Mi piace immaginare il pensiero, nella sua forma più alta, in questo modo: prendete Leopardi, non quello che avete studiato al liceo; considerate tutto ciò che ha prodotto in termini di pensiero; osservate, studiate, misurate, annotatevi i suoi ragionamenti, le sue immagini, le sue visioni. Ecco. Se prendiamo tutto insieme, zibaldone, operette, canti e le tappe della sua vita, riusciamo a tracciare un percorso. Riusciamo a vedere il pensiero di un individuo nell’atto della sua costruzione e ineluttabile evoluzione. Chissà cosa sarebbe arrivato a scrivere se fosse riuscito a vivere decentemente vent’anni in più! Chissà cosa sarebbe arrivato a pensare, quale idee, immagini, visioni, sarebbe riuscito a elaborare, quante menti avrebbe illuminato con la sua luce riflessa!
Oppure no. Oppure avrebbe smesso con tutto, non avrebbe più scritto nulla come Rimbaud. Non possiamo saperlo. Ci resta perciò solo l’esempio chiaro e lampante di come certe personalità hanno la capacità, fortuna o coraggio che sia, di tracciarsi una strada, farsi accompagnare, farsi guidare da un grumo di idee che ruotano attorno un nucleo di idee essenziali.
Le idee essenziali sono quelle che ispirano la vita, il pensiero, le opere creative, il grumo di idee sono quelle che via via si formano, mutano, si distruggono e nascono in rapporto a quelle essenziali. Si badi bene che le idee essenziali non sono fisse, immutabili. Le chiamo idee ma sono più come vocazioni, stendardi senza colori né simboli, l’illusione di credere importante scrivere, pensare, riflettere. E qui illusione è in senso leopardiano e cioè quel qualcosa che ci tiene vivi proprio perché ci fa sentire meno la vita, che ci fa vivere proprio perché ci sottrae dalla noia, che ci fa godere della vita proprio perché ce ne fa dimenticare. Ma oggi, qui, viviamo un altro mondo. Il rapporto io-mondo si è completamente rovesciato. L’antropocene ha le sue logiche e non c’è più tempo per altro.
Qualche anno fa, forse fino a qualche mese fa in realtà, non lo avrei mai detto ma dovremmo cominciare a fare degli appelli. A cosa e verso chi? Frugalità è questo. Un appello sincero e viscerale, accolto e rinnovato. Un appello a difesa del mondo – il nostro mondo, il mondo umano – attraverso un appello alla costruzione di umanità capace di salvarlo. Frugalità non è soltanto la parola chiave, il simbolo di una serie di convinzioni e idee, ma una pratica. Frugalità è un appello a praticare “frugalità” in termini concreti, intellettuali, umanitari, artistici, economici, architettonici, filosofici, antropologici, ecologici.
Frugalità è questo: un volume che raccoglie idee, immagini, visioni attorno al tema della frugalità nel tentativo di definire come la frugalità stessa può essere la chiave etica per difendere il mondo e costruire umanità destinata ad abitare il mondo del presente e del futuro. Per questo primariamente ho amato Frugalità, perché non nasconde la sua ispirazione e aspirazione etica. Leggiamo troppe cose che ci dicono come dovremmo fare e cosa no. Ci capita di rado di leggere qualcosa che ci dia una visione senza paura e senza spocchia, che ci tracci una strada possibile, che ci offra, senza tranelli, un paradigma etico, un tool concettuale che vada dalle forme delle cose alla percezione della propria condizione esistenziale.
Frugalità, riflessioni da saperi diversi è un volume a cura di Antonietta Iolanda Lima, pubblicato a febbraio edito da Il Poligrafo (2022). La frugalità è principio di natura, ci dice Lima stessa, è trama del vegetale così come dell’evoluzione umana, come dirà Fabretti nel suo contributo, è nel cosmo così come nella musica, come ci mostrano l’astronomo Maggio e il musicologo Carapezza, è nelle forme della materia così come nella materia del corpo, l’urbanista Soleri e il medico Panno, e nelle città e nei popoli, l’architetto Tuzzolino e il geografo Cusimano, e così via. Frugalità è infatti un volume insolito, nella forma, nel metodo e nelle intenzioni. Frugalità non è un mero raccoglitore di articoli accademici su un tema. È più, come dicevo, un appello umano raccolto da architetti, antropologi, artisti, medici, storici dell’arte, astronomi, filosofi, i quali tutti hanno risposto tramite spunti, immagini, idee e riflessioni all’insegna della brevità e della frugalità stessa. A riflettere sulla frugalità bisogna essere frugali – quando ci capita di leggere una riflessione così coerente con se stessa? – è questo è già un elemento insolito. Così come lo è l’ampio respiro poetico e multidisciplinare che la curatrice ha saputo diffondere a tutti i partecipanti. Una chiave d’ispirazione trasversale perfettamente coerente alla linea editoriale di questa rivista.
