Non è la prima volta nella storia che il largo consenso popolare alle decisioni di un governo non coincida affatto con le ragioni profonde e il bene ultimo del Paese governato. In democrazia le maggioranze legittimate dal voto non sono di per sé necessariamente garanti né della buona amministrazione del presente né, soprattutto, della lungimirante e giusta visione del futuro collettivo. La rappresentanza politica e formale non è meccanicamente sovrapponibile alla rappresentatività sociale e sostanziale. Bobbio ci ha insegnato che democrazia e principio maggioritario non sono due concetti della medesima estensione, essendo strutturalmente delicato il complesso sistema che si basa sull’equilibrio delle istituzioni di controllo, sull’articolazione dei diritti e sulla divisione dei poteri.
La verità è che l’eccesso di consenso – oggi tecnologicamente e pervasivamente influenzato – può produrre torsioni illiberali fino a reprimere ogni dissenso, che è, invece, misura e paradigma dello stato di salute di ogni democrazia. I totalitarismi del Novecento hanno potuto contare sulla quasi unanimità delle masse plaudenti o indifferenti con i tragici esiti che conosciamo.
In questo numero di Dialoghi Mediterranei non si discute dei meccanismi giuridici che definiscono lo statuto delle democrazie e ne regolano l’esistenza e la funzionalità. Né si entra nel merito delle sottili questioni di filosofia politica che agitano il dibattito pubblico intorno ai processi di formazione e trasformazione degli ordinamenti costituzionali. Ci s’interroga piuttosto sulla fenomenologia del consenso, sulle dinamiche antropologiche che spiegano quanto può apparire incomprensibile, incredibile o bizzarro, sul senso dissimulato nell’insensatezza dei fatti di cronaca. Una rivista che dialoga con la contemporaneità non può non occuparsi di quanto sta accadendo nel convulso panorama geopolitico che conosce improvvise accelerazioni e profondi sovvertimenti dell’ordine mondiale. Come non ragionare sul disfacimento dei principi e dei valori fondamentali enunciati nelle Costituzioni democratiche del Novecento, sul ritorno degli Imperi e dell’imperialismo con le pratiche belliciste, estorsive e neocoloniali delle spartizioni territoriali, la ferinità delle ragioni di Stato che valgono a giustificare la violazione di tutte le norme del diritto internazionale, i respingimenti di massa dei migranti, i genocidi e le annunciate deportazioni di interi popoli nonché il rovesciamento dell’etica pubblica piegata agli interessi privati dei nuovi oligarchi?
Da qui l’ampia rassegna di contributi sul controverso fenomeno dei trumpismi, sulle forme di evoluzione (o di regressione primitiva) dell’autoritarismo in tecnocrazie che seducono e trovano maggioranze favorevoli nell’opinione popolare, su questo potere esternato in narrazioni epiche e incarnato in figure trasgressive, sovversive e salvifiche. Figure per certi aspetti mitologiche in cui si identificano frustrati, marginalizzati e impauriti in attesa di riscatto, di emancipazione e di rassicurazione. L’immaginario soccorre i deficit della realtà, surroga i desideri inappagati. Lo sanno gli antropologi chiamati da Pietro Vereni a non sottovalutare le forze simboliche che strutturano il potere e plasmano il consenso. «Invece di considerare il successo di Trump come un’anomalia – scrive – dovremmo interrogarci su quali siano le condizioni culturali che rendono una figura del genere così efficace in un contesto politico contemporaneo». E aggiunge: «La rielezione di Trump non è l’affermazione di un leader individuale, ma il sintomo di un più ampio bisogno antropologico: quello di una politica che torni a essere misurata sul senso comune dei cittadini di cui tratta e a cui deve garantire non solo servizi, ma anche strutture di sentimento sentite come ordinarie, ovvie, maggioritarie». Giovanni Gugg richiama, d’altra parte, il ruolo del “meraviglioso” nel nostro rapporto con il potere, con la tecnologia e con il concetto stesso di leadership. Un meraviglioso digitale destinato a risolversi in distopia politica.
