di Chiara Brambilla
Il paesaggio può essere considerato come mediatore tra culture, come mediatore interculturale (Brambilla 2013). Intendere il paesaggio come mediatore interculturale significa coglierne il potenziale quale spazio pubblico per il confronto delle culture, facendo attenzione a sostenere, al contempo, la molteplicità delle relazioni sociali che alimentano la dimensione interculturale, favorendo, attraverso lo scambio, la disponibilità a stare insieme e non meramente accanto agli altri. Il paesaggio, come chiarisce Benedetta Castiglioni (2010a: 31-32), non è un «oggetto didattico», ma uno «strumento didattico», il quale rimanda ai modi in cui le persone abitano la terra, costruiscono le loro geografie, intese non banalmente come “dove” le cose sono, ma “cosa” esse sono, cosa significano al fine di poter vivere bene, contribuendo a costruire paesaggi di vivibilità che possano recuperare il valore generativo delle differenze che in essi trovano espressione nella civiltà planetaria, senza più negarle.
Vi è una caratteristica in particolare che rende il paesaggio un mediatore interculturale ed è iscritta nel suo essere uno «spazio liminare», come suggerito da Angelo Turco (2002; 2010). Proprio come spazio liminare, il paesaggio riflette a pieno le configurazioni sociali e culturali mobili contemporanee, recando in sé un’idea di movimento e cambiamento processuali, mentre lo «spazio paratattico» entra in crisi di fronte a esse, poiché legato a una visione statica della realtà interiore ed esteriore. Inoltre, il paesaggio come spazio liminare mostra il suo carattere di «interfaccia […] tra azione individuale e sociale, tra attualità e potenzialità, tra superficie e profondità», tra radicamento e scoperta (Turco 2010: 126). In altre parole, la liminarità del paesaggio ne supporta la funzione di mediatore tra popolazioni e luoghi e, rispetto al nostro discorso, tra culture, attraverso la sua spiccata proprietà relazionale, che favorisce un approccio di tipo reticolare, capace di cogliere le interdipendenze tra i luoghi del mondo, adottando una prospettiva ecologica, che Gregory Bateson (1984 [1979]) ha definito «binoculare», rimarcando come essa sia volta a guardare alle relazioni anziché agli enti.
Un altro aspetto rilevante di tale svolta nell’intendere il rapporto tra individuo e paesaggio riguarda il recupero del valore della differenza che, rimossa dall’ideologia moderna fondata su una catena di dualismi, è, in effetti, al centro di ogni costruzione identitaria: la nostra identità, che “si fa” anche nella relazione che instauriamo con gli spazi di vita che abitiamo, non può prescindere per riconoscersi da un confronto con le differenze, in dialogo con le quali si definisce. Non si può trascurare, dunque, un confronto interculturale attraverso e nel paesaggio. Affinché ciò sia possibile, lo sguardo binoculare dovrebbe essere, al contempo, caleidoscopico e strabico, capace cioè, da un lato, di guardare alla pluralità delle relazioni tra i mondi locali e alle interdipendenze tra i luoghi che sempre s’intrattengono poiché, così come non esistono le identità “pure”, non esistono neppure gli spazi “puri”. Dall’altro lato, si tratta di declinare quella capacità di sguardo strabico, sostenuta da Claude Lévi-Strauss (1994 [1993]) come peculiare dell’antropologia, con riferimento all’articolazione di un doppio sguardo rivolto simultaneamente ai paesaggi globali e locali, alle “grandi storie” della planetarizzazione del mondo, di cui i fenomeni migratori raccontano, ma anche alle “piccole storie” che abitano la quotidianità dei mondi locali. Il paesaggio si configura così quale spazio euristico che sta a «cavallo tra mondi diversi e in continuo movimento», dove «ogni locale porta con sé schegge di globalità planetaria» (Fabietti 1997: 12).
