di Antonio Albanese
Il contesto della nascita
Quasi nello stesso tempo in cui in America esplodeva il movimento della “Teologia della morte di Dio” [1], in Germania nasceva il movimento della “Teologia della speranza”. Gli inizi del secondo sono stati meno chiassosi del primo, ma hanno avuto uno sviluppo più continuo che è arrivato fino ad oggi. Entrambe le teologie devono la loro origine ad una decisa volontà di dialogare con l’ambiente culturale del tempo; un ambiente, in generale, profondamente ateo. Puntando in questa direzione era necessario non solo abbandonare il neotomismo e l’esistenzialismo che come sistemi stavano attraversando una crisi profonda, ma bisognava anche prendere atto che la visione che l’uomo occidentale aveva di se stesso, non era più quella gerarchica, teistica del neotomismo [2], e neppure quella angosciata dell’esistenzialismo [3].
L’uomo degli anni Sessanta, con le sue conquiste nello Spazio, col suo progresso tecnico ed economico, si faceva un’idea ottimistica della realtà, cioè aveva una visione fiduciosa del mondo e guardava al futuro con speranza. Occorreva dunque la traduzione in un nuovo linguaggio capace di intercettare le domande fondamentali del tempo, ma contestualmente adatto a trasmettere tutto il messaggio biblico. La svolta come sappiamo avviene grazie a Moltmann che con la sua Teologia della speranza regalava al mondo il primo tentativo di interpretazione sistematica del messaggio cristiano, assumendo la speranza come principio ermeneutico.
Scorrendo l’indice dell’opera ci si rende subito conto di un percorso che si staglia su una architettura formata da una introduzione, in cui sono esposte tre tesi sulla struttura dell’opera; il capitolo I a carattere teorico; i capitoli II – III che illustrano rispettivamente la fondazione della escatologia cristiana, ovvero una teologia della speranza, nell’Antico Testamento e nel Nuovo Testamento; i capitoli IV e V che elaborano infine le conseguenze della svolta escatologia. Chiude l’opera l’appendice in cui è riportato un dialogo con Ernst Bloch.
Moltmann, dopo aver ripercorso i tentativi di riscoperta della escatologia, nella filosofia e nella teologia degli ultimi secoli, analizza la tradizione ebraico cristiana a partire dalla categoria della promessa, e trova nell’evento della morte e della risurrezione la chiave ermeneutica del problema del futuro. A partire da questo passa poi ad analizzare il concetto di missione secondo due punti di vista: la prassi della testimonianza biblica e l’etica della speranza cristiana.
Ora, riportando la speranza al centro della teologia, egli cercava di rileggere tutta la rivelazione biblica in chiave “prolettica” (anticipazione del futuro) anziché “epifanica” (manifestazione del divino). In questa opera infatti egli esordisce affermando che «c’è un solo reale problema della teologia cristiana: il problema del futuro» [4]. Il futuro viene a occupare allora un posto privilegiato perché l’escatologia fa parte del nucleo centrale del messaggio cristiano rivelato; questo messaggio pone al centro della rivelazione Gesù Cristo visto come anticipatore del futuro di Dio, soprattutto nell’evento della risurrezione. In questo senso, l’escatologia, intesa come dottrina della speranza cristiana, abbraccia sia l’oggetto sperato sia la speranza da esso suscitata.
Dall’inizio alla fine, il cristianesimo è escatologia e speranza. Con questa premessa, Moltmann operava il passaggio dalla classica formula fides quaerens intellectum alla nuova formula spes quaerens intellectum, compiendo il primo passo verso una concezione escatologica, tale per cui anche la teologia sarebbe diventata docta spes, cioè la ragione della speranza che cerca di comprenderne le motivazioni di fondo e i contenuti dottrinali [5].
Per Moltmann, se è la speranza che sostiene la fede e sospinge il credente verso una vita di amore, sarà la stessa speranza a stimolare il credente verso una riflessione sulla storia, sulla società, sull’uomo in generale. Moltmann chiarisce i rapporti che intercorrono tra fede e speranza, riconoscendo alla speranza il compito di incanalare la fede verso il futuro che è stato aperto e liberato nell’evento di Cristo. La fede lega l’uomo a Cristo, e la speranza apre questa fede alla comprensione del futuro. Dirà Moltmann nella introduzione alla Teologia della Speranza: «senza la conoscenza di Cristo che si ha per la fede, la speranza diverrebbe un’utopia sospesa in aria. Ma senza la speranza, la fede decade divenendo tiepida e poi morta. Per mezzo della fede l’uomo trova il sentiero della vera vita, ma soltanto la speranza lo mantiene» [6].
La speranza, come principio architettonico della teologia, appare tanto più plausibile quanto più si collega direttamente con la risurrezione di Cristo, cioè l’evento grazie al quale si distingue l’utopia dalla escatologia cristiana. L’utopia è basata su fantasie, mentre la fede cristiana è basata su un fatto storico accertato. Per Moltmann la risurrezione non è qualcosa da comprendere e da spiegare alla luce di ciò che accade di solito storicamente, ma è la misura di tutto ciò che è storico. La risurrezione è storica perché dischiude il futuro escatologico, fonda la storia in cui l’uomo può vivere, mostrandogli la via verso gli eventi futuri. Essendo fondata su un fatto storico, la speranza cristiana è realistica. La speranza cristiana non concepisce le cose in modo statico ed immobile, ma variabili e capaci di divenire.
