione di reati e di pene, nella dismisura di divieti, censure, rimozioni e repressioni per sorvegliare e plasmare, addomesticare e assoggettare le varietà e molteplicità dei modi di essere umani e di stare nel mondo.

In questo contesto politico discutere sull’idea del progresso e sul suo uso in antropologia come ci ha invitato a fare Fabio Dei sul numero di settembre diventa occasione per ripensare alla radice il ruolo dell’Occidente in quel sistema di pensiero fondato sulle gerarchie di popoli, civiltà ed etnie, per riconsiderare la vecchia e insoluta questione della valutazione qualitativa delle culture, il peso dei cascami di un eterno evoluzionismo propaggine del fardello coloniale e postcoloniale. Il dibattito a cui hanno partecipato antropologi di scuole e generazioni diverse attraversa la storia degli studi, ne ricapitola snodi e svolte ermeneutiche, s’interroga sui rischi di certe tendenze antilluministe mentre continua a ricercare la via di uscita tra le opposte spinte centrifughe del relativismo dei punti di vista e dell’universalismo dell’oggettività scientifica. Una ricerca quest’ultima da ridefinire e riorientare criticamente alla luce del decentramento della disciplina, del protagonismo di studiosi del mondo non occidentale, dell’allargamento dell’orizzonte epistemologico comprensivo di nuovi soggetti e nuove soggettività.

Quel tenace concetto di progresso che scorre come un fiume carsico nelle rappresentazioni mentali e nelle irriflesse categorizzazioni del tempo va riguardato – scrive Letizia Bindi – «dal margine della specie anthropos», così da «de-costruire i pilastri dell’autoreferenzialità umana» riconoscendo agentività negli animali e mettendo in luce «le contraddizioni profonde della relazione tra produzioni, crescita economica, stili di consumo, salute e benessere umano e animale, salvaguardia ambientale, sostenibilità e conservazione della biodiversità». Se non è possibile separare la vita degli uomini da quella delle altre specie viventi, l’antropologia contemporanea è chiamata a fare i conti con i limiti della capacità espansiva dell’Antropocene, con quella idea di sviluppo a cui è rovinosamente intrecciata quella di progresso, come precisa Linda Armano nel suo intervento. Dal canto suo, Federico Scarpelli nel passare in rassegna la letteratura antropologica più recente, attardata tra il primitivismo irrazionalistico, lo sciovinismo occidentalista e il razionalismo cratofobico, suggerisce di superare fuorvianti e abusate dicotomie, individuando la compatibilità di un certa lettura progressiva con «il riferimento a un universalmente, elementarmente, razionalmente umano che traspare “nelle” differenze culturali e non “sotto” di esse, che non cancella il ruolo della diversità ma neanche prevede che si trasformi in impermeabilità».

Nel comparare i contesti culturali per valutarne quale sia più progredito Nicola Martellozzo invita a spostare la prospettiva: «anziché un solo e unico movimento orientato, perché non immaginare una serie di avanzamenti che partono da punti diversi, seguono traiettorie differenti con valori differenti, procedendo però nella medesima direzione? In altre parole, pensare a una convergenza», un principio da declinare non più semplicemente al passato ma piuttosto al futuro. Pietro Vereni propone invece «un ribaltamento induttivo» per discutere di «gerarchie interculturali» secondo «un metro transculturale», un’unità di misura comune – cognitiva e morale – applicata su temi specifici, quali per esempio la parità di genere, la tolleranza per la diversità, la libertà di espressione. Muovendo dall’esperienza di precise ricerche etnografiche sul campo, Fulvio Cozza riconduce il concetto di progresso all’elaborazione di determinati modelli narrativi «capaci di orientare le aspettative e l’azione di un gruppo umano riguardo al passato, al presente e al futuro». Da qui la sfiducia oggi largamente diffusa che, secondo lo studioso,  si spiega «di volta in volta nei termini della nostalgia per un’età dell’oro, dello scetticismo verso le innovazioni e della critica al degrado dei tempi moderni». Tanto più – aggiunge Giuseppe Sorce – che «guerre vecchie e nuove hanno prepotentemente messo in discussione la sottile linea che separa sopravvivenza e diritti umani, “noi” e “loro”, geopolitica e solidarietà» così che il tema del progresso di fronte ai conflitti finisce col convocare l’antropologia ad una ineludibile scelta, ad un pensiero militante. Un ritorno in fondo alla ragione umana che – come auspicava Fabio Dei nella sua sollecitazione alla  discussione – passata attraverso tutte le sue “crisi”, resti però lo strumento e la garanzia della conoscenza pubblicamente condivisa, di un’azione volta al miglioramento delle condizioni della vita umana attraverso la scienza e la tecnologia, e all’eliminazione da essa della violenza, dell’oppressione e dell’ingiustizia».

