di Mauro Geraci
Le recenti scomparse di Paolo Garofalo, di Francesco Paparo (detto Rinzinu) e Vito Santangelo, grandi cantastorie di Paternò (Catania), come quella di Leonardo Strano di Riposto (Catania) e dell’ultra- novantenne poeta-cantastorie di Bagheria (Palermo) Ignazio Buttitta – poeta tradotto da Quasimodo e in moltissime lingue, le cui opere sono fra le pagine più alte della letteratura dialettale nazionale –, corrispondono tutt’altro che alla fine del lavoro poetico, musicale, spettacolare dei cantastorie siciliani. Lavoro di cui Carlo Levi ebbe modo di apprezzare forse l’unica forma d’informazione, denuncia e spettacolo della quale molti meridionali si sentono tuttora protagonisti più che spettatori passivi: «la tradizione dei cantastorie, che vanno di villaggio in villaggio, sulle piazze o nei teatri e cinematografi, e raccolgono le folle ai loro versi e alle loro antiche cantilene, non si è mai interrotta: nei versi e nella chitarra di Ciccio Busacca ritrovi lo schema del passato e le vicende attuali dei banditi, della mafia, dei contadini, dei sindacalisti, del popolo».
Lavoro che fino a qualche anno fa ha visto gli spettacoli settimanali che il cantastorie Franco Trincale, di Militello in Val di Catania, con regolare autorizzazione comunale, svolgeva nelle piazze milanesi, al Duomo o in San Babila, scontrandosi con le denunce della polizia, coi volontari della domenica, col pacifismo delle signore ingioiellate e improvvisate ideologie che ignorano del tutto l’antica, potente, coraggiosa funzione informativa, riflessiva, civile svolta dai cantastorie fin dai tempi dei morti di Reggio Emilia, delle stragi di Portella della Ginestra, Melissa e Avola, dei movimenti contadini contro la mafia e gli agrari e che ancora segna l’incipit del recente Cuntrastu tra il cristiano e il musulmano del cantastorie di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Fortunato Sindoni:
Lu cantastori chi ora ascutati cu la spiranza ca vi stati cheti non canta stornelli o serenati e mancu tarantelli pedi pedi. Ma fatti d’ajeri e d’oggi ‘ntrallazzati c’hannu bisognu vuci di pueti. Cu la chitarra avanti a vui ora staci cu canta contra ‘a mafia e pi la paci.
Dal secondo dopoguerra, l’attività di poeti-cantastorie quali Ignazio Buttitta, Orazio Strano, Turiddu Bella, Ciccio Busacca, Vito Santangelo, Matteo Musumeci, Francesco Paparo (Rinzinu), Franco Zappalà, Turi Di Prima, Franco Trincale, Nonò Salamone, Ignazio De Blasi, Fortunato Sindoni risulta arricchita di nuovi spunti espressivi, tematici, conoscitivi solo in parte riconducibili agli ambiti folklorici. Nella cultura popolare siciliana, infatti, chi decide di fare il cantastorie deve dimostrare di sapersi distaccare dai consueti spazi del paese, dalla ritualità che avvolge i canti della propria gente; deve abituarsi a cantare lontano dalle piazze paesane (dai festini matrimoniali, battesimali, commemorativi, dalle sagre, dalle festività), confrontandosi coi grandi spazi della cultura urbana, della comunicazione di massa, dov’è assente lo sguardo rassicurante di familiari e compaesani. “Fuori dal Sud” il cantastorie raffina la propria riflessione critica sulla storia, trova verità e risorse poetiche in altre storie, altre genti, altre opinioni. Poi può tornare nel Meridione a ridare voce nuova ad antiche storie, riproponendole in piazza a un pubblico ora non più ovvio, familiare e accondiscendente ma pronto a cogliere, da colui che è ormai “virtuoso della memoria”, nuove inquietudini esistenziali, curiose provocazioni morali, metafore insospettate che i vecchi canti narrativi possono ancora veicolare se documentati e sollecitati in modo opportuno.
