di Marco Gardini
È ampiamente noto come, durante i convegni, molti degli scambi accademicamente più importanti (e più piacevoli) avvengano durante le pause caffè e le cene improvvisate che chiudono le varie giornate. Da questo punto di vista, il terzo convegno della Società Italiana di Antropologia Culturale (SIAC), tenutosi all’Università di Roma la Sapienza dal 22 al 25 settembre 2021 e dal titolo Antropologie del futuro, futuro dell’antropologia, non è stato un’eccezione.
Anzi: questi momenti informali hanno rappresentato occasioni ancora più attese del solito, durante le quali colleghi e colleghe da tutta Italia e dall’estero hanno finalmente avuto l’occasione di rincontrarsi di persona e a riscoprire quanto, dopo due anni passati a seguire conferenze e riunioni online a causa del COVID19, la “presenza” (in questo caso la condivisione dello stesso spazio fisico) sia ancora un elemento irrinunciabile della condivisione del sapere e del lavoro accademico. “Finalmente ci si rivede!” è stata una delle frasi più sentite prima, durante e dopo i tanti e densi panel che hanno animato questo convegno, che pure ha avuto anche una cospicua partecipazione online.
È sempre difficile valutare l’impatto scientifico di una conferenza a pochi giorni dalla sua chiusura. La regola aurea prevedrebbe l’attesa della pubblicazione nelle riviste del settore dei contributi che in essa sono stati presentati, la comprensione di come i temi discussi abbiano influenzato il dibattito disciplinare negli anni successivi, il numero di partecipanti al convegno seguente… Scrivere queste note “a caldo” e senza una cauta applicazione del “senno di poi” è certamente rischioso. Tuttavia, dato l’elevato numero di panel (37) e di partecipanti (circa 300, di cui più di un centinaio in presenza), il convegno SIAC2021 può essere considerato come un punto di osservazione privilegiato (sebbene parziale) dello stato dell’arte e di salute dell’antropologia italiana e dei suoi possibili sviluppi.
L’ampia partecipazione è sicuramente una conseguenza del fatto che si è trattato del primo convegno SIAC che ha adottato la formula inclusiva dei convegni delle grandi associazioni internazionali, con una call for panels e una call for papers aperte e bilingue: una politica che sarebbe auspicabile mantenere in futuro. Altra scelta felice del direttivo è stato il tema: con buona pace di Wittgenstein e della sua severa massima che vieta di parlare di ciò che non si conosce, questa conferenza ci ha dimostrato quanto analiticamente fertile e (politicamente?) stimolante sia includere l’orizzonte opaco e per definizione non conoscibile del futuro all’interno delle nostre analisi del presente e del passato.
La lezione di apertura di Rebecca Bryant (Università di Utrecht) e di Daniel Martyn Knight (Università di St Andrews), autori del recente libro The Anthropology of the Future (2019), ha sicuramente contribuito a gettare le basi per una riflessione collettiva su come speranze, immaginari, e potenzialità legate al futuro contribuiscano a dar forma a strategie individuali e collettive in contesti segnati da profonde crisi economiche, politiche e sanitarie: crisi che da eccezionali tendono sempre più a diventare la norma e che assumono dimensioni di scala geografica sempre più ampia. Sotto questa lente, un’antropologia del futuro, concepito come spazio generatore di aspirazioni, programmi e aspettative e come terreno di azione e conflitto, consente di rendere conto dei modi in cui gruppi e individui diano senso e rinegozino arene sociali caratterizzate da crescenti spazi di incertezza, precarietà e marginalizzazione sociale.
Molti di questi temi sono stati ripresi dai panel che si sono succeduti e sovrapposti nel corso del convegno e che hanno offerto una buona, anche se ovviamente non esaustiva, panoramica delle molte linee di ricerca che l’antropologia italiana sta esplorando in questo periodo. Mi limito a citarne alcune: dalle riflessioni sul contributo dell’antropologia in dibattiti sempre più transdisciplinari all’analisi delle sue implicazioni etiche e politiche; dal tema del lavoro in tempi di crisi finanziarie e pandemiche a quelli della transizione digitale e dell’anzianità; dallo studio dei movimenti sociali alle varie forme in cui l’immaginazione del futuro si articola in luoghi e tempi diversi; dalle relazioni inter-specie alle crisi ambientali; dalla gestione delle risorse ai significati di libertà; dai futuri passati alle memorie del futuro. Antropologia medica e museale, delle migrazioni, della parentela, dell’ambiente, dei movimenti sociali, delle discriminazioni e delle marginalità: il convegno SIAC ha sicuramente mostrato come lo spettro dei principali temi di dibattito a livello internazionale trovi ampia risonanza nell’antropologia italiana, la quale a sua volta vi contribuisce in maniera originale e con una molteplice gamma di prospettive, non necessariamente omogenee tra loro, ma capaci ancora di intrattenere un dialogo stretto e mutualmente proficuo.