Il dibattito, qui riassunto in modo assolutamente parziale e approssimativo, offre davvero un confronto aperto e plurale di voci e di posizioni, un dialogo costruttivo, uno spaccato eterogeneo di approcci teorici e metodologici all’analisi di una nozione  scivolosa e per certi aspetti imbarazzante. Un contributo che in qualche misura restituisce all’antropologia la sua precipua funzione di comprensione di come costruiamo gli orizzonti di senso delle conoscenze e delle interpretazioni dei fatti culturali. Guardando come sempre a questo nostro tempo così cupo e così difficile, ai temi più inquietanti dell’attualità, i contenuti dei diversi scritti presenti in questo numero ragionano su genocidi e diritto umanitario internazionale, su Gaza e le responsabilità dell’Occidente, sui fenomeni del cancel culture e del politicamente corretto, su Islam, fondamentalismo e religiosità dei migranti, sulle posizioni della Chiesa rispetto alla guerra, sulle donne e il caporalato, sulle Olimpiadi di Parigi e le ambigue relazioni tra sport e salute, e ancora una volta sul turismo “delle radici” e su quello “ecumenico”. Alla presenza degli italiani e dell’italiano nel mondo è dedicato uno spazio di approfondimento che aiuta a comprendere le eredità del colonialismo, il ruolo della lingua nelle esperienze di insediamento e nei processi di integrazione delle comunità. Pagine di storia e di memoria, esiti di originali ricerche che vanno lette e meditate incrociando quelle vicende con le cronache di oggi, con le tormentate dinamiche di accoglienza, socializzazione e acculturazione che investono le vite dei profughi e degli stranieri nelle società contemporanee.

Pietro Clemente racconta “il dolore del mondo”, intreccia sul filo della memoria autobiografica le guerre del secolo scorso e quelle che si combattono in Ucraina e in Medio Oriente: «Mi tornano alla mente – scrive – i movimenti di liberazione del Vietnam e dell’Algeria, l’oppressione coloniale in Algeria e quella neocoloniale del Vietnam. (…) Non amo – aggiunge – le analisi generali di tipo deduttivo all’insegna della parola neocolonialismo. Ma come si può chiamare il rapporto di Israele con i palestinesi che vivono entro il suo territorio, perseguitati e segregati, con i campi profughi, i bombardamenti quotidiani e i morti di ogni giorno?». La “grande cecità” che affligge il nostro sguardo ci impedisce di riconnettere Gaza ad Aleppo, Beirut a Sarajevo. Una storia “di lunga durata”, realtà parallele di orrori, di città martiri, di sconfitte del diritto umanitario e fallimenti della diplomazia internazionale. «Mentre il tempo che viviamo ci fa sentire stranieri – osserva l’antropologo – quello che più dappresso studiamo e sentiamo prossimo, quello delle periferie che si fanno centro, è anche un insieme complesso, discutibile, stravagante, diversificato, di possibili patrie culturali, zone di resistenza, nicchie di risposta alla guerra dilagante, forse rifugi futuri dove valga la pena di resistere e anche di mettere al mondo dei figli»,