Certo, la difficoltà nell’ottenimento degli spazi pubblici – cui l’aica (Associazione Italiana Cantastorie, col suo organo informativo Il Cantastorie, rivista oggi on line) fa fronte sin dal ’47 – è da porre in relazione alle disposizioni critiche, talvolta eversive che caratterizzano nel complesso voci, quali quelle dei cantastorie, sin dal ’46 partecipi dei movimenti politici attraverso cui le classi contadine siciliane acquisirono una coscienza più precisa dei grandi problemi del Paese. Attraverso Ciccio Busacca, cantastorie siciliano che Fo inserì subito tra le figure artistiche del suo spettacolo Ci ragiono e canto, il Lamentu di Buttitta per la morte di Salvatore Carnevale – sindacalista socialista e vittima della mafia, divenuto anche protagonista del libro Le parole sono pietre di Carlo Levi, del film Un uomo da bruciare dei Taviani, nonché della Ballata di lupara del cantastorie Franco Trincale – espresse le riforme che sin dal fascismo prevedevano l’inserimento del Mezzogiorno in una società pluralistica e la persistenza degli assetti latifondisti e delle mediazioni capitalistiche nelle forme cristallizzate della mafia.
In anni più recenti troviamo i cantastorie coinvolti nei multiformi tentativi di recupero della tradizione popolare: dalle tournée canzonettistiche ai “festival del folklore”, fino ai convegni scientifici sulla cultura popolare, alle conferenze-concerto nelle università, agli ambiti del folk music revival, ai premi nazionali quali quelli annualmente banditi dall’A.I.Ca. (nella Sagra nazionale dei cantastorie di Sant’Arcangelo di Romagna), dal Comune di Motteggiana (Mantova) dedicato a Giovanna Daffini, dal Centro studi di tradizioni popolari Turiddu Bella a Siracusa. Attraverso i mass media i cantastorie meridionali hanno raggiunto il pubblico di più paesi e col boom discografico hanno rimpiazzato il commercio di foglietti e libretti contenenti il testo delle loro storie, ballate e sfide poetiche (cuntrasti e duetti) con quello di dischi, cassette, compact disc, audiovisivi destinati a una fruizione privata che, nei circuiti dell’emigrazione, avviene lontano dall’Italia e dall’Europa.
Orazio Strano, Ciccio Busacca, Franco Trincale, Fortunato Sindoni risultano così autori di una discografia ampia e variegata e di un’autoproduzione discografica di cui, per fare un solo esempio, fa parte il recente, intenso cd in cui Sindoni ha raccolto alcune delle sue Ballate contro la mafia, introdotte da una toccante testimonianza dello scrittore Vincenzo Consolo; tra queste quella su Graziella Campagna, la diciassettenne di Villafranca Tirrena (Messina) trucidata nell’’85 nel dubbio che, inavvertitamente, avesse sfogliato, avendola trovata dimenticata nella tasca dei pantaloni portati nella lavanderia in cui lavorava per mantenersi agli studi universitari, l’agendina di un ben noto boss mafioso. In quest’ambito si situa la partecipazione di molti cantastorie a programmi radiotelevisivi diversamente ispirati alla logica del folk music revival: pensiamo a Controcorrente e Sottotraccia di Ugo Gregoretti, a Cronache italiane di Pierpaolo Pasolini, a Italia bella mòstrati gentile di Ignazio Buttitta fino alle comparse televisive di numerosi altri cantastorie quali Fortunato Sindoni il cui Contrasto tra il potente e il pescatore sulla spinosa questione del Ponte sullo Stretto è stata ripresa nella nota trasmissione Report di Rai Tre.
L’adesione a tali vasti circuiti comunicativi ha contribuito alla notevole dilatazione della piazza e del pubblico dei cantastorie di pari passo a una relativa italianizzazione del dialetto e a un ripensamento delle forme poetico-musicali siciliane. L’incremento delle canzoni o ballate di breve durata (5’-10’) ha comportato soprattutto una sensibile diminuzione delle storie – veri e propri poemetti su fatti di cronaca o sulla vita di un personaggio un tempo lunghe più di centosessanta sestine od ottave che cantate e recitate superavano spesso l’ora e mezza di ascolto – che difficilmente trovano oggi spazio per essere trasmesse per intero o possono essere tagliate senza considerevoli perdite di senso. Ci si pone così alla ricerca di nuove forme espressive, garanti di un sapere popolare per il quale non ci si rassegna a essere convocati quali simboli di un “passato esotico”, di un “mondo che scompare” che ancora conserva nell’ultimo cantastorie aspetti folkloristici, pittoreschi, telegenici. Qualche anno fa, in questo senso, Trincale riuscì a convincere Radio Sole 24 Ore a chiamarlo ogni giorno alle cinque del mattino per scegliere una notizia economica importante che il cantastorie, nelle due ore successive alla telefonata, trasformava subito in una ballata scritta, musicata e cantata quindi in diretta nel primo telegiornale delle sette.
