La Ricerca Folklorica, nome originale della rivista, al quale è stata aggiunta, in un secondo tempo, la denominazione abbreviata Erreffe, ha iniziato le sue pubblicazioni nell’aprile del 1980, sotto la direzione di Glauco Sanga; editore Grafo di Brescia; fondatori Giulio Angioni, Guido Bertolotti, Glauco Sanga, Pietro Sassu, Italo Sordi. La rivista è costituita di un Comitato di Direzione (attualmente composto dal direttore Glauco Sanga, dalla vicedirettore Elisabetta Silvestrini, e da Alessandro Casellato, Dario Di Rosa, Giovanni Dore, Gian Paolo Gri, Italo Sordi); e di un Comitato Scientifico Internazionale (coordinato da Franca Tamisari e composto da Maria Arioti, Linda Barwick, Giordana Charuty, Sergio Dalla Bernardina, Luisa Del Giudice, Maria Pia Di Bella, Vincenzo Matera, Lidia Sciama); adotta un sistema di doppia valutazione anonima dei contributi proposti (peer review) ed è presente in JSTOR. Dal primo numero la rivista ha avuto cadenza semestrale (aprile-ottobre), e dal 2014 ha cadenza annuale; pubblicata ininterrottamente dal 1980 ad oggi, è attualmente pervenuta al numero 77, sempre condotta da Glauco Sanga come direttore responsabile.
La prima denominazione della rivista dichiara esplicitamente quali fossero gli intenti iniziali dei fondatori: l’interesse per il folklore, e soprattutto per la ricerca. A questa dichiarazione programmatica contenuta nel titolo non si è venuti mai meno, anche se già dall’inizio è stata molto visibile la compresenza, con peso uguale, di etnografie e teorie; mentre il termine “folklore” è stato fin da subito allargato ad una dimensione più ampia, che ha incluso le realtà etnologiche, urbane e della cultura contemporanea, secondo la visione demartiniana della comunanza tra i destini delle classi subalterne occidentali e dei popoli coloniali.
In ciascun numero della rivista è contenuta una parte monografica, firmata da un curatore, e seguita da interventi miscellanei, rassegne, segnalazioni bibliografiche. Questa originale formula è stata in seguito adottata da altre riviste italiane di antropologia. La parte monografica dà il titolo a ciascun numero, e, come si può vedere nell’elenco dei 77 volumi pubblicati, dai temi affrontati si leggono agevolmente le tendenze e gli argomenti degni di interesse e di discussione. Non si è trattato di seguire le mode, operazione del resto inattuabile in una rivista semestrale o annuale: al contrario, molti argomenti sono stati anticipatori – tanto che in alcuni casi oggi riaffiorano – altri sono stati tentativi di ordinare e “sistemare”, anche dal punto di vista teorico, argomenti diffusi ma spesso parcellizzati e non sufficientemente discussi nel loro insieme.
Nel primo numero, infatti, si pone il tema della cultura popolare e delle relative questioni teoriche; e nei primi decenni Erreffe ospita temi e argomenti “classici” per la ricerca e riflessione antropologica, come fotografia, cinema, Carnevale, medicina popolare, fiaba, leggende, oralità e scrittura, cultura popolare e cultura di massa, e altro.
Nei decenni successivi lo sguardo si amplia e mette a fuoco tematiche più articolate, come le diverse tipologie della famiglia, forme associative, saperi ed etnoscienza, l’animalità, e le numerose forme nelle quali si declina l’antropologia: simbolica, religiosa, dello spazio, urbana, dell’alimentazione, dell’interiorità e delle sensazioni, medica e della salute, del turismo, dello sport, del rischio, del silenzio. Alcuni volumi sono, inoltre, atti di convegni ritenuti vicini, o contigui, alla materia antropologica. Si allarga ulteriormente l’interesse per i territori (America Latina, Asia, Oceania, Europa); due numeri sono dedicati, a distanza di tempo, ad Ernesto De Martino, uno all’opera di James Frazer e sue derivazioni. Da segnalare i due volumi di autobiografie di antropologi italiani: una vera miniera di notizie sulla formazione, sui primordi, sulle opere della maturità di numerosi antropologi italiani viventi, e sulle loro riflessioni e autovalutazioni. Alcuni autori sono stati particolarmente vicini alla rivista, sostenendola e collaborandovi: tra questi ricordiamo Diego Carpitella, Giorgio Raimondo Cardona, Clara Gallini, Amalia Signorelli.