Sulla scia di queste considerazioni, lo stretto legame tra il paesaggio come mediatore interculturale e il suo essere uno spazio liminare s’inscrive nella proprietà di betweeness che lo caratterizza (Entrikin 1991), costituendo il cardine attorno al quale la sua liminarità significa “essere-tra”, esprimendo l’importanza relazionale dei paesaggi che, mai dati nello spazio e nel tempo, si danno in una condizione di transizione e cambiamento continua. Tuttavia, l’idea di paesaggio come spazio liminare, proprio se riferita alla sua funzione di mediatore interculturale, ci offre l’opportunità di una riflessione utile ad approfondire ulteriormente il concetto di inbetween proposto da Homi Bhabha (2001 [1994]). Infatti, l’essere-tra può anche significare il rischio di una condizione di «doppia assenza» di cui parla Abdelmalek Sayad (2002 [1999]), per la quale proprio l’inbetween determina l’essere solo parzialmente assenti là dove si è assenti (nel caso dei migranti dai Paesi d’origine) e allo stesso tempo il non essere totalmente presenti qui dove si è presenti (nei Paesi d’arrivo), sentendosi di conseguenza “fuori luogo” sia là che qui, rivelando la difficoltà della doppia assenza vissuta nella tensione tra sradicamento e appartenenza, negazione e nostalgia dell’origine. Invece, cogliere e accogliere il paesaggio come mediatore interculturale significa comprendere che il margine è, nelle parole di Ugo Morelli (2011:117), «dove ognuno di noi comincia, dove comincia la mia possibilità e non finisce, dove riconosco ciò che mi manca e cosa posso diventare», dove nel costruire i nostri paesaggi per vivere si configura, allora, la possibilità di una “doppia presenza” simultaneamente qui e là, prima, ora, e poi. In questo senso «il paesaggio è come la lingua madre» (Morelli: 2013), contiene cioè il codice originario della nostra appartenenza, contribuendo alla costruzione della nostra identità, mentre noi, interagendo con esso, lo costruiamo a nostra volta come contesto, nel quale pensare a discorsi e azioni possibili volti all’elaborazione di una nuova concezione del politico che sappia cogliere l’esigenza improrogabile di pensare paesaggi interculturali. È qui che risiede la sfida epocale del paesaggio come mediatore interculturale di fronte alla complessità degli scenari globali contemporanei.
Educare all’intercultura attraverso il paesaggio
Ripensare il paesaggio, al fine di valorizzarne il potenziale per l’educazione interculturale, significa, allora, ripensare anche all’educazione come apprendimento attraverso confini temporali, spaziali e relazionali aprendo a una dialettica virtuosa tra identità e alterità. Nonostante il potenziale del paesaggio come mediatore interculturale, persistono una diffusa mancanza di consapevolezza al riguardo e la carenza di metodi d’insegnamento capaci di far dialogare l’educazione al paesaggio con quella all’intercultura. L’educazione interculturale, infatti, non è mai riferita all’educazione al paesaggio, non si evidenzia alcun nesso tra le due, mentre il paesaggio continua a emergere prevalentemente come oggetto di studio della geografia. Tuttavia, il paesaggio si offre quale strumento elettivo per consentirci tale riforma dell’insegnamento, mostrandosi per diverse ragioni strumento privilegiato di educazione interculturale.Al riguardo, è importante rilevare come il paesaggio tragga il suo carattere di potente forma di territorialità innanzitutto dalla sua visibilità, vale a dire dall’essere un «sofisticato dispositivo iconico che tanto più acquista e mantiene visibilità rispetto alle mere fondazioni territoriali, quanto più è capace di testimoniare memorie e anticipare eventi» (Turco 2010: 117). In tal senso, il paesaggio conferisce coerenza visiva alla territorialità, consentendo, nelle parole di Ugo Fabietti, attraverso la «drammatizzazione» di alcuni luoghi il dispiegarsi superficiale e profondo dei processi identitari e memoriali, offrendo spazi di mediazione interessanti tra socialità e temporalità (Fabietti 1997: specialm. 23-51). Questi ultimi, infatti, si rendono comunicabili attraverso ciò che Yi-Fu Tuan (1977) ha definito la «visibilità» dei luoghi che compongono i paesaggi della nostra vita. Riguardo all’insegnamento dei paesaggi d’accoglienza, la visibilità così declinata è un aspetto importante e da valorizzare al fine di favorire la possibilità dei ragazzi migranti di accedere alla “profondità” di tali paesaggi, facilitandone la comprensione del nuovo contesto geografico, storico e socio-culturale. Per tale via, emerge il potenziale del paesaggio come strumento per indagare il rapporto che i ragazzi migranti o figli di migranti hanno con il loro ambiente di vita nei paesi di accoglienza e come il paesaggio interviene nella costruzione di questo rapporto e del senso di appartenenza al luogo.