Le cose sono in movimento perché le speranze e le anticipazioni del futuro ci fanno percepire l’ampiezza delle possibilità effettive che mettono in movimento ogni cosa. Dirà Moltmann: «la speranza e la corrispondente riflessione intellettuale non possono quindi accettare l’accusa di utopismo, infatti non si protendono verso ciò che non è in ʽnessun luogoʼ bensì verso ciò che ʽnon ha ancora un luogoʼ, ma può averlo» [7]. Sono queste le ragioni per cui Moltmann vede la speranza come la porta di ingresso obbligatoria per chi vuole comprendere pienamente la rivelazione cristiana.
L’opera di Moltmann è un saggio di teologia escatologica i cui temi centrali del cristianesimo sono ripercorsi in chiave di futuro, promessa, speranza e missione. Nell’introduzione viene formulato il teorema principale: la speranza è speranza della fede; la speranza qualifica la fede. Prima viene la fede, poi la speranza Ma la fede si espande in speranza, e solo con la speranza raggiunge quell’orizzonte che comprende tutto. Questo teorema principale viene declinato attraverso tre tesi che enucleano la struttura dell’opera moltmanniana: la prima tesi è quella in cui si affronta la domanda su quale è l’essenza del cristianesimo. Egli risponde che l’escatologia non è una delle componenti del cristianesimo ma il tramite della fede cristiana. Essa è la nota su cui si accorda tutto il resto, tale da affermare che il cristianesimo è escatologia dal principio alla fine. La seconda tesi formula il fondamento cristologico della escatologia cristiana, riconosciuta nella prima tesi come essenza del cristianesimo: Il fondamento cristologico della escatologia significa rendere operante in teologia la risurrezione di Cristo. Questo dato, per Moltmann, è e rimane il dato centrale della fede cristiana. La terza e ultima tesi enuncia il compito della teologia: la teologia cristiana ha dunque un unico e vero problema che le viene imposto all’umanità e al pensiero umano: il problema del futuro.
La formazione culturale di Moltmann, inizialmente collocata fuori dal mondo universitario, si comprende attraverso la conoscenza della sua lunga e ricca vita. Una vita segnata da avvenimenti che si collocano in un quadro storico-sociale ben determinato. Moltmann è nato infatti ad Amburgo nel 1926; la sua era una famiglia protestante. A diciassette anni, in piena guerra, viene arruolato nell’esercito tedesco, come ci racconta lui stesso nella autobiografia [8]. Dopo la guerra trascorre tre anni di prigionia (1945-1948) in campi di internamento inglese e qui scopre la fede in Cristo grazie ad una Bibbia che un cappellano del campo gli aveva regalato. Cominciò leggendo i salmi di lamentazione dell’Antico Testamento, soffermandosi in particolare sul salmo 39.
Nel campo di prigionia inizia i suoi studi di teologia fino alla laurea conseguita a Gottinga nel 1952. Sono anni fecondi quelli di Gottinga grazie all’incontro avuto con docenti di questo calibro: Von Rad, Jeremias, Gogarten. Il maestro che però lo ha introdotto allo studio della dogmatica, in particolare quella di Karl Barth, è stato Otto Weber. Dopo la laurea, negli anni (1953-1958), svolge attività pastorale a Bremen come pastore e assistente degli studenti. Nel 1956 riceve l’abilitazione all’insegnamento universitario e comincia a impartire lezioni di teologia nella Kirchliche Hochschule di Wuppertal. A questa università, seguiranno quella di Bonn (1963) e Tubinga (1967). Nello stesso anno (1967) è anche in Usa come visiting professor alla Duke University.
L’attività teologica di Moltmann è avviata con gli studi di storia della teologia. Di carattere storiografico sarà anche la sua tesi. Condotta sotto la guida di Otto Weber, la dissertazione trattava di uno studio relativo all’ “Accademia ugonotta di Saumur”, nel contesto della tradizione riformata. Moltmann pubblicherà un estratto della sua tesi nel 1954 aprendo il campo al filone degli studi al tema della speranza che culminerà con il più importante trattato sistematico della sua carriera: Teologia della speranza [9].
La Teologia della speranza esce nell’ottobre del 1964. Dopo la Teologia della speranza, mentre aderisce al programma di teologia politica [10], per dare concretezza alle sue prime riflessioni, pubblica il Dio crocifisso (1972) che sviluppa una teologia della croce delle vittime della ingiustizia e della violenza, come segno della partecipazione di Dio stesso al dolore della umanità, che ha in Auschwitz una cifra conturbante per la Germania e per l’Europa [11]. Nel Dio crocifisso, la speranza si fa concreta nella resistenza contro il male.