Nonostante i limiti imposti dalla pandemia, anche la ricerca sul campo appare in ottima salute. Il convegno ha restituito una parte consistente del grande ventaglio di contesti in cui è impegnata l’antropologia italiana negli ultimi anni: dall’Africa (ad esempio, Uganda, Tanzania, Etiopia, Kenya, Senegal, Madagascar, Tunisia, Marocco, Sierra Leone) al continente americano (ad esempio Argentina, Ecuador, Bolivia, Brasile, Stati Uniti, Cuba), dall’Asia (Turchia, Siria, India, Indonesia, Cina), all’Oceania (Nuova Caledonia), dall’Europa (Ucraina, Italia, Danimarca, Serbia, Regno Unito, Grecia, Norvegia, Portogallo) agli spazi digitali di Facebook e degli altri social media. Sul fronte della qualità scientifica e della ricchezza etnografica del convegno, gli organizzatori di SIAC 2021 possono senz’altro dirsi soddisfatti.
Al netto di qualche problema tecnico (prontamente risolto) che ha talvolta reso difficile per coloro che partecipavano in presenza seguire i contributi di chi era online, il convegno ha registrato un’ampia e variegata partecipazione e le conversazioni e i dibattiti che ne sono seguiti sono proseguiti ben oltre la fine dei rispettivi panel, occupando – appunto – buona parte delle pause caffè. Tuttavia, se il numero di panel e di partecipanti è sicuramente un buon indicatore del successo della conferenza, vale forse la pena sottolineare una serie di altri fattori che hanno contribuito a renderla un’occasione importante per l’antropologia italiana contemporanea. Il numero di partecipanti con affiliazioni estere (sia stranieri sia italiani stabilitisi altrove) è stato alto (una settantina), segno che non solo il convegno di per sé risultava attrattivo, ma anche delle numerose reti internazionali che le antropologhe e gli antropologi italiani hanno saputo tessere e coltivare negli anni. Elevato anche il numero di studenti di dottorato e (in misura minore) di magistrale che hanno trovato nel convegno un momento importante per discutere i risultati dei loro lavori. Va anche sottolineata la presenza di figure, associazioni, collettivi e organizzazioni esterne al mondo accademico, che hanno restituito un ventaglio delle molte collaborazioni che l’antropologia è capace di intrattenere con il più ampio tessuto sociale italiano.
Intelligentemente, gli organizzatori di SIAC21 hanno pensato di dedicare le due sessioni plenarie a temi di notevole interesse per tutto il mondo accademico: la prima è stata un dialogo (anche serrato) con l’ANVUR in merito ai processi di valutazione e classificazione delle riviste scientifiche, mentre nella seconda si è organizzata una tavola rotonda con le rappresentanze di altri settori disciplinari dell’Area 11, durante la quale si è discusso dei criteri e dei princìpi che sottendono le valutazioni della ricerca scientifica. Tra le opinioni che si potevano raccogliere nelle pause caffè non mancavano quelle che, pur sottolineando come entrambi questi appuntamenti fossero stati occasioni utili per riflettere insieme (e criticamente) su dispositivi e procedure che impattano in maniera sempre più forte sul mondo della ricerca e sulle attività dei singoli ricercatori, hanno anche rimarcato che forse sarebbe stato non meno utile approfittare dell’opportunità e dell’ampio numero di partecipanti per discutere collettivamente anche del tema del precariato accademico e – parlando di futuro – della nuova riforma del sistema di reclutamento. Sicuramente non mancherà occasione di farlo, visti i molti tavoli di riflessione sul tema (e le relative pause caffè).
Nel complesso, e senza negare i molti problemi dell’antropologia italiana (una disciplina che non può vantare i numeri, l’influenza e il riconoscimento sociale delle altre scienze sociali), il convegno SIAC2021 ci ha restituito l’immagine di un settore disciplinare vivace e in espansione, un dato confermato negli ultimi anni anche dall’aumento degli strutturati, dagli elevati numeri di candidati ai dottorati di antropologia e dall’incremento delle iscrizioni alla SIAC e alle altre associazioni di antropologi/he che, come SIAA (Società Italiana di Antropologia Applicata), ANPIA (Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia), SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici) e SIAM (Società Italiana di Antropologia Medica), contribuiscono alla diffusione dei saperi antropologi ben oltre la sfera dell’accademia. Le attività online organizzate da queste associazioni negli ultimi due anni di pandemia hanno sicuramente contribuito a mantenere viva e ampliare il grado di partecipazione e condivisione della comunità degli antropologi italiani, ma gli eventi online ci hanno insegnato anche quanto importante sia “esserci” fisicamente. Da questo punto di vista, le pause caffè di SIAC2021 hanno rappresentato una catarsi collettiva dalla crisi della “non presenza” che abbiamo vissuto in questi mesi e un momento importante per pensare a ciò che verrà. In fondo, se durante i panel si presentano i risultati di ricerche già realizzate, è nelle pause caffè che si pensa al futuro di una disciplina.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
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Marco Gardini, è ricercatore a tempo determinato (tipo b) presso l’Università di Pavia, dove insegna Antropologia Politica e Antropologia Sociale e Culturale. Ha condotto ricerche in Togo, occupandosi del ruolo delle chefferies nella gestione dei conflitti fondiari, e in Madagascar, dove lavora sui temi della schiavitù, della post-schiavitù e del lavoro domestico.
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