di Mariano Fresta
I viaggi organizzati mi sono stati sempre antipatici, perché è vero che non hai da pensare ad alberghi e ristoranti e alle strade da percorrere, oppure agli orari dei treni e degli autobus, ma è anche ovvio che si è costretti innanzitutto a starsene seduti immobili per ore sui pullman che ti portano da una città all’altra, e poi a sottometterti agli arbitrî delle guide e ai loro concetti di turismo, di cultura e di arte. A volte, tuttavia, non si può fare altro che cedere ai suggerimenti e ai piccoli ricatti familiari: «Ma dove vuoi andare… alla tua età …. Ti stanchi …. Guidare l’auto? Non se ne parla nemmeno!». E via disputando. Così, pro bono pacis, si va in agenzia e si prenota un pacchetto che include viaggi aerei, spostamenti in pullman, guide, vitto (bevande escluse) e alloggio. Destinazione: Marocco, le città imperiali.
Dopo nove giorni, trascorsi a visitare a grande velocità le cosiddette città imperiali e a guardare per moltissime ore dai finestrini del pullman i paesaggi sconosciuti, sono tornato in patria, stanco ma non molto contento, come invece si scriveva nei componimenti delle scuole elementari e medie, dopo aver partecipato ad una gita. Tanto valeva comprare un bel libro fotografico e goderselo con calma seduto in poltrona; ma mi sarei perso la visione diretta dei paesaggi e di nuove contrade, le fugaci immagini della vita quotidiana dei paesi che punteggiano le grandi strade di comunicazione, le campagne coltivate, i cimiteri, le greggi al pascolo e la solitudine dei pastori. Non avrei avuto, insomma, la strana e impensabile possibilità di usare i finestrini del veicolo come un osservatorio mobile.
Questa esperienza, poco etnografica, mi ha fatto però venire la voglia di scrivere qualcosa, non un diario, ma una specie di reportage su questo viaggio, una cronaca non dettagliata, anzi molto generica, tale da consentirmi, tuttavia, di riportare le riflessioni che via via facevo, anche se basate su impressioni momentanee piuttosto che su dati di fatto.
Metto le mani avanti: so anch’io che pretendere di fare etnografia e antropologia e di descrivere e capire un paese, lontano dal proprio e culturalmente diverso, approfittando di un viaggio organizzato, è senza dubbio paradossale e forse anche ridicolo. Non è detto, tuttavia, che anche un approccio superficiale, veloce e parziale, non possa suscitare una qualche idea utile per la comprensione del paese visitato. D’altra parte, si parva licet componere magnis, l’antropologia è abituata a servirsi di cronache, di diari di viaggiatori, di relazioni di esponenti militari e religiosi, oppure di opere letterarie i cui autori non pensavano affatto di fare etnografia, disciplina non ancora nata o sconosciuta a chi scriveva.
Casablanca
L’arrivo a Casablanca è avvenuto al buio, verso le 21, per cui ho avuto il primo impatto col Marocco la mattina dopo, quando abbiamo attraversato, in pullman ovviamente, la città fondata dai Portoghesi, per recarci nella capitale Rabat. La città era tutta un cantiere: ovunque lavori pubblici in corso, con quartieri sventrati, scavi per realizzare tunnel, allargamenti di carreggiata; là uno stadio in costruzione, laggiù il nuovo teatro di Casablanca. Il traffico automobilistico era caotico e difficoltoso, esattamente come lo immaginiamo nei nostri luoghi comuni riguardanti una popolosa e tumultuosa città dell’Oriente o del profondo Sud del mondo: solo l’autista del pullman sembrava rispettoso delle norme.
Un forte contrasto al traffico stradale era rappresentato dalla cura meticolosa dedicata agli spazi lungo le strade, agli slarghi e alle piazzole di tutte le città visitate o semplicemente attraversate: aiole fiorite e variamente coltivate erano lì a dimostrare che molti sono gli sforzi per eliminare quel che rimane di selvaggio e di primitivo nei pregiudizi di chi fa turismo in Africa.
Nei giorni successivi mi sarei accorto che la stessa frenetica attività edilizia c’era nelle altre città e anche nei paesi lontani dalle metropoli. Il Marocco mi è apparso, dunque, come un Paese giovane che ha fretta di crescere e di porsi sullo stesso piano di quelli europei, a cominciare dalle infrastrutture. Per esempio, la strada n. 8 che conduce da Fez a Marrakech, in un tratto più interno e montagnoso, come quello del Medio Atlante, è percorribile, per almeno 40 km, solo a velocità molto moderata e con continue fermate causate dai lavori in corso, che riguardano l’ampliamento delle carreggiate, l’eliminazione di curve e tornanti, e, nei paesi attraversati, la costruzione di fognature e la messa a dimora di cavi elettrici e telefonici.