Se il progresso descrive una qualche traiettoria questa, sembra dirci Pietro Clemente, indica un mondo possibile nelle aree interne di quell’Italia periferica e minore da riabitare, da riscoprire, da salvare sottraendola al destino della emarginazione e della desertificazione. Di progresso malinteso o tradito, di ingenue retoriche ecologiche o di ambigue prospettive di magnifiche sorti e progressive attraverso la transizione energetica si discute nello spazio dedicato alla Sardegna, dove da mesi ci si divide tra progetti politici e petizioni popolari sulla introduzione delle pale eoliche in una vertenza qui compiutamente riassunta dagli interventi di esperti specialisti e rappresentanti dei movimenti. Nelle pagine sulla Tunisia si dà conto del Paese ancora vivo nelle sue manifestazioni culturali, nonostante le incertezze della profonda crisi politica ed economica: si descrivono mostre, concerti, spettacoli di danza, si illustra l’opera di David Bond, pittore scozzese che ha abitato per diversi anni a Tunisi e ne ha riprodotto il paesaggio urbano in preziosi e minuziosi acquarelli; scopriamo il talento di Malek Sebai, direttrice artistica del Ballet de l’Opéra de Tunis, la prima ballerina tunisina ad aver fatto parte del Balletto Bol’šoj a Mosca; conosciamo il festival Dream City, che tra la fine di settembre e i primi di ottobre trasforma la Medina in un animato centro di arte disseminata con opere pittoriche, video-installazioni, documentari, performance  musicali. Promotore un gruppo di giovani creativi che cerca nelle sperimentazioni estetiche tra locale e globale una alternativa all’emigrazione. 

Chiudono il numero i capitoli sul cinema e sulla fotografia. Il film scelto per la lettura collettiva è “La bocca dello stomaco” di Giuseppe Carleo, un’opera che racconta il processo di iniziazione del mago, il travagliato percorso di trasmissione dei poteri e del riconoscimento comunitario della sua identità e del suo ruolo sociale. Nell’album delle immagini si raccolgono invece sguardi diversi sul mondo, personali registri espressivi, stili anche dissonanti, ricerche formali eterogenee. Ma tutte confermano la funzione immersiva della fotografia, la sua capacità di penetrazione in una dimensione “altra” della realtà, la sua cifra iconografica che tanto più sembra avvicinarsi alla verità effettuale quanto più simbolicamente se ne distanzia, per aiutarci a conoscerla e insegnarci la differenza tra guardare e vedere

A pensarci bene, l’efficacia simbolica di cui ha scritto Lévi-Strauss è, in fondo, ciò che fa di un’immagine una fotografia d’autore. Così è, per esempio, per quella di Francesco Faraci posta in apertura a questo editoriale: un ragazzo disteso su un  vecchio divano abbandonato in una discarica, volge in alto il suo sguardo sognante con alle spalle una scritta trasgressiva e sullo sfondo nelle luci della sera lo sky line di una periferia palermitana tra le più degradate. Come rappresentare meglio il desiderio di un altrove, l’anelito alla bellezza, la speranza di un riscatto possibile in mezzo al contesto di brutture, sfacelo e violenze? Come non identificare in questo adolescente costretto a crescere in un avamposto di frontiera la condizione di tutti quei giovani che nonostante difficoltà, incomprensioni e respingimenti hanno diritto a sognare il proprio futuro, a immaginare un altro mondo, un’altra vita? Come non vedere in questa fotografia, che mette materialmente la periferia al centro, il margine nel fuoco dello scatto, l’invito a invertire simbolicamente lo sguardo, decentrare il punto di vista, incrociare gli orizzonti umani e culturali, come Dialoghi Mediterranei con tutti i suoi limiti da settanta numeri tenta di fare?

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Editoriali. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>