D’altro canto, ciò significa riconoscere il paesaggio, poiché mediatore tra popolazione e luogo, serbatoio assiologico di valori identitari e processo culturale, come un’occasione elettiva per un confronto tra le diverse culture dei ragazzi, contribuendo alla costruzione di un rapporto più sensibile e consapevole dei ragazzi migranti e italiani con il luogo di vita che co-abitano. Il potenziale del paesaggio come strumento di educazione interculturale risiede, infatti, proprio nell’acquisizione di una conoscenza condivisa dai ragazzi migranti e italiani, implicando, al contempo, la possibilità di una maggiore consapevolezza dei loro luoghi di vita anche da parte degli italiani, che nell’interazione con i migranti possono riscoprire i paesaggi nei quali sono nati (Castiglioni 2010b; 2011). In questo quadro, la comunicazione con i ragazzi migranti consentirebbe, allora, agli italiani di riscoprire il loro paesaggio, “ri-vedendolo” e “ri-conoscendosi” in esso attraverso il nuovo sguardo dei migranti che, proprio perché giunto dall’esterno, consente nel distacco di generare nuova conoscenza (De Nardi 2010: specialm.136-141;161-167). Attraverso la maturazione di una conoscenza condivisa dei luoghi di vita che co-abitano, è possibile per i ragazzi migranti e italiani giungere a una condivisione di valori, fondante la possibilità da parte di entrambi di una presa di responsabilità rispetto alla vivibilità del paesaggio, imparando ad abitare la terra e non semplicemente a star-ci.
Queste considerazioni intorno al paesaggio nell’educazione interculturale ci ricordano l’importanza di considerare i ragazzi quali partecipanti attivi nella costruzione del paesaggio come spazio di vivibilità attraverso l’attenzione alle loro “idee” di paesaggio e ai significati affettivi ed emozionali di cui i ragazzi italiani e migranti investono i luoghi che abitano nelle società multiculturali (Ward 2000 [1979]). Assumere il punto di vista dei ragazzi sul paesaggio, stare ad ascoltarli, significa riconoscere il loro diritto di partecipare alla sfera pubblica attraverso l’attribuzione a essi di una responsabilità democratica, della quale sono stati privati, in quanto esclusi di norma dalla vita amministrativa e politica e costretti a una “cittadinanza differita”, per certi versi comparabile a quella degli stranieri, o “diminuita”, come quella attribuita alle figure marginali che abitano la terra (Paba, Pecoriello 2006). Ascoltare e dare voce ai modi con i quali i ragazzi intendono il paesaggio significa permettere anche la loro agency come forma di resistenza ai dispositivi di controllo su cui si reggono le declinazioni molteplici che la microfisica del potere di foucaultiana memoria assume attraverso la concezione esternalista e contemplativa del paesaggio (Knörr 2005). Significa, dunque, permettere l’attualizzarsi di quella che Michel de Certeau (2001 [1980]) ha definito una sorta di «contro-microfisica delle pratiche quotidiane» agite dai ragazzi che le iscrivono nel paesaggio come spazio di vita e vivibilità contestando e, dunque, mettendo in discussione i paesaggi egemonici e ricercandone di nuovi e democratici.
Inoltre, adottare il paesaggio come spazio di vita e vivibilità nell’educazione interculturale reca in sé una valenza politica rilevante, che deriva dalla possibilità di riflettere su nuove forme di appartenenza come attaccamento emozionale ai luoghi di vita, invece che come mera istanza ufficiale di cittadinanza, contribuendo a muovere verso una svolta anche politica per un paesaggio delle differenze pensato partecipativamente (Den Besten 2010). Ciò perché è attraverso la relazione con i luoghi che si costruiscono paesaggi vivibili e la vivibilità degli spazi di vita, quindi, non è esclusiva di chi ci è nato e cresciuto, come, del resto, quella vivibilità può essere generata solo tenendo conto di una pluralità di punti di vista e anche della ricchezza che sta nei modi di intendere il paesaggio per vivere dei ragazzi migranti (Ingold 2000).
L’esperienza dei laboratori nel paesaggio di frontiera di Mazara del Vallo
Nell’ambito del Progetto europeo “Borders and Socio-Political Landscapes – Changing Border Concepts as Governance, Challenge and Political Innovation in Post-Cold War Europe and the World” (acronimo EUBORDERSCAPES), il lavoro di ricerca-azione dell’equipe dell’Università degli Studi di Bergamo – Centro di Ricerca sulla Complessità (Ce.R.Co.)[1] ha previsto, per quanto riguarda il caso di studio di Mazara del Vallo (provincia di Trapani) nel più ampio contesto d’indagine dello spazio di frontiera italo-tunisino, l’organizzazione di alcuni laboratori sul tema del paesaggio come mediatore interculturale in collaborazione con l’Istituto Comprensivo Paolo Borsellino e il I Circolo Didattico Daniele Ajello[2].