Insomma, tutte queste attività testimoniano che il governo ha voglia di far crescere il Paese e di ammodernarlo. Di questa volontà è segno anche la presenza del wi-fi usufruibile ovunque e del tutto gratuito. Sulle fiancate, poi, di tutti i pullman, turistici e di servizio urbano, una scritta informava che lo Stato si faceva sostenitore della richiesta che la federazione calcistica del Marocco aveva avanzato per l’organizzazione del campionato mondiale di calcio del 2026. Non è che il gioco del calcio e i suoi campionati siano elementi di crescita culturale, ma rendono visibili la volontà e lo sforzo di ammodernamento del Paese organizzatore. Sono venuto a sapere successivamente che al Marocco sono stati preferiti USA, Canada e Messico.
Moschea di Hassan II
La grande moschea di Casablanca, voluta da Hassan II ed inaugurata nel 1993, vuole essere il simbolo del Marocco e di tutto l’Islam del Nord Africa. Per erigerla sono stati necessari circa dieci anni, migliaia di operai e artigiani e cifre enormi di denaro (si dice: quasi ottocento milioni di dollari). Le nostre guide dicevano che i soldi per costruirla furono messi a disposizione dagli altri Stati arabi, specie quelli ricchi di petrolio; secondo altre informazioni, invece, pare che sia stata finanziata direttamente dai soldi del popolo marocchino, con contributi talora non volontari.
Quella di Casablanca è la summa di tutte le possibili moschee, di quelle già costruite nei secoli passati e probabilmente anche di quelle che saranno costruite negli anni a venire. In essa c’è tutto quello che un credente musulmano sa di potervi trovare. Mi sembra un modo ambiguo di voler affermare la propria grandezza, perché di solito chi ha paura di essere debole e minoritario strilla e urla per apparire più forte di quel che è. La stessa mentalità ho riscontrato presso la comunità cattolica di Baltimore (USA), la quale ha costruito una chiesa con tre enormi navate, con grande sciupìo di marmi e vetrate e con tutti i dettagli che un praticante sa di poter trovare nelle basiliche più importanti di Roma. Non mancava nulla, tutto era stato copiato e rifatto per dare l’impressione dell’onnipotenza e della gloria di Dio. La stessa cosa si avverte solo a guardare da lontano la moschea di Hassan II: l’immenso spazio antistante, che si apre verso Nord e si unisce alle onde lunghe dell’Atlantico, crea la sensazione di una potenza che si protende verso l’infinito.
Quella di Casablanca è l’unica moschea in tutto il Marocco aperta anche ai non musulmani. Il che fa supporre che essa abbia una funzione del tutto propagandistica piuttosto che religiosa. In qualche modo essa è come la basilica di san Pietro a Roma che, dal tempo della Controriforma ad oggi, è l’immagine della potenza di Dio ma anche della Chiesa.
Dove ti porta la guida
Abbiamo avuto numerose guide: oltre al responsabile del tour che dava indicazioni sommarie sui monumenti e i luoghi da visitare, in ogni città abbiamo trovato altre guide, con funzioni diverse, alcune con una preparazione culturale che oltrepassava di molto il catechistico elenco delle bellezze che avevamo davanti e dei personaggi storici locali; altri rinsaldavano con elementari spiegazioni i luoghi comuni già presenti nella testa dei visitatori.
La presenza di queste numerose guide amplificava uno dei difetti dei viaggi organizzati, quello per cui il turista non è libero di girare dove la curiosità lo porta, che anzi deve sottostare ad un itinerario programmato e stabilito in quella città lontana dove risiede l’agenzia organizzatrice, deve rispettare gli orari e seguire le guide che non tollerano deviazioni di sorta, né domande che esulino dagli argomenti previsti dal piano turistico.
La guida, poi, ti conduce a vedere solo quei monumenti di ogni città che ritiene degni di essere ammirati dai suoi clienti e che considera culturalmente importanti; in Marocco questi monumenti sono i palazzi cosiddetti reali (aggettivo non riferibile certo ad un’epoca anteriore al 1957, anno in cui, ottenuta l’indipendenza, il sultano Muhamad ibn Yussef assunse il nome di re Muhamad V), che si possono vedere solo dall’esterno, le moschee, le piazze principali, i suq; e poi i punti panoramici da dove poter guardare l’estensione bianca delle città su cui spiccano le torri dei minareti che in Marocco sono quadrate. Sulla vita della gente comune, sui rapporti sociali, sulla vita politica, economica e culturale del Paese nemmeno una sillaba.