Questa fase (1964–1975) si conclude con l’opera: La Chiesa nella forza dello Spirito, che affronta una serie di temi sistematici, rispetto alle due opere precedenti che invece si focalizzano su un solo tema centrale [12]. Negli ultimi quindici anni della sua docenza a Tubinga (1980-1994), il nostro teologo realizza una serie di contributi sistematici (otto volumi) che si presentano come una teologia dialogica e processuale, cioè una teologia che entra molto di più nelle questioni contemporanee. Questa serie di contributi si sviluppa in comunione ecumenica con le teologie delle Chiese cristiane, e ripensa in modo ecumenico tutti i grandi temi della tradizione.
L’attenzione di Moltmann per le tematiche ecologiche trova spazio nell’opera Dio nella creazione [13] che elabora una teologia ecologica sulla scorta della riflessione biblica sulla creazione. Con l’opera Lo spirito della vita [14] svolge invece una pneumatologia integrale, dalle cui pagine scaturisce un nuovo amore per la vita e la cultura della vita, oltre che una nuova spiritualità dei sensi, del corpo e della terra.
Della serie di contributi sistematici, in particolare, ricordiamo il quinto intitolato L’avvento di Dio [15] in cui non viene fatta una trattazione della “soluzione finale” di tutte le questioni in chiave religiosa, ma viene affrontata la questione escatologica come l’inizio o la creazione di tutte le cose. L’escatologia cristiana segue in tutte le dimensioni questo modello cristologico: alla fine l’inizio.
Uno degli ultimi contributi di Moltmann è il saggio Etica della speranza [16] intorno ad un’etica cristiana che argomenta un’escatologia in cui il futuro viene anticipato nel presente: l’etica della speranza è un’etica del regno di Dio promesso, concomitante con una etica della sequela di Gesù. Questa sequela diventa spinta trasformativa, per anticipare la nuova creazione di tutte le cose che Dio ha promesso e inaugurato in Cristo.
Moltmann, ma anche Pannemberg, Schillebbeckx e altri, hanno cercato di rendere accessibile il messaggio cristiano all’uomo moderno che usciva fallito dalla Seconda guerra mondiale. Oltre alla tirannia e alla vergogna di un popolo che ora cercava riferimenti concreti che ridestassero la voglia di andare avanti nonostante tutto. Mentre in America esplodeva un movimento che vedeva un mondo senza Dio, in Germania nasceva il movimento della “Teologia della speranza”. Sia la Teologia della speranza che la Teologia della morte di Dio, devono la loro origine ad una volontà di dialogare con l’ambiente culturale del loro tempo; un ambiente, in generale, profondamente ateo. Se nei Paesi anglosassoni l’ateismo ha avuto come supporto ideologico il neopositivismo, nell’Europa centrale ha invece confermato il marxismo storico e dialettico. Da questa diversità di ambienti derivava una profonda diversità delle due teologie che ovviamente rispecchiava una variazione del sistema filosofico.
Vi era l’esigenza preminente dei teologi di trasmettere il messaggio cristiano all’uomo degli anni Sessanta che guardava al futuro con ottimismo e fiducia, mentre il neotomismo e l’esistenzialismo non rispecchiavano più la visione che l’uomo aveva di se stesso. La teologia dialettica, al tempo stesso, in tutte le sue forme “barthiana, tillichiana, brunneriana, bultmanniana”, come pure la visione gerarchica e teistica del neotomismo, non aveva più presa sull’uomo degli anni Sessanta. Cosa occorreva? Ecco che i teologi della speranza, nell’intento di corrispondere alla visione ottimistica dell’uomo del dopoguerra, e nel clima di guerra fredda e di scontro tra i due blocchi di potere usciti vincitori, sentono l’esigenza di dialogare e di cercare un terreno di incontro con quei gruppi e movimenti di ispirazione marxista. Questi teologi trovarono la radice per elaborare una teologia della speranza, nella riscoperta della escatologia, e nella filosofia elaborata da Ernst Bloch. A queste due radici va a sommarsi l’orientamento di pensiero dello “storicismo” [17], nel cui clima culturale notiamo la ripresa di una teologia della storia, prima come rapporto con la filosofia della storia, poi come relazione tra la teologia della incarnazione e la teologia escatologica.
Il ricupero dell’orizzonte escatologico
Nella prima pagina del primo capitolo del suo capolavoro, Moltmann scrive:
«uno degli avvenimenti più importanti nella teologia protestante recente è costituito dalla scoperta che l’escatologia ha una rilevanza centrale per il messaggio e per la vita di Gesù, e così pure per il cristianesimo primitivo; tale scoperta è avvenuta alla fine del XIX secolo per opera di Johannes Weiss e di Albert Schweitzer» [18].
Nel capitolo primo Moltmann analizza il ricupero della escatologia da parte della teologia contemporanea, partendo dalla escatologia conseguente di Schweitzer per arrivare alla escatologia della storia universale di Pannenberg, passando attraverso l’escatologia trascendentale di Barth e Bultmann. Il primo capitolo di carattere storico si muove attraverso l’analisi e la critica dei vari tentativi teologici che sono stati fatti per interpretare il carattere escatologico della rivelazione cristiana. In particolare ci si concentra sull’analisi dell’opera La predica di Gesù del regno di Dio (1852) di Weiss che si colloca nella ricostruzione della ricerca sulla vita di Gesù di Albert Schweitzer. Se Strauss aveva posto il primo dilemma: o un Gesù puramente storico o un Gesù puramente soprannaturale, Weiss pone invece un’altra questione: o un Gesù escatologico o un Gesù non escatologico.