Alla molteplicità dei circuiti comunicativi si accompagna quella di campi tematici che investono le più attuali cronache e questioni sociali, politiche, economiche, culturali. Cronache e questioni che i cantastorie individuano attraverso un’attenta fase di raccolta delle informazioni, condotta attraverso la partecipazione o l’osservazione diretta dei fatti, il reperimento di notizie dalla stampa, dalle fonti radiotelevisive, da informatori appositamente interpellati. Per Bella – autore assieme a Orazio Strano della nota storia Turi Giulianu (re di li briganti) ripresa da Scorzese come colonna sonora del film Toro scatenato – i cantastorie devono «saper sfruttare e osservare ogni occasione per esprimere il proprio punto di vista sui più spinosi problemi del momento». Anche Orazio Strano, in proposito, rendeva noto come il suo contrasto poetico sul fumo traesse ispirazione dalla ripetuta osservazione dei litigi fra due cittadini del suo paese, Riposto, vicino Catania: «Eranu due ca s’incuntravanu: unu fumava, l’altro che non fumava, e si nni dissiru tanti, capisti! Poi il poeta, il cantastorie ci dissi: “Ora vi fazzu na bella storia…” e fici U fumaturi e chiddu ca nun fuma».
Anche Busacca, nel ’51, debutta nella piazza di San Cataldo con L’assassinio di Raddusa, storia di una ragazza vendicatasi uccidendo pubblicamente in piazza l’uomo che l’aveva violentata. Dal ’58 è soprattutto Franco Trincale, già cantastorie nei paesi in Val di Catania, a osservare, da cantastorie e da emigrante, la vita nelle fabbriche di Milano, le lotte sindacali e studentesche, i drammi dei disoccupati, esplicitando le sue denunce in un vastissimo repertorio di storie e ballate, come attraverso veri e propri carteggi intrattenuti con esponenti del mondo politico e istituzionale quali Berlinguer, Pajetta, Pannella, Capanna, fino a Di Pietro cui è dedicata la raccolta Trincale ’92 – Storie di mafia, politica e tangenti. Anche Trincale restituisce l’immagine del cantastorie che «attinge la notizia alla fonte – quartiere proletario, case occupate, fabbriche in lotta, lotte dell’emigrazione, manifestazioni politiche – e la propaga nello stesso spazio per discuterne i contenuti con i diretti protagonisti. Poi tramite la forma acustica la propaga agli altri quartieri o città con la stessa realtà per farne esplodere le contraddizioni e comunicare le esperienze di lotta dei luoghi dove è stata attinta la notizia, che è diventata “ballata”. Nello stesso tempo riceve il giudizio critico di classe e nello stesso spazio attinge i mezzi vitali per la sopravvivenza». Così, raccogliere testimonianze dirette partecipando all’occupazione delle case popolari di Via Tibaldi organizzata a Milano dagli operai dell’Alfa negli anni Settanta, per Trincale significò assolvere a un «dovere irrinunciabile». Accadde che negli scontri tra polizia e occupanti morì un bimbo di sette mesi in braccio alla madre: nacquero Via Tibaldi, Quelli dell’Alfa, Scuola di classe, ballate che resero insanabile la frattura tra il militante Trincale e la “linea morbida” fin da allora adottata dal PCI.
La faticosa resistenza tuttora intrapresa da cantastorie affermati come Trincale nei confronti di amministrazioni comunali sorde agli artisti di strada, testimonia ancora come l’incessante rapporto con la folla sia per i cantastorie fonte inesauribile e cartina di tornasole della loro cronaca, della loro poesia narrativa. Non ultimo giunge, in questo senso, l’entusiasmo con cui Trincale è stato accolto dagli studenti della Facoltà di Lettere dell’Università «La Sapienza» di Roma, in occasione di vivaci conferenze-concerto organizzate tra il 2000 e il 2008. Attraverso ballate ormai divenute classiche – quale Sicilia a lutto sulla strage dei braccianti avvenuta ad Avola nel ’69 – e d’attualità quali quelle dedicate a Quel boss di Bossi, alla morte di Lady Diana, all’omicidio dello stilista Versace, al fatto che anche se disoccupati Ora semu europei, al caso O ‘Dell e alla pena di morte, Trincale ha dimostrato ancora una volta come la cronaca dei cantastorie costituisca una grande riflessione critica e pubblica della realtà e sulla realtà che ci circonda. Progetto di ri-flessione poetica dove la piazza – ce lo ricorda il «teatro dialettico» di Brecht che fu grande cultore dei cantastorie tedeschi (bänkelsänger) – è al contempo spazio di militanza e di lucido estraniamento, di re-citazione ma anche di rimessa in discussione delle versioni troppo consuetudinarie della storia.