Ci si può chiedere quali siano state le tendenze ed i tratti di continuità di questa lunga avventura, che prosegue ormai da più di quarant’anni. Sembra di poter confermare che il progetto iniziale di armonizzare narrazione etnografica e riflessione teorica, sempre sulla base della ricerca, non sia mai venuto meno. Si può anche osservare, inoltre, che – nonostante una apparente collocazione di ambito “settentrionale”, per i suoi rapporti con l’Università di Venezia ed i territori dell’Italia del nord – la rivista non è di certo l’emanazione di una specifica istituzione universitaria né l’espressione di una precisa e univoca “scuola” di pensiero antropologico: sostenuta dall’editore e finanziata esclusivamente dal mercato degli acquisti e degli abbonamenti – ad esclusione di qualche sostegno ricevuto sporadicamente – e pur restando solidamente legata ad uno status di metodo, procedure, interessi antropologici, Erreffe ha potuto godere di una significativa libertà sia nei contenuti sia nella scelta degli autori coinvolti, molti dei quali appartenenti alla comunità scientifica internazionale. L’assoluta indipendenza da gruppi accademici organizzati è uno dei vanti della rivista.
Una riflessione più generale sulle riviste italiane di antropologia comprende diverse problematiche. In primo luogo, è cruciale definirne la destinazione, se per studiosi specializzati, o anche per lettori colti, non professionali, per così dire, ma interessati. Non necessariamente l’apertura ad un pubblico più vasto richiede una rinuncia al rigore scientifico: inizialmente la Ricerca Folklorica, distribuita in alcune delle più importanti librerie (Feltrinelli, ad esempio), raggiungeva una più ampia platea di lettori, specialmente quando vi si affrontavano tematiche generali (la fotografia, il cinema, il Carnevale). Oltre alla scelta dell’impostazione e della destinazione della rivista, i temi più problematici sono, ovviamente, quelli della diffusione e promozione.
Oggi gli editori, che in gran parte richiedono un finanziamento diretto o un rientro sicuro delle spese sostenute, difficilmente provvedono alla costosa distribuzione nelle librerie (a meno che non si tratti di autori molto noti e di libri di incasso sicuro); alcune librerie, a loro volta molto provate dall’eccesso di pubblicazioni e dalla contrazione dei lettori, adottano una politica di promozione delle vendite attraverso continue presentazioni di libri. Anche i cataloghi delle mostre, ad esempio, non vanno in libreria, ad eccezione di quelli che illustrano gli eventi più importanti, anche perché gli editori, una volta coperte dai committenti, per intero, le spese della pubblicazione, non hanno interesse a pagare la costosa distribuzione. Si capisce, dunque, che lo spazio per le riviste di antropologia sia molto ridotto.
La diffusione e promozione delle riviste scientifiche, in particolare di antropologia, passa nel web, sia attraverso i siti specializzati, sia attraverso la conversione dal cartaceo al digitale, scelta, quest’ultima, determinata spesso, purtroppo, da motivazioni economiche. Naturalmente il formato digitale consente velocità di informazione e di trasmissione dei materiali, e immediati rapporti con le parallele istituzioni internazionali: ma tutte le questioni legate al tema dell’open access ci fanno riflettere sul fatto che il sistema può essere anche in qualche modo chiuso, meno accessibile di quello che a prima vista si poteva immaginare, e per certi versi volatile, se si pensa al continuo aggiornamento dei programmi, non sempre compatibili, alla lunga e nello scorrere degli anni.
Si potrebbe concedere ancora fiducia al cartaceo, anche per le riviste scientifiche, contrapponendo alla velocità, all’aggiornamento continuo, alla cultura del presente o del passato prossimo, il tempo rallentato del volume che si può toccare, sfogliare, perfino annusare: accettando però che le biblioteche domestiche degli studiosi si espandano in tutti gli spazi e negli anfratti più nascosti delle case, con poche speranze di smaltimento utile e di accoglienza da parte degli istituti preposti, pubblici o privati.