Per Weiss il regno di Dio annunciato da Gesù è un regno futuro e solo futuro. Gesù annuncia il regno di Dio e lo attende con gli altri. Dunque allora la sua predicazione non è diretta ad una diffusione del regno di Dio, ma solo all’annuncio della sua prossima venuta. La scoperta di Weiss, come viene riportata da Moltmann, è che la teologia recente fa un uso etico-religioso della idea secondo cui il regno di Dio è un regno ultraterreno che si trova in contrasto con il mondo. L’escatologismo di Weiss viene poi ripreso da Schweitzer nella sua escatologia conseguente, ma supera tutte le immagini di Gesù della teologia liberale del secolo. In questa escatologia, in cui le uniche fonti attendibili sono il Gesù di Marco e di Matteo, abbiamo un Gesù escatologico vissuto nella attesa della fine del mondo e dell’avvento soprannaturale del regno di Dio. Tutta la storia del cristianesimo, poggiando dunque sul fatto che la parusia non si è avverata, ha condotto a questa conclusione: si è rinunciato all’escatologia e si è iniziato un processo di “descatologizzazione”.
Moltmann, nella Teologia della speranza, cerca di uscire da questa ipotesi sostenendo che l’escatologia storicizza la realtà, cioè si incarna nella storia. A partire da questo punto, si apre davanti a noi il secondo percorso della teologia moltmanniana della speranza: l’escatologia trascendentale di Barth e Bultmann in cui la rivelazione assume la figura della auto-rivelazione [19]. È il momento in cui i teologi della dialettica riprendono il discorso escatologico che l’idealismo aveva messo da parte; ma mentre in Barth la rivelazione è auto-rivelazione di Dio in cui si presenta un cristianesimo che non può non avere a che fare con l’escatologia perché altrimenti non avrebbe a che fare con Cristo [20], in Bultmann, l’auto-rivelazione, è auto-rivelazione dell’umano cioè una forma antropologica della auto-rivelazione.
Esiste una escatologia cristiana? Questa è la domanda principale di Moltmann, in questa seconda fase del suo pensiero. Egli risponde che senza dubbio esiste una escatologia cristiana, anche se non è ancora in grado di far saltare le categorie che formano l’intelaiatura di certe forme di pensiero [21]. Moltmann, nella Teologia della speranza, parla di “escatologia trascendentale” e intende esprimere così l’impianto e la struttura di tale escatologia. L’escatologia trascendentale è vista nella versione filosofica, di derivazione teologica (Barth-Bultmann). La versione filosofica la si trova in Kant. Kant ha ridotto le rappresentazioni escatologiche, e il concetto generale della fine di tutte le cose, a principi etici: l’escatologia si fa escatologia etica. Ricordiamo soprattutto che l’escatologia kantiana è escatologia etica perché è escatologia trascendentale. La versione “trascendentalista kantiana” conosce una sua prosecuzione teologica che Moltmann vuole spezzare. Infatti riprende il pensiero di Hegel che esprime molte perplessità per la riflessione kantiana sulla soggettività trascendentale [22].
Alla teologia si presenta il dilemma della storia di Cristo che, nella misura in cui diventa per l’intelletto una “verità accidentale della storia”, la si trasforma in una fede contemplativa delle verità eterne. Nella misura in cui il messaggio proclamato nella storia decade a mera fede storica della Chiesa, la fede si eleva a fede di ragione pura e in diretto rapporto con Dio [23]. Per Moltmann si tratta di una riduzione della escatologia a delle prospettive escatologiche che in questo senso non hanno nessuna rilevanza per la conoscenza del mondo sensibile. Hegel, a cui Moltmann si rifà, sostiene che questa processo di oggettivazione-soggettivazione è un prodotto della filosofia che determina il mutuo condizionamento dialettico tra i due processi. Hegel dice che avviene una negazione e una evasione dalla storia: da una parte l’essere viene trasformato in un meccanismo; dall’altra l’uomo cade in una soggettività che lo fa fuggire dalla realtà. La teologia, afferma Moltmann, deve allora fare una sintesi e una mediazione, hegelianamente parlando, tra i termini contrastanti.
