SOMMARIO N. 10
È sempre più difficile parlare e scrivere di immigrazione. Siamo sempre più rassegnati al silenzio o insofferenti all’ascolto. I fatti incalzano, premono, precipitano. Nella crisi economica che morde, esaspera e incattivisce gesti, sentimenti e pensieri, le parole diventano asserzioni e semplificazioni, non tollerano il faticoso esercizio dell’argomentare per capire, del conoscere per discernere. I moderati (o presunti tali) tacciono, gli imbonitori urlano e sbavano. Non pochi politici amano solleticare le pulsioni, alimentare le paure, catalizzare il rancore sociale contro gli stranieri. Davanti alle drammatiche disfatte dei profughi dalle guerre alcuni invitano a fermare con tutti i mezzi l’invasione e rispedire ogni barca al mattatoio libico, altri si commuovono per ogni naufragio ma invocano le esigenze dell’ordine e della sicurezza interna a cui sono pronti a sacrificare le ragioni delle responsabilità etiche e civili.
Tutto sembra concorrere alla promozione di un sordido clima di indifferenza e di diffidenza, e in alcuni casi di radicale rifiuto nei confronti degli immigrati, capri espiatori di una strategia xenofoba che tra sogghigni e squadrismi propala quel “razzismo differenzialista” che alla teoria della gerarchia delle razze ha sostituito quella della separatezza fra popolazioni etnicamente connotate, in nome del rispetto della purezza identitaria e delle compatibilità culturali. Per semplice ignavia o deliberata convenienza, si tende a incentivare e corroborare gli interrogativi diffusi tra la gente comune che si chiede quanti clandestini siamo in grado di accogliere se i poveri nel nostro Paese sono sempre più numerosi, quante tutele possiamo estendere agli stranieri se i connazionali sono privati degli storici diritti sul lavoro. Domande legittime ma inquinate e strumentalizzate dalla falsa propaganda orientata a far credere che gli immigrati nei centri di accoglienza percepiscano senza lavorare paghe perfino superiori a quelle dell’agente di polizia o del militare che li soccorrono allo sbarco. Questo è stato scritto e per il fatto di penetrare nei circuiti del senso comune diventa verità inconfutabile, voce fondata e reiterata, certezza assoluta.
Alla quotidiana e incessante sequenza degli sbarchi e al conseguente sovraffollamento dei centri di accoglienza, la cui gestione è spesso affidata ad affaristi senza scrupoli, si accompagna un contesto internazionale non meno problematico: il terrorismo dei jihadisti e il virus dell’Ebola sembrano perfettamente allearsi e sommarsi per dare corpo e vita alla figura simbolica del nemico invisibile e dell’oscuro monatta che nello straniero venuto dal mare trova il suo stigma più compiuto. La paura genera paura, corrode i pensieri, altera le percezioni. Da qui la difficoltà a ragionare con equilibrio sulle questioni che riguardano l’immigrazione e la facilità a prospettare inquietanti minacce per innescare spirali emotive da lucrare politicamente. Da qui – per contrappunto – la necessità ancora più urgentemente avvertita di creare spazi di ricerca, luoghi di confronto che sul fenomeno possano maturare e offrire concreti modelli di riferimento, utili elementi di riflessione. È quanto tenta di proporre questa nostra rivista che, giunta al decimo numero, fa gravitare l’orbita dei contributi sui temi connessi alle dinamiche migratorie, nella consapevolezza che attraverso ciò che accade nel Mediterraneo si può leggere e capire meglio non solo la storia che viviamo ma anche quella che si prepara, senza e più spesso contro la nostra stessa volontà.
Nel mettere al centro le migrazioni, quali ordito costitutivo ed esperienze fondanti del nostro essere e del nostro divenire, la comunità degli autori – che si è via via formata e strutturata attorno alla nostra rivista concorrendo a definirla nella sua identità e a farla diversa dalle mille altre che affollano la rete – non ha trascurato di dibattere su aspetti e problemi diversi, osservati e analizzati nella prospettiva mediterranea e nell’ottica delle scienze umane e sociali. In questo numero, come di consueto, si presentano non pochi contributi alla riflessione su arte, feste, turismo, media, letteratura colta e popolare. Si prospettano percorsi ed esiti di ricerche etnografiche e si avanzano ipotesi teoriche e metodologiche sullo statuto dell’antropologia. Si ragiona intorno a figure, contesti e snodi storiografici inediti o rivisitati, si propongono letture analitiche e critiche di opere e di eventi, mentre si ribadisce il legame che unisce Dialoghi Mediterranei al territorio.
Continua la nostra rassegna sul Mediterraneo raccontato e illustrato dai fotografi. Dopo Nino Giaramidaro e Angelo Pitrone è la volta di uno dei decani tra i maestri siciliani della fotografia: Melo Minnella. Etnofotografo ante litteram, con il suo lungo, attento e paziente esercizio di osservazione della realtà siciliana ha creato uno straordinario archivio di immagini che hanno oggi valore di esemplari testimonianze antropologiche di un mondo al suo tramonto e in profonda trasformazione. Le sue fotografie sul lavoro e sulle feste tradizionali sono, per alcuni aspetti, più preziose di molte pagine di opere e saggi di studiosi. Il suo contributo a Dialoghi Mediterranei è del tutto inedito e costituisce una prima documentazione di una ricerca in corso su I colori della morte, una ricognizione puntuale e originale sul tema delle lastre tombali che presentano interessanti cromatismi su ricorrenti motivi simbolici e figurativi attestati in luoghi e siti diversi dell’area mediterranea. È noto che in epoca barocca, nel secolo della diffusione del flagello della peste, la rappresentazione della morte, di «questa temuta ma sicura resa dei conti finale», come scrive Minnella, ha conosciuto una impressionante teatralizzazione anatomica, una iconografia particolarmente macabra, tale da disseminare sui monumenti funebri una teoria di teschi e tibie incrociate, disegnate su tessere di marmo colorate con tonalità brillanti e realistiche sfumature. Nella accentuata decomposizione dei corpi e nella conversione antropomorfa della morte si risolveva in fondo il memento mori dell’insegnamento cristiano secondo la morale gesuitica. Durante il suo peregrinare di chiesa in chiesa nelle città che si affacciano sul Mediterraneo, Minnella ha osservato il ricorso ai medesimi materiali lapidei e ad eguali moduli cromatici, ipotizzando la migrazione di maestri artigiani e scalpellini, provenienti probabilmente dalla Sicilia, dove la loro riconosciuta abilità aveva dato vita all’illustre manifattura dei marmi mischi. Siano stati siciliani o no i precursori e divulgatori di questa speciale e raffinata arte musiva, resta confermato nelle migrazioni e nella circolazione di uomini, tecniche e culture l’atto genetico e fondativo delle diverse identità quali tessere colorate dell’unico e infinito mosaico mediterraneo.