Tornando alle riviste italiane di antropologia, un tema cruciale è quello della divulgazione. Non è facile, in una rivista scientifica, contemperare il rigore con la possibilità di comunicare con il pubblico dei lettori, anche quelli colti: in Italia c’è un grande bisogno di antropologia, che non può essere lasciata alla narrazione di sia pur eccellenti divulgatori. Un po’ più ampia è la platea di coloro che si interessano, o si occupano, dei beni culturali DEA e dei temi del patrimonio, quest’ultimo però sempre a rischio per le invasive implicazioni economico-politiche imposte, o suggerite, dai rappresentanti locali.
Ma in genere aprire una porta ai lettori non professionisti non è sempre agevole: molti degli interventi possono divenire titoli per i concorsi, restando così nell’ambito delle richieste e delle esigenze della comunità accademica; e anche la valutazione peer-review, importante e necessaria, porta con sé criticità, tra le quali il rischio che i testi profondamente innovativi vengano non compresi e rifiutati dai revisori, a vantaggio di una produzione più convenzionale e omologata.
Da un lato, quindi, l’auspicabile incremento dei rapporti e degli scambi con altre riviste e istituzioni internazionali, in una dimensione per così dire “orizzontale” di comunicazione tra studiosi di discipline uguali o analoghe; dall’altro una ipotesi di avvicinamento, dai pochi ai molti, dagli studiosi a coloro che sono attivi nelle istituzioni e nel sociale. Certo alcune questioni racchiudono temi scottanti, come sanno bene gli antropologi che fanno ricerca e scrivono di migranti, di periferie povere, di urbanizzazione, di formazione, e così via. E, certamente, i tempi e le esigenze dei potenziali interlocutori sociali sono spesso nemici delle ampie e circostanziate stesure dei testi antropologici: la comunicazione nei media, le politiche culturali nella scuola, nei musei, nelle associazioni pubbliche e private, e così via, non riescono a tradurre correttamente quanto studiato e pubblicato in ambito antropologico. Ridurre, almeno in parte, la distanza tra la ricerca scientifica operata dagli studiosi professionisti e la generalità del pubblico resta comunque, a parere di chi scrive, un tentativo necessario per il futuro.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Elisabetta Silvestrini, ha effettuato ricerca in ambito italiano, privilegiando temi come la cultura materiale, l’antropologia dell’abbigliamento, l’antropologia dell’immagine, la “cultura della piazza”, l’antropologia storica, l’antropologia religiosa. Dal 1980 ha lavorato come etnoantropologa nel Ministero per i Beni e le Attività Culturali, prima nel Museo ATP, poi, dal 2003 al 2013, nella Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico per il Lazio. Dall’a.a.2001al 2011 è stata professore a contratto di discipline etnoantropologiche presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, e dal 2011 al 2015 presso l’Università di Macerata; attualmente è docente presso la Scuola di Specializzazione DEA dell’Università di Roma Sapienza. Ha conseguito nel 2013 l’Abilitazione Scientifica Nazionale (seconda fascia). È vicedirettore di Erreffe (La Ricerca Folklorica). Ultime pubblicazioni, come autrice e come curatrice: Spettacoli di piazza a Roma (2001); Abiti e simulacri, in R. Pagnozzato (a cura di), Donne Madonne Dee (2003); Simulacri vesti devozioni (2010); Acque, pietre, fuochi, alberi. Rituali di guarigione nei santuari e luoghi di culto del Lazio (2014); Confini, toponimi, luoghi stregati (2014, insieme a Milvia D’Amadio); Simulacri “da vestire” a sud di Roma e nel Lazio meridionale (2016); Amatrice. Dal cibo dei poveri alla notorietà gastronomica (2017); Statue, culti, sacre parentele (2017); Gustavo Cottino. Una vita da impresario e imbonitore (2018); Il potere del ferro (2019); I cardatori itineranti di Pietracamela (2020); Una ricerca per un museo (2020). Insieme a Francesca Fabbri e Alessandro Simonicca ha curato il volume Etnografie di materiali e pratiche rituali (2022).
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