Su questo quadro si innestano le obiezioni che Moltmann solleva alle versioni di Barth e Bultmann. La versione di Barth viene definita come la teologia della “soggettività trascendentale” in cui l’auto-rivelazione di Dio significa: Dio rivela se stesso all’uomo. Dio stesso è colui che rivela ed è la cosa rivelata. La soggettività di Dio in sostanza assume la figura del trascendentale in quanto è auto-rivelazione di Dio che è la condizione che l’eternità di Dio pone al tempo. L’autorivelazione poi si configura come la pura presenza di Dio; una eterna presenza di Dio nel tempo, un presente senza futuro[24]. Moltmann fa una prima obiezione: bisogna intendere la rivelazione come: «epifania dell’eterno presente e non come apocalissi del futuro promesso»[25]. La redenzione futura promessa nella rivelazione di Cristo diventa a sua volta una mera appendice. Moltmann sostiene che queste forme di pensiero che oscurano il linguaggio della escatologia, derivino dalla spirito greco che vede appunto nel logos l’epifania dell’eterno presente dell’essere. Ma come abbiamo detto, il teologo non vede nel logos greco il linguaggio proprio della escatologia, ma la “promessa” che fonda la speranza.
Sull’altro versante abbiamo la versione bultmanniana della escatologia che è la teologia della soggettività trascendentale dell’uomo. Per Bultmann, Dio si auto-rivela, rivelando l’uomo a se stesso. L’auto-rivelazione di Dio diventa l’auto–comprensione dell’uomo. Moltmann fa una obiezione duplice alla posizione bultmanniana: viene perduta la dimensione cosmica; la speranza nel futuro promesso svanisce. Poi, come seconda obiezione, come nel caso di Barth, la rivelazione è interpretata nella forma della epifania dell’eterno presente. Nell’uno e nell’altro caso l’eschaton è presentizzato: cioè è “escatologia presentica”. Per Moltmann invece l’escatologia è “futurica”.
Il bilancio di Moltmann tende a mostrare che la riscoperta della escatologia storica segue la tradizione biblica contrariamente a quelle escatologie “a- storiche”. La Bibbia è parola di Dio che è parola della promessa. Moltmann afferma con sufficiente ragione che l’escatologia non si può intendere come scienza in senso greco, e neppure nel senso di scienza sperimentale. Si può intendere soltanto come conoscenza della speranza e cioè come conoscenza della storia. Il pensiero greco ha messo un velo che ha impedito di vedere di quale Dio si parlasse.
Per completare questo quadro, non si può non scrivere di un altro grande autore che Moltmann tratta nella Teologia della speranza: Wolfgang Pannemberg [26], il quale elabora una teologia della storia universale che è un superamento della teologia greca. Sostituisce a una concezione cosmologica di Dio, che deduceva da questo cosmo un unico principio, una teologia della storia che deduce la rivelazione di Dio dalla storia.
In uno scritto del 1961 dal titolo Rivelazione come storia, fa il tentativo di liberare la riflessione teologica sulla auto-rivelazione di Dio, dalla filosofia della soggettività trascendentale. Con Kant abbiamo visto che non si può provare Dio e la sua azione nella storia e neanche possiamo dimostrare la rivelazione da un punto di vista oggettivo. La rivelazione è rientrata solamente nell’ambito della soggettività trascendentale. Moltmann nella Teologia della speranza sostiene che se si vuole rompere questo modo di pensare bisogna cercare un’alternativa sia ai concetti moderni di scienza e di critica della ragione, sia alla metodologia del metodo storico-critico con cui si tratta la realtà [27]. La teologia del kerygma, e l’idea di una “diretta” auto-rivelazione di Dio mediante la parola, viene sostituita da una “indiretta” auto-rivelazione di Dio attraverso la sua azione nella storia.
Gli avvenimenti della storia parlano di Dio e ci comunicano qualcosa di Lui ma, secondo Pannemberg, l’auto-rivelazione piena di Dio è possibile solo nella totalità della storia. Dato allora che la storia non è ancora finita, la pienezza della auto-rivelazione non è possibile guardarla ora, ma sarà possibile guardarla soltanto alla fine della storia. Con Gesù si anticipa la fine della storia non ancora realizzata e questo implica che la conoscenza di Dio sia sempre e soltanto “prolettica e anticipatoria”. Di questa visione prolettica Moltmann è un sostenitore e quindi possiamo dire che egli sia vicino alle posizioni di Pannemberg.
Si è arrivati, dopo questo percorso, alla cosiddetta escatologia della storia universale che conduce, nelle pagine seguenti dell’opera moltmanniana, al confronto/contrasto tra le due teologie della rivelazione: quella della storia e quella della parola.