Accanto a questi luoghi nobili, le guide ti conducono a visitare quelli tradizionali, là dove si svolge una vita abbastanza simile a quella di alcuni decenni fa: sono i quartieri delle medine e dei suq con le strade strettissime e sudice, con porticine piccole che danno adito spesso ad appartamenti microscopici e senza luce, e ogni tanto a case spaziose con verdeggianti giardini interni.
In un mondo come il nostro attuale, che la globalizzazione ha privato di ogni personalità ed identità, spesso riandiamo al passato, organizzando feste, in cui si illustrano le attività degli antichi mestieri, e mostre dell’artigianato tradizionale e così via. In Marocco la vita e i lavori tradizionali sono ancora presenti: le agenzie di viaggio hanno capito che questi aspetti potevano diventare oggetto di interesse turistico per la loro diversità o “alterità”; così, dopo la breve sosta presso i monumenti ufficiali, i luoghi dei mestieri e della vita tradizionale diventano le mete principali delle visite. Per gli Italiani è come tuffarsi nel passato delle città medievali, quando le corporazioni e le attività artigiane si raggruppavano negli stessi luoghi, dando vita alle vie e ai quartieri dei calzolai, dei tintori, dei lanaioli, ecc.; nei centri storici delle città marocchine, le cosiddette Medine, si trovano botteghe, piccole e grandi, di tessitori di stoffe e di tappeti, che fanno vedere come si usa il telaio; ci sono i laboratori di ceramica, ci sono i fabbricanti di babbucce, i falegnami e ci sono i ramai che operano all’aperto e riempiono di suoni metallici le piazzette e le strade.
Le guide preferiscono far visitare quei laboratori in cui il lavoro artigiano non solo ha una qualche spettacolarità, (per esempio, le concerie Chouwara di Fez), ma è anche testimonianza di un sapere tradizionale, come quelli della ceramica, della tessitura, dell’erboristeria. Sono anche i laboratori i cui proprietari hanno un qualche accordo con le guide e che danno la loro disponibilità ad accogliere i visitatori con la speranza che qualcuno compri un loro prodotto.
La moneta
Nel Marocco non è necessario arrivare con la moneta locale, perché tutti accettano qualsiasi moneta ed eventualmente i cambiavalute si trovano ovunque. Mi sembra un incentivo piuttosto importante per richiamare turisti dai Paesi europei, ma anche da quelli più lontani. La libera circolazione della moneta straniera, secondo me, potrebbe avere anche effetti non solo momentanei, perché gli scambi rendono la gente consapevole dell’esistenza di altri modi di vivere, stimolano la sua curiosità ad interessarsi di aspetti esistenziali che non sono i suoi, rimuovono qualche pregiudizio; insomma, nasce una circolazione culturale che potrebbe fare allentare i legami con la mentalità tradizionale.
Agricoltura
Da un punto di vista paesaggistico il Medio Atlante è tra le zone più belle del Paese: dove non c’è coltivazione di campi il terreno offre una grande varietà di colori, dal rosso delle pietraie al giallo, all’azzurro e al bianco delle erbe spontanee: macchie immense di vari colori che addolciscono l’aspro territorio montano. Dove invece i terreni sono coltivati, il paesaggio cambia con il cambiare delle colture. Da Casablanca a Rabat non è che una continua visione di oliveti, mentre estesi campi di grano e di foraggi si vedono lungo l’autostrada che da Marrakech porta a Casablanca.
Nelle zone di montagna frequenti sono le pietraie; i campi coltivati sono ben ordinati. Frequentissime le greggi di pecore e di capre; qualche allevamento brado di bovini. Poche macchine agricole in vista; per qualche piccolo campo di erba si fa uso ancora della falce fienaia, ma le vaste distese di prati per il fieno e di campi di grano presuppongono l’uso di trattori e di trebbiatrici; e difatti nei paesi e nelle cittadine attraversati c’è sempre qualche officina meccanica per la riparazione delle macchine agricole.
Identità
A prima vista, pare che l’ibridazione e il multiculturalismo caratterizzino l’identità del Marocco; forse, però si tratta di un’identità superficiale, del tutto cittadina. Più consistenti mi sembrano le due identità che sono messe in mostra: quella per i turisti “colti” che sono indirizzati verso i monumenti storici e religiosi, e quella per il turismo di massa al quale si offrono i manufatti più appariscenti e le scene delle medine e dei suq (ma le due identità in genere convivono e si intrecciano fra di loro). Se si bada agli aspetti esterni, ciò che si nota immediatamente è che le dominazioni straniere e l’attuale voglia di imitare gli Europei contrassegnino in maniera vistosa la vita quotidiana delle città, perché le insegne dei bar, degli alberghi, dei negozi, sono dedicate spesso a città o personaggi della cultura francese, spagnola ed italiana. Segno europeo per eccellenza mi sono sembrate le carrozze, bianche e nere, (che chiamano calèsch) tirate da cavalli, adibite nelle città più importanti per il trasporto dei turisti. Il culmine di questa moda europeizzante si ha a Ifrane, città di montagna (più di 1600 m. di altitudine), dove gli edifici hanno i tetti spioventi come le case svizzere (in effetti nevica molto) e dove uno dei più importanti alberghi porta il titolo di Chamonix.