In Lu trenu di lu Suli di Ignazio Buttitta la tragedia di Salvatore Scordo, minatore siciliano emigrato da Mazzarino (Caltanissetta) in Belgio e sepolto dalle macerie della miniera carbonifera presso la quale lavorava da un anno, crollata a Marcinelle nel 1956, si fa emblema dei drammi universalmente connessi a ogni fenomeno migratorio. Più che in altri componimenti dedicati dai cantastorie ai fatti dell’emigrazione – ricordiamo a titolo esemplificativo L’emigrante di Vito Santangelo o L’emigranti mortu vivu di Leonardo Strano – nell’opera di Buttitta un flessuoso simbolismo riflette le più sottili variazioni d’animo dei personaggi. Gli stessi oggetti sentono, gioiscono, si emozionano e si trasformano nell’avvicinarsi della disgrazia. «Nero» presagio di morte, il carbone belga contiene il gravame storico ed esistenziale che accompagna l’emigrante; di colpo però si trasforma in potenziale elemento di luce, allorquando si ricopre dei segni della vita, della fortuna, della rigenerazione socioeconomica: il carbone diventa «sangue nero», ma vivo e fondante, del malefico «dragone» che serpeggia nel sottosuolo.
Il nesso dialettico vita-morte gestito dal sangue nero della miniera e delle lacrime degli emigranti rievoca così la fenomenologia degli umori corporali che, in culture molto diverse tra loro, autori quali Frazer, Cocchiara, Lévi-Strauss, Héritier, Lombardi Satriani e Meligrana, Durand hanno visto tradurre ambivalenze presenti tanto nella sfera religiosa quanto in quella magica, nel diritto, nei rapporti interpersonali e via dicendo. Il crollo della miniera coincide anche con la trasmutazione simbolica della «vettura» ferroviaria sulla quale Rosa Scordo, moglie di Salvatore, e i suoi sette figli viaggiavano finalmente per ricongiungersi in Belgio e sulla quale apprendono della tragedia e della morte del loro capofamiglia: da camera di transizione che dischiude l’anelata fortuna all’estero la vettura si fa «fossa» che, in un’alba «senza lustru», con quello di Salvatore restituisce a Rosa – «non più fimmina né matri» – e ai suoi figli – «orfani di la matri e di lu patri» – solo lo «scheletru abbruciatu» d’ogni progetto di vita futura.
Anche in Paisi lumbardu e in La vuci di l’omini i treni, le case, le strade, i volti di uomini e donne, perfino i panni stesi al sole e le trecce d’aglio alle finestre si mostrano in una grigia estraneità a chi s’inoltra nelle vie incerte dell’emigrazione: delimitano spazi non più familiari per chi si trova a trasmutare con la propria la pelle sociale delle proprie cose. Chi parte acquista un nuovo senso degli spazi, degli sguardi, dei ricordi, del paese contro cui ora cozzano le camere scure, affumicate, alienanti delle metropoli. In storie dell’emigrazione quali Lu manifestu di Franco Trincale, sorti come quelle dell’emigrante, del ladro o del carabiniere appaiono decise altrove, in progettualità politiche dalle quali difficilmente si sfugge e più facilmente ci si rassegna in un silente stato di subalternità, accettazione, di velata contestazione. In Trincale l’emigrazione, la malavita, il sospirato arruolamento in polizia appaiono così come ambivalenti catastrofi o ancore di salvezza:
Ma chi non trova un posto nella polizia o nei carabinieri; chi non trova un posto alla Fiat o all’Alfa Romeo che cosa deve fare pi livarisi la fami a lu mé paisi? Deve andare a rubare…
Chistu fannu li picciotti A lu mé paisi pi campari: latri o carabbinieri diffirenza non ce n’è!