Il capitolo secondo della Teologia della speranza tratta della fondamentale e centrale categoria della promessa. Moltmann ci dà il significato semantico della parola promessa: «una promessa è una dichiarazione che preannunzia una realtà che non esiste ancora» [28]. Si parla nel nostro caso di promessa di Dio che orienta l’uomo al futuro. La storia è orientata verso questa promessa che deve ancora venire. La direzione della storia verso l’adempimento promesso è determinata dalla “Parola” che essendo parola di promessa, trova il suo adempimento nel futuro. Sulla scorta degli studi di Martin Buber e di Victor Haag,
Moltmann afferma che la peculiarità dell’Israele storico consiste nel fatto che le tribù israelitiche, passando dal nomadismo a forme di vita agricola e cittadina, hanno conservato il Dio della promessa. La religione dei nomadi che vivono nel mondo della migrazione, è religione della promessa in cui Dio non è vincolato a nessuna località o territorio, ma conduce ad un futuro che è la meta della migrazione e delle sue difficoltà. Gli elementi epifanici della religiosità di Canaan sono stati storicizzati alla luce del Dio della promessa. La religione di Israele non è dunque religione di epifania, bensì religione della promessa. La novità sta proprio nell’aver conservato questo Dio della promessa che si è manifestato nel deserto, nel momento in cui i Paesi orientali erano immersi in mezzo a leggende che avevano fatto di certi luoghi, dei luoghi di culto. In questi luoghi di culto si avevano delle “ierofanie” che assicuravano una speciale “protezione” a chi abitava e coltivava questi luoghi. La teologia naturale aveva poi visto una buona base di appoggio in queste religiosità mitiche. Si capisce ancora meglio ora, dopo quello che abbiamo detto, quanto sia stata forte la tensione tra la fede nella promessa e la religiosità delle epifanie. Da una parte le tendenze antistoriche raccontate dai fatti avvenuti, dall’altra il Dio della promessa in cui la storia veniva compresa nella categoria del futuro operante in modo storicizzante.
Sorge certamente la domanda su come è possibile parlare di escatologia di fatti mitici. Come questi fatti possono essere inseriti nella fede fondata sulla promessa. Sorge ora la necessità di chiarire meglio cosa intendiamo per promessa di Dio, di cui abbiamo già accennato all’inizio del paragrafo. Moltmann fissa in sette punti il significato di promessa di Dio seguendo gli studi di Walther Zimmerli e di Gerhard Von Rad:
1) Il futuro aperto e atteso dalla promessa di Dio viene dato da un surplus di possibilità rispetto a quelle che sono le possibilità ordinarie offerte dal presente. Il futuro non nasce dall’uomo ma dal Dio della promessa.
2) Se ogni promessa proiettata verso il futuro, vincola l’uomo e lo mette in grado di percepire il senso della storia, allora quando si tratta di promesse divine, il legame con il futuro, e quindi l’orientamento e il senso della storia dell’uomo che cammina verso il futuro, sono senz’altro precisati dalla storia della promessa e dall’avvenire del futuro. Il futuro è reso possibile dall’adempimento che esso è inscritto nella promessa.
3) La direzione verso cui si muove l’adempimento della promessa non è frutto di forze casuali ma viene dalla fedeltà di Dio. La storia cominciata con la promessa comporta sempre un nuovo inizio. Storia e promessa camminano insieme e sono correlate grazie alla parola della promessa che indirizza il tempo in due modi: il tempo in cui la promessa è stata fatta; il tempo di attesa affinché si realizzi la promessa.
4) La parola di promessa, proprio perché è significativa di promesse, e quindi è promessa di ciò che non c’è, eccede la realtà; si trova in contraddizione con la realtà. Nella valutazione della realtà il dubbio e la fede dell’uomo entrano in conflitto davanti alla promessa in quanto futuro sperato e atteso.
5) Tra la promessa e il suo adempimento c’è uno spazio incommensurabile perché fuori del tempo, e carico di contraddizioni e di tensioni. Dentro questo spazio si gioca la libertà dell’uomo per la quale si accetta o respinge la parola di promessa. Da questo deriva la speranza o la disperazione che caratterizzano il vivere umano davanti a Dio e alla storia del mondo.
6) Se la promessa non è astrattamente separata dal Dio della promessa, e soprattutto se l’uomo non pretende di inventare i momenti storici nei quali la promessa possa diventare adempimento, ma si affida alla libera iniziativa di Dio, allora si supera la tentazione di fare i conti con il passato e si smette di attendere in modo fatalistico il futuro come qualcosa di dovuto secondo degli schemi razionali.
7) Dalla religione di Israele si viene a comprendere che Dio è sempre superiore alle promesse fatte e al loro adempimento. E così la promessa continua anche dopo che è stata fatta l’esperienza del suo adempimento. L’adempimento della promessa continua anche dopo che si è presentata: non rimane soltanto memoria ferma nel passato ma mette in moto il cammino verso Dio che si rivela e continua a rivelarsi nel futuro.
Questi sette punti si possono ulteriormente condensare in due: a) Una promessa è una dichiarazione che preannunzia una realtà che ancora non esiste e che orienta l’uomo verso la storia futura; b) La promessa di Dio ha un carattere di “plusvalore” cioè la sua costante eccedenza rispetto alla storia si fonda sulla inesauribilità del Dio della promessa. Il Dio percepito da Israele nelle sue promesse rimane superiore ad ogni adempimento di cui si possa avere esperienza.