A guardar bene, Trump e Musk non sono alieni né affatto estranei alla cultura digitale contemporanea. Sembrano essere piuttosto rispettivamente Trickster e Joker del nuovo millennio: il primo è «un “buffone sacro”, una figura che nel rito sovverte le regole per poi riaffermarle sotto nuove forme» (Vereni), «un archetipo del villain», «signore del caos dei mondi fantasy», «un catalizzatore di tensioni profonde» (Gugg), simbolo che «incarna il rovesciamento. Un rovesciamento né rivoluzionario, né riformista o progressista. Un rovesciamento punto» (Sorce). Una sorta di sciamano post moderno che deforma la realtà in iper-realtà e la menzogna in post-verità. La semiologa Valeria Dattilo scrive che «la realtà come referente è gradualmente messa tra parentesi, e quindi completamente cancellata; a noi non restano altro che “effetti di senso”». E sulla narrativa del trumpismo tanto efficace quanto inverosimile e inattendibile Fulvio Cozza sottolinea il radicale cambiamento nella grammatica della prossemica e dello stile comunicativo e osserva che «con Donald Trump la figura del “bianco americano” sembra essere stata sottoposta a un processo di patrimonializzazione, insieme a tutti gli stereotipi e le sue manifestazioni concrete: le sue abitudini disdicevoli, il suo ciarpame pacchiano, il suo spirito schiavista, il suo capitalismo anarchico, il suo atteggiamento sprezzante nei confronti della comune umanità e dunque il suo razzismo orgogliosamente ostentato». Così pure Leandro Salvia, attento alla strategia di comunicazione volta a «sfruttare al massimo la tendenza dei social alla polarizzazione del pensiero», annota che «estremizzare i toni del dibattito aumenta la fiducia dei sostenitori, ma anche la profondità del solco che separa dagli avversari».
Non sfugge all’analisi il ruolo dell’immobiliarista, del miliardario che nella sua spregiudicatezza può “acquistare” Gaza e “vendere” l’Ucraina, assimilando la deportazione degli abitanti a quella delle merci, «in quanto per Trump – rileva Massimo Canevacci – non esiste una differenza filosofica o teologica tra persone e televisori» e la sua concezione turistica della politica internazionale confonde proprietà e sovranità «in una logica imprenditoriale fondata sulla disponibilità di risorse economiche e sulla capacità di comprare e di operare liberamente grazie a quel titolo». Così Marxiano Melotti, il quale ragiona a fondo sulla «resortizzazione trumpiana del mondo», sul suo «approccio liquido, post-moderno, post-statuale e iconoclasta che lo porta a mescolare quella visione con l’azione politica».
Non diversamente la figura di Musk condivide quell’universo antropologico fatto sostanzialmente di colonialismo ed etnocentrismo, dominato dalla supremazia del mercato e dal suprematismo bianco, connotato dall’ambivalenza strutturale che – puntualizza con acume Giovanni Gugg – «riflette le tensioni profonde della contemporaneità, divisa tra il sogno di un progresso illimitato e il bisogno di ritrovare una connessione con le emozioni più primordiali». Questo “tecnopopulista inquietante” è infatti come Trump figura polarizzante, «un personaggio che, se da un lato promette il progresso, dall’altro evoca paure legate al potenziale abuso del potere tecnologico e mediatico». Entrambi partecipano del primato della corporeità ovvero dell’uso estremo del corpo nella gestione mediatica della competizione e del consenso politico. Il volto torvo e minaccioso di Trump come i gesti equivoci di Musk, gli sguardi di sfida, le posture muscolari e le pose machiste valgono a ribadire gli inestricabili intrecci simbolici tra corpo e potere e a risignificare la comunicazione non verbale adottata nella propaganda. «Il registro indecidibile del grottesco e del goliardico – scrive a questo proposito con particolare rigore e vigore Letizia Bindi – sembra così costituirsi come uno strumento consapevole del linguaggio politico suprematista in cui corpo, segni, stereotipi come quelli dell’eroe vichingo quasi animalesco concorrono alla costruzione di un immaginario politico giocato sui registri della guerra, della dominazione, della prevaricazione».