Le attività laboratoriali contemplano la rilevanza degli approcci narrativi nel consentire la cruciale «ricomposizione antropologica della sfida educativa», attraverso il recupero del narrare/narrar-si come modalità d’espressione di identità che si fanno narrative ed espresse, dunque, in una pluralità di bio-grafie (scrivere le vite) e auto-bio-grafie (scrivere le proprie vite) che abitano le “topologie” del discorso identitario. Tali topologie trovano espressione nell’intersoggettività così come nelle forme di contestualità che essa assume; si animano, cioè, sia nelle forme di testo sia di con-testo. La narrazione è di per sé un’operazione interculturale, perché ogni storia che costruiamo o inventiamo è, prima di tutto, un intreccio di altre storie, di altri racconti: non esistono storie pure, monoculturali; le storie sono sempre il risultato di commistione, di contaminazione, di meticciati. Il territorio nel quale ci si trova ad “abitare” insieme può essere considerato uno sfondo integratore, ovvero uno sfondo capace di “tessere insieme” le differenze che caratterizzano i diversi gruppi e individui che lo abitano, una cornice di riferimento comune che, senza cancellare le differenze, fornisce loro una struttura per connettersi le une alle altre. In questo quadro, i laboratori impiegano anche strumenti narrativi non verbali e visivi, così da favorire la capacità di espressione dei ragazzi attraverso forme narrative visive per raccontar-si e raccontare, recuperando all’attenzione altresì la rilevanza della loro immaginazione emotiva e sociale.
A questo riguardo, un’attività proposta nell’ambito dei laboratori è quella di auto-photography. Tale metodo della ricerca sociale qualitativa prevede che siano i soggetti stessi a fotografare il “loro” paesaggio, focalizzando l’attenzione sugli elementi ritenuti maggiormente significativi. Come rileva David Dodman (2003), tale approccio è particolarmente utile nell’ambito di indagini che coinvolgono i ragazzi: rispetto ai tradizionali strumenti della ricerca qualitativa di tipo “discorsivo”, questo metodo offre, per esempio, il vantaggio di evitare che i giovani, sentendosi in posizione subalterna rispetto al ricercatore e subendone l’“autorità”, gli dicano ciò che pensano egli voglia sentirsi dire. Ai ragazzi è data la consegna di raccontare, con un numero pre-stabilito di scatti fotografici (macchinette usa e getta), Mazara del Vallo, come luogo in cui loro vivono: “Mazara del Vallo: la città in cui vivo”. Al momento della consegna è chiesto di includere, tra i luoghi fotografati: il “posto più bello” e il “posto più brutto” di Mazara; i posti che piacciono; i posti che non piacciono; i posti che fanno paura; i posti dove ci si incontra; la propria casa a Mazara e gli altri luoghi di Mazara dove, nonostante non siano le loro case, i ragazzi si sentono come se fossero a casa. L’attività di auto-photography è seguita da un momento di discussione individuale in classe con i ricercatori, durante il quale ognuno è chiamato a commentare cosa ha fotografato (quali luoghi) e perché lo ha fotografato.
Quanto emerso dal racconto individuale di ciascun ragazzo è poi messo in relazione ai racconti dei compagni attraverso un’attività di focus group con discussione collettiva e foto-elicitazione: ai ragazzi è chiesto di partecipare al focus group portando con sé le loro fotografie, scattate nel corso dell’attività di auto-photography precedentemente descritta.
Durante il focus group, i ricercatori chiedono ai ragazzi di scegliere democraticamente, attraverso il confronto tra i partecipanti, 5 fotografie tra 10 immagini di Mazara del Vallo che vengono mostrate loro. Al momento della richiesta della scelta, è spiegato loro che dovranno scegliere le 5 fotografie che rappresentano dei posti che, se non ci fossero più a Mazara, determinerebbero il fatto che Mazara non sarebbe più la “loro” città, la città in cui vivono. I ricercatori interagiscono con i ragazzi, al fine di mettere in relazione le fotografie di Mazara scattate dai ragazzi con quelle mostrate e scelte durante il focus group con foto-elicitazione.
Attraverso le attività descritte, l’obiettivo è di portare i ragazzi a riflettere sulla funzione sociale del paesaggio, la quale ne evidenzia il potenziale di mediatore tra culture. Ciò perché, come le attività laboratoriali si propongono di mostrare, il paesaggio appartiene a ogni persona, così come alla comunità che vive in esso e che lo percepisce; inoltre coinvolge e promuove lo sviluppo delle identità locali, così come l’apertura all’alterità, sia l’alterità di tempo, con riferimento ai paesaggi del passato, che l’alterità di luogo, con riferimento ai paesaggi dell’altrove. Al riguardo, le attività laboratoriali riservano particolare attenzione all’interazione tra ragazzi italiani e ragazzi di origini tunisine.