Sotto la promessa di Dio è possibile vedere nella realtà la storia che avanza, e lo spazio per sperimentare e ricordare la rivelazione dalla storia sulla base della promessa fatta. Questo è quello che è accaduto al popolo di Israele che ha potuto vivere la realtà come storia in cui Dio si era rivelato sempre nelle sue promesse. L’orizzonte della promessa è ciò che ha reso possibile ad Israele l’esperienza della storia, percepita e vissuta, anche nel loro carattere di incompiutezza e di provvisorietà, non solo nella causalità, che li apre sempre in avanti verso qualcosa che non è ancora presente. Insomma, come ci ricorda Moltmann, i fatti storici non possono mai essere considerati come processi che hanno finito il loro tempo. Devono essere intesi come tappe di un processo che prosegue. I fatti, allora, non manifestano la presenza dell’assoluto come nelle religioni “epifaniche” o nelle mitologie greche in cui il passato era reso presente alla memoria come origine sempre presente, ma si mostrano come l’avanzare del tempo verso quel continuum nel quale Israele poteva riconoscere la fedeltà di Dio. Dato questo carattere promissorio della rivelazione, Dio si rivela nella sua fedeltà alle promesse, e suscita così una speranza che non si limita alla Sua persona:
«la speranza, quando si attiene alle promesse, spera che la venuta di Dio arrecherà anche ʽquesto e quelloʼ, ossia la sua signoria che redime e ristabilisce tutto. Non si limita a sperare personalmente ʽin luiʼ, ma nutre anche delle speranze concrete sulla sua signoria, la sua pace e la sua giustizia che si stabiliscono sulla terra» [29].
Rimane un’ultima domanda che sorge naturalmente visto che la storia veterotestamentaria è contrassegnata dalla esperienza della promessa di Dio: quando una promessa diventa escatologia? Facciamo fede sempre alle parole di Jurgen Moltmann:
«da quando è stato riscoperto il carattere escatologico delle parole usate dalle testimonianze bibliche, il concetto di ʽescatologiaʼ è diventato nebuloso. Mentre nella dogmatica ortodossa indicava il capitolo finale de novissimis, spesso privo di connessione con il resto e quasi supplementare, oggi quel concetto ha acquistato nella dogmatica e nella esegesi significati diversi e a secondo del materiale a cui viene applicato vuol dire semplicemente ̒futuroʼ, o che ʽsi estende al di là del presenteʼ, o ʽl’ultimo tempoʼ, o ʽtrascendenteʼ, o ʽorientato verso una meta ultimaʼ, o ʽdi valore decisivoʼ» [30].
Escatologico è dunque un termine che deve essere di volta in volta “semantizzato”, tanto è carico di significati. Tra gli studiosi il problema si pone in questi termini: L’éschaton significa semplicemente futuro? Oppure si riferisce al futuro assoluto che si contrappone alla storia? Moltmann individua, nel messaggio dei profeti, il punto in cui la promessa veterotestamentaria assume la dimensione escatologica, in quanto nel messaggio dei profeti la promessa assume una universalizzazione e una intensificazione, ossia si radicalizza in un processo (promessa) che raggiunge il livello escatologico. Escatologico, in questo senso, non è semplicemente un “futuro infrastorico” particolare di un popolo, né un “futuro assoluto” contrapposto alla storia, bensì un futuro storico universalizzato e radicalizzato fino agli estremi confini della terra.
In linea con questa interpretazione vi è anche la valorizzazione che Moltmann propone della “escatologia apocalittica” del tardo giudaismo. Ricuperando e valorizzando il discorso apocalittico, Moltmann ha intenzione di procedere verso una interpretazione escatologica e storica del cosmo, ossia di una storicizzazione del cosmo nella escatologia apocalittica. Riprendendo gli studi di Martin Buber e Gerard Von Rad supera la concezione bultmanniana di rivelazione, che non teneva conto delle tradizioni bibliche, determinando una svolta nella teologia dogmatica. Pur nelle differenze che ci sono tra la concezione apocalittica della storia e la concezione della promessa contenuta nella escatologia dei profeti, Moltmann riesce ancora una volta a confermare la sua tesi di fondo che vede l’escatologia come orizzonte di tutta la teologia. Infine, parlando della “escatologia politica”, cerca di far vedere come tutte le escatologie storiche derivano da intenzioni di natura politica che si alimentano dal motore della storia.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Sotto il termine di teologia della morte di Dio sono raccolte due tendenze distinte: la teologia secolare o della secolarizzazione, e la teologia della morte di Dio in senso stretto. La teologia secolare constata l’assenza di Dio dalla cultura contemporanea e conclude che bisogna cambiare la vecchia l’immagine di Dio per una più accettabile dalla cultura contemporanea. I teologi della morte accantonano Dio perché dicono sia ormai liquidato dalla coscienza della umanità senza nessuna possibilità di ricuperarlo.
[2] Il neotomismo è un movimento filosofico, che nell’ambito della cultura cattolica intendeva ritornare alla filosofia di San Tommaso. Come interpretazione più corretta della dogmatica cattolica, contrappone le proprie tesi a quelle della filosofia moderna e contemporanea. Sorto verso la fine del secolo XIX, il neotomismo ha avuto una larga diffusione per tutto il secolo XX. I maggiori rappresentanti sono: Gilson, Maritain, Gemelli.
[3] L’esistenzialismo è una corrente filosofica che raccoglie autori e filosofi che, a partire soprattutto dagli anni trenta del novecento, sull’onda della riscoperta di Kierkegaard, hanno insistito sulla insensatezza, l’assurdo, il vuoto che caratterizzano la condizione dell’uomo moderno in un mondo che, sia come ambiente naturale sia come società e realtà storica, è diventato a lui completamente estraneo o addirittura ostile.