In questo contesto e nella torsione semantica del linguaggio della rappresentazione dei media quanto era impensabile, incredibile e indicibile ieri può diventare pensabile, credibile e dicibile oggi. Così è per il fenomeno della deportazione che è un altro focus di questo numero, in tutta evidenza connesso al tema dei trumpismi. Lo storico Salvatore Speziale ne ricostruisce puntualmente le vicende che hanno attraversato ogni età e ogni latitudine, avendo l’Occidente e l’Europa la prerogativa dell’esportazione di questa pratica. «È assodato – conclude il suo denso excursus – che uomini continuano pericolosamente a provocare nuove deportazioni ed emigrazioni forzate, o a gestire quelle già avviate da tempo. Da altrettanto tempo, essi tentano con tutti i mezzi di deportare la storia e la memoria, banalizzandole, reinventandole, piegandole a una visione selettiva, parziale e strumentale». Anche nell’analisi del sociologo Enzo Pace sono individuate e chiarite le connessioni della cronaca con la lunga storia della caccia all’uomo, le tragedie umanitarie del passato consumate in nome dell’ideologia nazionalista di una terra, una lingua, una fede. «Abbassare il livello delle garanzie legali e screditare la funzione di autorità transnazionali nella tutela dei diritti fondamentali della persona sono sintomi di un malessere profondo delle società liberal-democratiche».
Sembrano dialogare i due contributi di Franca Bellucci e Sergio Ciappina che ragionano intorno al concetto della deportazione approfondendo significati lessicali, storie di vita e citazioni letterarie e richiamandosi entrambi, tra gli altri numerosi riferimenti storici, all’esperienza di Dante Alighieri, ghibellin fuggiasco. Mentre Aldo Aledda si chiede «fino a che punto si potrà spingere l’irruenza di un Presidente “picconatore” in un Paese fondato quasi 250 anni fa, caso insolito nella storia, come una democrazia aperta ed equilibrata e non come evoluzione di monarchie assolute, come era capitato alle grandi potenze europee», Roberto Settembre, che sviluppa una serrata argomentazione sugli ineludibili e travagliati rapporti tra etica e politica, tra giustizia e realpolitik, si interroga infine se «è morale mettere sul piatto della bilancia dell’ “interesse nazionale” la morte di migliaia di persone, affogate nel Mediterraneo, perite di sete nel deserto africano, deportate, uccise, violentate, torturate, vendute come schiave, e usate come merce di scambio per fare quattrini, e sull’altro le forniture energetiche e l’incolumità dei cittadini italiani, civili e militari, presenti sul territorio libico, e potenzialmente ostaggi dei criminali ai quali l’Italia ha fornito mezzi, strumenti, addestramento e danaro per commettere quei crimini, e aggiungervi la necessità di scongiurare un flusso inarrestabile di migranti».
A proposito di Gaza e del suo destino Chiara Sebastiani parla di urbicidio, definizione che segna «il passaggio dal linguaggio della politica a quello del mercato, dalle parole degli abitanti alla terminologia degli immobiliaristi, dalla semantica delle memorie, delle tracce, dei segni di un popolo alla stima dei costi e benefici dell’investimento, al netto del costo della rimozione delle macerie». Giuseppe Savagnone, scettico sulla pace in Medio Oriente promessa da Trump, teme che «se un giorno verrà, sarà rappresentata da un resort di lusso costruito sulle macerie materiali e umane di un popolo crocifisso». La verità è che da questa guerra – sostiene Giacomo Vaiarelli – usciranno sconfitti sia gli israeliani che i palestinesi: «i primi perché è molto probabile che vedranno rinascere dalle macerie di Gaza generazioni di nuovi nemici e i secondi perché Hamas ha procurato la peggiore catastrofe della loro storia e ipotecato il loro futuro». Ne è consapevole anche lo scrittore Muin Masri, palestinese di Nablus che vive in Italia e ha consegnato alla rivista una poetica e dolente testimonianza della sua condizione di esule: «È bello avere una patria – scrive – anche solo per tornarci in tempo utile per i funerali. Ma per i palestinesi ci vuole sempre un miracolo anche per l’ultimo abbraccio».
Di fronte agli incubi dell’attualità – guerre e corsa al riarmo, catastrofi climatiche e devastazioni dell’ecosistema, bullismi politici e regimi autocratici, crisi demografiche e migrazioni forzate – «capita di sapersi naviganti dispersi, cercando invano carte nautiche e bussola», per usare le parole di Franca Bellucci. Da qui il rischio dell’anestetizzazione delle coscienze, compresa quella cristiana – rileva il teologo Leo Di Simone. «Una condizione che provoca smarrimento e perdita della capacità di giudizio, specie in quei versanti della vita civile e comunitaria in cui non è più possibile leggere obiettivamente i fatti drammatici perché ad essi si conferisce una copertura religiosa. Per questo la critica alla religione è un fatto altamente positivo, in quanto nella religione, come comportamento pubblico, si ritrovano spesso sacralizzati aspetti che non corrispondono alla volontà di Dio, ma, al contrario, alla volontà del potere e ai progetti dei gruppi egemoni che si servono della religione per tenere le coscienze succubi a obiettivi che nulla hanno a che vedere con i progetti di Dio sul mondo».