In forme più retoriche tale prospettiva si ripropone ne Il meridionale dove l’emigrazione è tempo di transizione in cui la nostalgia colma solo in parte il senso di svuotamento, di solitudine, d’incertezza connesso all’acquisizione di una rinnovata identità socioculturale. Così nelle ballate dell’emigrazione di Trincale, preghiere, lacrime, baci, saluti, doni, scambi rituali di fotografie, film, lettere, telefonate si profilano quali strategie dell’attesa, della partenza e del ritorno. Confluiscono nell’istituzione di una catena o ponte culturale la cui funzione è quella di provvedere, nel tempo, a riequilibrare gli scompensi prodotti dal distacco attraverso un biunivoco riadattamento dei valori folklorici di partenza a quelli dettati dalla nuova dimensione culturale. A tale prospettiva iniziatica fanno capo ballate quali Emigrante brava gente, Terra italiana, Coraggio paesano, La terroncina del papà, Le ferie, Italia bella, Lettera al papà lontano, Mamma bella mamma cara, Arrivederci paesano, Madre d’emigrante, Lo stagionale, La signorina svizzera, Lu cane siciliano, Emigrante, L’aria milanisi, Aranci siciliani, i vari dialoghi tra Terroni e polentoni. In Sicilia a Brooklyn la crisi culturale del nuovo arrivato pare poi stemperarsi tramite i veri e propri passaggi rituali (canori o gastronomici) consolidati nel tempo dalla comunità italoamericana:
Passai lu Strittu di Missina e ora lu ponti a Brucculinu. Truvai na spaghettata paisana cunturnata di canzuna all’italiana.
Sugli emigranti grava, scrive Franco Ferrarotti, una duplice «crisi morale» che li costringe a sopravvivere in una terra di nessuno, marginale, priva di sicuri punti di riferimento che lo aiutino a costruirsi uno status di lavoratore e cittadino. Una «doppia assenza», scrive anche Abdelmalek Sayad, che aggiunge alle dilacerazioni arrecate dall’espatrio le crisi interne alle società d’arrivo, da da tempo produttrici di emarginazione. Così in L’emigranti ripartinu di Buttitta il treno è «senza suli» quando «non è più Natale e Capodanno»; riporta gli emigranti dove c’è la neve, il buio, un padrone straniero, il lavoro duro mentre tanti restano impassibili.
Così anche le considerazioni di Leonardo Strano sui problemi dell’immigrazione in Italiani e vu cumprà mostrano emigranti e immigrati confondersi spaesati in mondi transitori di cui l’ordine, l’unità e il senso appaiono oscurati, svuotati. In una realtà fluttuante e frammentaria l’immigrato si trova senza via d’uscita: è stato costretto ad abbandonare la sua cultura d’origine per la quale può avvertire un oscuro ma forte senso di tradimento, e nello stesso tempo è respinto da un paese d’arrivo che, nella migliore delle ipotesi, chiede solo braccia ma non persone. Le implicanze di questa situazione, riflessa dalla ballata Ti lu scurdasti in cui Trincale torna a denunciare i pregiudizi sui nostri emigranti legandoli a quelli attuali sugli immigrati, rimandano a quello del mondo imprenditoriale che scorge in quella industriale la sola vera cultura, mentre le altre sarebbero solo preculture o inculture o, per così dire, culture abusive, in attesa di essere promosse al rango di culture sviluppate e socialmente rispettabili. Quali vittime delle numerose politiche governative che, a più riprese, hanno favorito le migrazioni; in Trincale emigranti e immigrati riappaiono quali vittime comuni e impotenti della xenofobia e della emarginazione.
Nella poesia dei cantastorie chi si trova costretto a partire o fuggire dal proprio paese partecipa, più o meno consapevolmente, a un paradosso intrinseco all’esperienza migratoria. Alimentata dal desiderio di sfuggire ai pressanti vuoti socioeconomici, alle guerre, agli sfruttamenti, l’emigrazione, lungi dal colmarli, reintroduce chi parte in più profonde dilacerazioni. Nei confronti del proprio gruppo originario chi emigra subisce una drammatica separazione fisica e culturale che, nel paese d’approdo, può contraddittoriamente risolversi sia nell’indebolimento dei tradizionali riferimenti culturali, sia nell’affannosa costruzione di un’autocoscienza etnica che accomuna gli immigrati e coloro che li ricevono nella difficile realizzazione di nuove società globali impegnate a ricercare faticosamente le proprie regole, un proprio equilibrio domestico, simbolico e rituale.