[4] J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 19816 :12.
[5] Cfr. Ibid:.29.
[6] Ibid.:14.
[7] Ibid., p.20.
[8] Cfr. J. MOLTMANN, Vasto spazio. Storie di una vita, Queriniana, Brescia 2011.
[9] Cfr. J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 19816. Il titolo principale dell’opera è: Teologia della Speranza porta come titolo originale “Theologie der Hoffnung Untersuchungen zur Begrundung und zur den Konsequenzen einer christlichen Eschatologie” cioè: “Teologia della Speranza ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana”.
[10] La teologia politica ha il suo manifesto programmatico nel testo della conferenza tenuta da J.B. Metz al congresso internazionale di teologia di Toronto (1967). Pubblicata per la prima volta in Concilium (1968). Nella intenzione dell’autore la teologia politica viene intesa in primo luogo come correzione critica di una tendenza estrema della teologia attuale alla privatizzazione.
[11] Cfr. J. MOLTMANN, Il Dio Crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 1973.
[12] Cfr. J. MOLTMANN, La Chiesa nella forza dello Spirito. Contributo per una ecclesiologia messianica, Queriniana, Brescia 1976.
[13] Cfr. J. MOLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 2007³.
[14] Cfr. J. MOLTMANN, Lo spirito della vita.Per una pneumatologia integrale, Queriniana, Brescia 1994.
[15] Cfr. J. MOLTMANN, L’avvento di Dio. Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2004².
[16] Cfr. J. MOLTMANN, Etica della speranza, Queriniana, Brescia 2011.
[17] Lo storicismo è un movimento filosofico che a partire dalla metà del XIX secolo fino agli fra le due guerre mondiali, ha posto l’accento sull’irriducibilità della conoscenza storica a leggi universali e necessarie, come quelle tipiche delle scienze naturali, giungendo, nei suoi esiti più rappresentativi, a proclamare la superiorità della conoscenza storica su quella delle altre discipline, in quanto soltanto tale conoscenza sarebbe capace di cogliere gli aspetti individuali e i valori che costituiscono l’essenza più profonda della vita e della realtà spirituale. Lo storicismo si è affermato soprattutto in Germania e in Italia, ma secondo linee di sviluppo piuttosto differenti. L’iniziatore della corrente è Wilhelm Dilthey.
[18] Ibid:.33.
[19] L’auto – rivelazione in entrambi gli autori assume la forma “trascendentale” che prende appunto il nome di escatologia trascendentale o in maniera più raffinata “escatologia presentica”, per indicare la puntuale presenza di quello che si chiama “éschaton nel presente” o istante escatologico come direbbe Bultmann.
[20] Cfr. K. BARTH, L’Epistola ai romani, Feltrinelli, Milano 2002.
[21] Cfr. J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 19816 : 36.
[22] Kant sostiene nella sua opera “Critica della ragion pratica” che è impossibile la conoscenza intellettuale delle “cose ultime” perché gli oggetti sono fuori dal nostro campo visivo ed è inutile rompersi la testa per capire la loro natura Questi oggetti, acquistano per mezzo della ragione pratica soltanto un valore morale. La realtà che si presenta è percepita dalla ragione teoretica e quindi è possibile razionalizzare. Degli eschata (le cose finali) non si può avere alcuna conoscenza in quanto fuori della portata della ragione: Cfr. I. KANT, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 2006.
[23] Cfr. J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 19816 : 45.
[24] Ibid: 54.
[25] J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 19816: 54.
[26] Wolfhart Pannenberg nasce in Germania nel 1928. Studia filosofia e teologia prima a Berlino e poi ad Heidelberg, dove inizia ad insegnare negli anni cinquanta e dove sarà uno degli animatori del «circolo di Heidelberg».Successivamente sarà docente di teologia a Wuppertal,Magonza e Monaco di Baviera. Esponente del cristianesimo protestante esprime una teologia di ispirazione antropocentrica. Il pensiero teologico di Pannenberg è caratterizzato dal tentativo di conciliare fede e storia in una visione coerente incentrata sulla idea della storia come progressiva rivelazione di Dio. La sua visione, che in parte è in polemica con Barth e Bultmann, vede il punto di arrivo della storia coincidente con il ricongiungimento dell’uomo con Dio.
[27] Cfr. J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 19816: 73.
[28] J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 19816 : 103.
[29] Ibid:.120.
[30] Ibid: 125-126.
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Antonio Albanese, (Ph.D) ha studiato filosofia e teologia in diverse università italiane. Socio dell’Associazione Italiana di Sociologia, membro dell’International Centre for the Study of Religion (ICSOR), da alcuni anni partecipa alle ricerche sociologiche quanti-qualitative sulla religiosità in Italia. Collaboratore della Critica Sociologica, ha scritto numerose recensioni e svariati articoli. Autore di alcune monografie su tematiche religiose, il suo ultimo volume, in fase di pubblicazione, si intitola Processi latinoamericani: dal colonialismo alla teologia della liberazione (Aracne).
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