Chi ha una certa età e ha memoria del passato vive questo tornante della storia con la sensazione di rivivere le esperienze di tensioni e vulnerabilità che hanno attraversato gli anni più critici e traumatici del Novecento. Ce lo ha recentemente ricordato il Presidente Mattarella che ha individuato connessioni e parallelismi tra eventi e contesti di ieri e di oggi. «Stiamo entrando in una nuova epoca che presenta qualche somiglianza con i grandi conflitti internazionali e con le due Guerre mondiali – scrive in questo numero Pietro Clemente che ama sempre riflettere mettendo in gioco se stesso, storie della sua vita, i suoi ricordi autobiografici –. Negli anni 60, quando avevo 18 anni, il mio mondo era animato dalla lotta contro l’ingiustizia e dalla rivendicazione della attuazione della Costituzione. Dopo il 68 e la ribellione di studenti e giovani degli anni 70 sembrava che si fosse entrati in un tempo nuovo. Fino a pochi anni fa il conflitto dei mondi opposti dell’Est e dell’Ovest è stato all’interno di un controllato equilibrio e si erano aperte nuove grandi speranze con la caduta del muro di Berlino, la fine dell’URSS, la presidenza Obama. Ora tutto è cambiato e non so come ragionarci dentro». Il disagio di Pietro e il suo sgomento nel pensare il futuro è condizione non solo generazionale. «Malgrado tutto, non conosciamo ancora il nome della nave in cui siamo a bordo», osserva Felice Tiragallo che ragiona su denatalità e spopolamento. E il filosofo Paolo Godani intervistato da Ivana Margarese invita alla diserzione, unica uscita di sicurezza per continuare a stare nel mondo. «Mi pare – afferma – che alcuni giovani vedano con grande lucidità la situazione attuale, quando si dichiarano, più o meno ironicamente, “ultima generazione”. Ci comunicano che loro non hanno più niente in cui sperare. Ma questo vuol dire diverse cose. Vuol dire, innanzitutto, che non hanno più alcuna intenzione di partecipare alla giostra feroce della competizione, di credere nel lavoro, nel futuro, nella storia, di legittimare un potere economico e politico, ma anche un modo di vita, che ci sta conducendo non solo alla catastrofe climatica, ma anche alla guerra planetaria. Di questo rifiuto, di questa diserzione, la melanconia è il sintomo. Ma il rifiuto deve a sua volta rovesciarsi in modo che la diserzione si presenti per ciò che è: una forma di vita».
Non sappiamo se la soluzione provocatoria di Godani sia praticabile e davvero auspicabile. Certo non possiamo disertare davanti alle mille tragedie di Cutro che si ripetono nel totale silenzio e nella assuefazione collettiva né si può restare indifferenti davanti al processo di degenerazione delle sovranità nazionali in ideologie di potenza e di guerre intestine o davanti alle inquietanti ombre neonaziste che si allungano sull’Europa estenuata e disorientata. Si può forse assistere senza ribrezzo davanti all’osceno video pubblicato da Donald Trump che circola in rete mentre scriviamo queste righe? Una pacchiana e volgare rappresentazione generata con l’Intelligenza Artificiale che immagina un futuro di Gaza sotto il controllo degli Stati Uniti trasformata in una Las Vegas mediorientale, con una pioggia di dollari sotto il cielo di Elon Musk, ballerine discinte, una monumentale statua d’oro del capo della Casa Bianca e Netanyahu che prende il sole e sorseggia un cocktail a bordo piscina. Una grottesca scenografia se non fosse il progetto del mondo distopico che si prepara. Un’idea di società padronale e maschilista, classista e razzista.
Davanti a tutto questo non possiamo certo stare a guardare, muti e passivi spettatori, come quella coppia di turisti – nella fotografia in alto scattata da Ivana Castronovo – che seduti su una panchina osservano come in uno spettacolo a teatro lo scioglimento dei ghiacciai mentre bevono una coca cola. Forse più che una diserzione sarebbe urgente una qualche forma di ammutinamento della storia o semplicemente una replica della nota risposta di Bartleby, lo scrivano di Melville, al datore di lavoro: «I would prefer not to».
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