Oltre alle attività descritte, i laboratori prevedono l’uso del metodo etnografico dello shadowing (Czarniawska 2007).
A tal fine, a conclusione delle attività è chiesto ai ragazzi di poterli seguire nei luoghi che hanno in precedenza fotografato. Si tratta di un aspetto altrettanto importante dell’educazione al paesaggio come mediatore interculturale, perché consente ai ricercatori di esperire il paesaggio con i ragazzi, camminando attraverso il paesaggio e vedendone l’esperienza “sinestetica” che i ragazzi ne fanno.
Le attività laboratoriali sono state riprese da una videocamera, in collaborazione con dei videomaker professionisti, al fine di includere queste immagini nel documentario sul borderscape italo-tunisino al quale l’equipe dell’Università degli Studi di Bergamo sta lavorando nell’ambito del Progetto EUBORDERSCAPES. Ciò al fine di descrivere le esperienze “pluritopiche” e “pluriversali” dello spazio di frontiera italo/tunisino, mostrando come esse spesso contrastino con le assunzioni dei discorsi e delle pratiche geopolitiche egemoniche così come con le rappresentazioni mass-mediatiche dominanti e cercando, piuttosto, di rappresentare come la retorica e le politiche della frontiera in oggetto impattino e siano in una relazione dialettica con le esperienze che nel quotidiano fanno coloro che vivono la frontiera; come tale retorica e politiche sono esperite, vissute e interpretate da coloro che abitano il paesaggio della frontiera italo/tunisina. Allo stesso tempo, lo scopo è altresì quello di rispondere all’urgenza di trovare delle modalità nuove per dare voce a quelle esperienze plurali, per renderle visibili nel senso arendtiano di visibilità intesa quale condizione necessaria per l’accesso e la partecipazione politica alla sfera pubblica.
Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
Note
[1] Per maggiori informazioni riguardo al contesto più generale del Progetto EUBORDERSCAPES, si rimanda al sito internet: http://www.euborderscapes.eu/, ultimo accesso dicembre 2014. Riguardo all’attività di ricerca svolta dall’equipe del Centro di Ricerca sulla Complessità dell’Università degli Studi di Bergamo nell’ambito del suddetto Progetto, si veda: http://www.cercounibg.it/ricerche/, ultimo accesso dicembre 2014.
[2] Si precisa che l’attività di ricerca-azione è in corso al momento della pubblicazione del presente contributo. I laboratori, iniziati nell’anno scolastico 2013/2014, stanno continuando anche durante l’anno scolastico 2014/2015 e gli esiti delle attività laboratoriali costituiranno parte integrante dei risultati di ricerca che saranno presentati – tra la fine del 2015 e il 2016 – nell’ambito di pubblicazioni internazionali e sotto forma di un video-documentario sul borderscape italo-tunisino, prevedendo anche delle restituzioni, in accordo con le scuole coinvolte, a Mazara del Vallo. Si tiene a precisare che il lavoro di ricerca nell’ambito di EUBORDERSCAPES con riguardo al caso di studio di Mazara del Vallo è da me coordinato e vede la collaborazione, per le attività di raccolta ed elaborazione dati mediante attività di ricerca sul campo, di Alessio Angelo (antropologo).
Riferimenti bibliografici
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Chiara Brambilla, dottore di ricerca in Antropologia ed Epistemologia della Complessità, è research fellow presso il Centro di Ricerca sulla Complessità dell’Università di Bergamo nell’ambito del Progetto Europeo del 7° PQ EUBORDERSCAPES. Si occupa di antropologia, geopolitica critica ed epistemologia delle frontiere; migrazioni, transnazionalismo e globalizzazione; colonialismo e post-colonialismo in Africa. Tra le sue pubblicazioni, Ripensare le frontiere in Africa. Il caso Angola/Namibia e l’identità Kwanyama (2009) e Migrazioni e religioni. Un’esperienza locale di dialogo tra cristiani e musulmani (con Massimo Rizzi, 2011). Ha curato, con Bruno Riccio, il volume Transnational Migration, Cosmopolitanism and Dis-located Borders (2010). È associated member del Nijmegen Centre for Border Research (NCBR) della Radboud University di Nimega in Olanda.
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