L’idea di convogliare spunti da svariate discipline e saperi è reale in questo volume, altra cosa insolita, e non una scontata premessa mai realizzata. La “brevità densa” di cui parla Lima è il mezzo attraverso il quale la pluralità di punti di vista si realizza due volte, non solo quindi nella tipologia degli autori coinvolti, ma anche nel fatto stesso che ogni autore si ritrova realmente a poter produrre pensiero proprio senza vincoli disciplinari né stilistici.
Brevità, pluralità reale e libertà, reale anche questa, fanno sì che frugalità sia un volume che arriva al lettore in maniera genuina, senza astrusità, senza filtri tipicamente accademici. Frugalità è quindi anche l’occasione di riscoprire gli intellettuali nella forma migliore del loro pensiero. I punti di vista, tutti diversi, in frugalità perciò non sembrano mai andare in contrasto bensì arricchire una dimensione di pensiero corale e molteplice che riesce a dare vita, senza imposizioni o forzature, a un univoco afflato etico: la frugalità come risposta umana alle crisi poste in atto dall’antropocene, la frugalità come soluzione umana al problema del mondo umano.
Come si diceva, non si tratta più di interrogarsi sul “mistero tremendo” o la “coltre opaca” dell’origine di tutto il cosmo come scrive Maggio quanto di fare ponte appunto fra il cosmo-origine e il cosmo-fine, scoprire cioè che «in ogni specie che riesce a spuntarla, ciò che trionfa è l’essenzialità», sia in termini microscopici, noi e le nostre esistenze, ma soprattutto in termini concreti nella scala del macro, «meno frugale è un sistema tanto più sarà dispendioso e inquinante», annota Soleri. I doppi binari della frugalità sono multipli spazi, spazi esterni, interni, adiacenti, che si completano o si distendono infiniti come frattali, cosmo-uomo, uomo-alberi, città-musica, poesia-fotografia e così via, conducono il lettore per tutto il volume senza obbligarlo a nessuna tappa ma lasciandosi guidare delle suggestioni.
Perché frugalità è anche una questione spaziale, «non solo perché, metaforicamente, tale dialettica riguarda il movimento di un pieno che diventa vuoto e viceversa (definendo anche un’alternanza di categorie quali interno/esterno)» – e qui quanto scrive Sabato si ricollega alla «frugalità come esito» della poetessa Pietropaolo – «ma ancor di più perché questo riempire e svuotare proietta sullo spazio (e grazie allo spazio) costruzioni simboliche e (ri)semantizzazioni della stessa idea di frugalità».
«La somiglianza tra apparato respiratorio e alberi è ancora più forte se pensiamo che il gruppo eme dell’emoglobina umana (contenete ferro) ha la stessa struttura della clorofilla vegetale», scrive Panno. Il problema architettonico, urbanistico e geografico viene posto per esempio sotto una luce diversa, ma che è forse quello che capiamo meglio, che sentiamo di più: «la creazione di città realmente amabile è l’unica soluzione per la salvaguardia del territorio» (Soleri).
Il lettore coglie così gli intrecci fra i brani, quando Collisani ci dice che «dobbiamo chiedere alla musica di essere frugale: discreta, rispettosa, essenziale», proprio perché dobbiamo – ci meritiamo? Lo dobbiamo al pianeta? È l’unico modo di salvare il mondo? – vivere in un ambiente “amabile”. «C’è più storia nella storia di una parola che non in un intero libro di storia» scrive il grecista Nicosia ed effettivamente l’etimologia di “frugale” è già una storia che premette e promette all’idea della frugalità come paradigma ecologico e antropocenico, come notato anche da Lima stessa, non solo per presa di posizione, scelta esistenziale, sociale, culturale e politica, ma anche per filiazione semantica ed etimologica appunto.