Prospettive queste su cui risultano improntati i testi di due ballate che infine propongo nelle note in appendice al lettore. La prima, di mia composizione, s’intitola E Lampedusa pari fussi Europa…e condensa i traumi psicosociali e simbolici del viaggio che gli immigrati compiono dalle coste libiche agli avamposti di un’Europa, presunta tale, attraversando un mare senza Caronte e della densità del muro. Si tratta di una ballata scritta nel 2014 e che trae ispirazione da Lampaduza, puntuale saggio pubblicato dall’editore Sellerio, in cui Davide Camarrone, quale attentissimo giornalista della Rai, ricapitola i contrasti storici, politici e antropologici dell’attuale fenomeno migratorio.
La seconda invece, col mio aiuto e con quello interdisciplinare delle professoresse Cinzia Coluccelli, Immacolata Franzese e Luisa Pelagallo, è stata composta dalla 1A e dalla 1D della scuola media dell’ICS Dante Alighieri di Roma che, in occasione della Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore del 2016, ha avuto l’originale idea di trasformare in piazza l’aula magna del loro istituto. I ragazzi hanno così messo in versi e musica La storia di Amì tratta da Il piccolo clandestino di Bruno De Marco (Ellepiesse, Napoli 2007) che ha come protagonista un loro coetaneo senegalese approdato in Italia su un pezzo di polistirolo lanciatogli dal padre un istante prima di morire nel naufragio. Amì è oggi accolto da una famiglia italiana che ha fatto l’inverosimile per fargli superare i traumi dell’emigrazione, gli smarrimenti, le esclusioni, le insidie del razzismo. Oltre alla ballata i ragazzi hanno così approntato non solo un foglio volante ad uso del pubblico, come sono soliti distribuire i cantastorie all’arrivo nelle piazze, ma anche un grande cartellone, dipinto su tela, che rappresenta a scene la vita del bambino senegalese sopravvissuto al tragico cammino della speranza, trasformato dai ragazzi della Dante in un poema emblema inquietante del mondo di oggi e dei suoi drammi.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note
E Lampedusa pari fussi Europa…
Versi e musica di Mauro Geraci
Lu cielu supra a navi si fa strittu
guardatu di mill’occhi a la diriva,
l’avutri milli non hannu dirittu,
pi d’iddi l’universu è nta la stiva.
Tripoli ormai è luntana e non si vidi,
non ci su’ stiddi, non c’è cchiù la luna,
ma cu sta sutta veru non ci cridi
pensa passatu ‘u mari a la furtuna.
Lu ventu è friddu e ognunu si li strinci
li vrazza nta li spaddi pi cuperta,
la fami ferma, a siti e cumu sfingi
affrunta ora st’urtima trasferta.
Mari e disertu,
lu stissu sunnu,
siccanu ‘a vucca,
la peddi e l’ossa,
siccanu a storia,
puru li nomi
chiddi ca ‘u passanu
non hannu cchiù.
Si va strincennu puru lu parrari
supra lu ponti di dda navi persa,
sutta non hannu ciatu pi ciatari
‘ffuga la nafta ogni parola persa.
Cu è svigghiu ancora pensa a lu caminu
chi fici pi fuiri di la guerra,
d’a fami dulurusa e d’un Cainu
chi lu tineva cu lu mussu ‘n terra.
E fora ‘u mari ‘nzonna la curuna
di stiddi di l’Europa assai stramani,
chi surgi e a tutti amuri ci duna,
na tavula cunzata e un pezzu ‘i pani
E inveci è scuru,
nun po’ scappari,
lu mari è muru
senza lampari,
sulu u muturi
nta l’ariu forti
svapura uduri
comu la morti.
E Lampedusa pari fussi Europa,
carzaru duru è, pi st‘innuccenti,
dd’occhi sgranati, tisi all’orizzonti
ora su’ chiusi a chiavi nta li Centri.
Centri di permanenza temporanea
unni li besti ammassanu a lu stazzu,
lu suli a picu li testi trapana,
lu granni cu lu nicu nesci pazzu.
Mentri a Bruxelles lu Miditerraneu
na cartulina pari, na bannera,
pittatu azzurru è ogni lituraneu
e luciunu li stiddi a ogni riviera.
Pari l’Europa
all’orizzonti
‘nveci è un canali
senza Caronti.
A Lampedusa
trova cu sbarca
sulu na mamma
chi duna l’acqua.
Storia di Amì