Frugale è anche quanto e come dalla Terra si prende, lo scopo è quello di non collassare come sistema-umanità, perché la crisi, le crisi, dell’antropocene, «non può che essere generale, e finirà con il ricondurre anche loro – gli “scialacquatori” – alla più sgradevole e necessaria frugalità: quella del bisogno» conclude il suo intervento Nicosia. Lo scopo è quindi quello di intervenire ora nel cambiamento del mondo e, essendo pronti all’idea che non basterà, intervenire quindi su noi stessi. Il filosofo Petrosino, ripescando Seneca, ci ricorda come
«la frugalità è senza alcun dubbio una forma di povertà, ma di una povertà non nichilista o annichilente: essa cerca di liberarsi del superfluo ma non perché lo disprezzi e lo giudichi negativamente, come qualcosa di sé stesso malvagio o pericoloso, ma perché sente l’urgenza di procedere verso quell’essenziale – si tratta dell’indispensabile di cui parla Seneca – che intuisce essere la più autentica delle ricchezze».
L’architettura frugale è allora «un’architettura del residuo che sa impiegare al meglio i materiali naturali e locali o riciclare quelli trovati; un’architettura dell’ipoconsumo piuttosto che del consumo o dell’iperconsumo» (Zevi, Abbate, Spina); «dobbiamo desiderare la paralisi della quantità» scriveva già Consagra negli anni ‘70. Città, animo umano e cosmo, si incontrano nel principio della frugalità che potrebbe diventare vero e proprio manifesto politico, sociale, culturale, ma non vuole e non per rinuncia quanto per la natura stessa di sé. Ancora i doppi binari della frugalità ci ripropongono l’io-mondo rivoltato.
«Dunque “frugalità” come soluzione alla sostenibilità dell’Homo da parte della natura ambientale e dell’Homo stesso, ma ottenibile in tempi sincronici con il disastro dell’antropocene inquinato, solo mediante ingegneria dell’ominazione, ovvero una mutazione accelera dalla scienza», scrive l’antropologo Fabretti, così come frugalità per l’architetto Bartoli «consiste nell’accontentarsi di ciò che la natura ci può dare, “senza prevaricarla e ancor di più degradarla”».
Così come Lima introduce il volume ricordando Leopardi, ho iniziato io stesso questo breve elogio che più che una recensione vuole essere un ritaglio entro lo spazio di tutto il volume, per lasciare il lettore libero di “risuonare” – per richiamare l’espressione della musicologa Collisani – fra le suggestioni che incontra. Il libro è sì «un elogio esplicito alla frugalità» come valore, ma è anche un racconto poetico del come «il paradigma del nuovo diventa così una frugalità operativa, concretizzata» (Lima) che potrebbe essere capace di ispirare l’attività intellettuale, politica, culturale e sociale.
Se oggi, perfino da questo volume, la frugalità può continuare ad apparire al lettore come mera consolazione filosofico-nostalgica, il lettore stesso sappia che la frugalità è già oggi una delle poche coordinate possibili dell’agire concreto nel e sul mondo poiché «non può esserci ambiente e paesaggio umano e pertanto ecologicamente sano, venendo meno la frugalità», ribadisce l’illustre curatrice, architetto e storica.
Infine, nell’immagine di una frugalità operativa è giusto affiancare una delle foto che Letizia Battaglia, fotografa palermitana recentemente scomparsa, ha inserito proprio nel suo contributo in frugalità dal titolo Niente può cambiare il mondo se non la propria coscienza. Un’atmosfera che ho vissuto molte volte, un luogo che conosco molto bene. Una tavola costruita su una spiaggia con oggetti di fortuna, qualche bottiglia, piatti rimasti da sparecchiare e delle griglie annerite che tengono ferma dal vento una tovaglia ricamata messa alla bell’e meglio, e infine una gallina, persona non-umana, sopravvissuta, e il mare indifferente dietro. Una frugalità che resiste, quando non c’è niente, inventa quando c’è poco, arricchisce quando i tempi tornano a fare paura.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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