Questo tipo di identità è evidente e palese ai turisti; l’altra, quella più popolare, quella “incolta” si intravvede per le strade, nei suq, nell’abbigliamento tradizionale, nell’uso quasi generale di sandali e babbucce al posto delle scarpe, ecc.; ma al turista, nei fatti, è impedito che vi si possa accostare per approfondirla.
Nel Marocco convivono due etnie, quella Araba, diffusa nei territori del Nord, e quella Berbera che vive nelle regioni dell’Atlante. Esse, tuttavia, sembrano ormai così fuse tra di loro che, limitandosi alla sola vista, è difficile identificarle. C’è chi dice che nelle regioni dell’Atlante più profondo i Berberi abbiano conservata una parte della loro antica identità. Ma il turista organizzato non ha tempo né modo di verificare e di notare, quindi, differenze tra la popolazione araba e quella berbera.
Qualcosa di vero, tuttavia, ci deve essere se la riforma della Costituzione di qualche anno fa ha sancito il diritto ai Berberi di usare la loro lingua e la loro scrittura; cosa di cui il visitatore si accorge perché ogni tanto vede un cartellone pubblicitario, un’insegna di negozio o di ufficio pubblico scritti con un alfabeto elegante ma diverso e molto meno lezioso di quello arabo. Un altro aspetto che pare distinguere un arabo da un berbero è che il piacere di una lunga contrattazione in un negozio di qualsiasi genere appartenga proprio ai berberi, ma non ne sono affatto sicuro.
Suq
Nel visitare i suq di Casablanca, Rabat, Fez, Marrakech mi sono chiesto quanto la loro funzionalità sia ancora attuale e quanto invece non sia una tradizione tenuta in vita proprio per i turisti che si aspettano di trovarli ancora lì. Qua e là, infatti, nelle città visitate, ma anche in quelle attraversate con il pullman, ho visto la presenza di grandi supermercati intitolati a colossi multinazionali che si apprestano ad invadere con i loro discount i mercati locali e che faranno sparire i suq così come hanno fatto con il piccolo commercio quotidiano e le botteghe dei nostri paesi.
Certo i suq, con la loro sporcizia, la loro confusione, le loro merci accatastate alla rinfusa, con asini e muli stracarichi ai quali in quei vicoli occorre lasciare lo spazio (balak, balak – “fate largo, lasciate passare”, era il grido che ricorreva nel suq di Fez), costituiscono ancora un’attrazione turistica notevole. Tuttavia i trenta o quaranta minuti impiegati ad attraversarli non permettono di capire i loro meccanismi economici, le loro funzioni sociali, i legami che collegano la loro storia di ieri a quella di oggi. Dei suq, insomma, vediamo solo gli aspetti pittoreschi.
Cani e gatti
Nelle medine di Rabat, Meknes e Fez, i cui abitanti sono a larga maggioranza arabi, c’erano tanti gatti in circolazione; affollavano soprattutto le viuzze dei suq, specie in prossimità di macellerie e di pescherie. Nemmeno l’ombra di un cane, contrariamente a quanto si può osservare nelle nostre città in cui si vedono pochi gatti e molti cani e nei nostri paesi in cui la fauna felina e quella canina si contendono il primato. Alla guida che ci accompagnava nei quartieri popolari di Meknes chiesi del perché non ci fossero cani. Non mi dette una risposta, ma il suo viso alla parola “cane” si trasformò in una smorfia di schifo e di disprezzo. Preferii non insistere.
Quando, però, si attraversò il Medio Atlante, regione dei Berberi, i cani ricomparvero nelle strade delle cittadine attraversate e nelle campagne, molto spesso liberi di circolare dovunque. Ho avuto anche l’impressione che il numero dei gatti fosse diminuito notevolmente fino ad azzerarsi. Chissà se le categorie di “gatto” e “cane” possano funzionare per comprendere il Marocco, quello arabo e quello berbero, come il “caldo” e il “freddo”, o il “crudo” e il “cotto” di Levi-Strauss? Purtroppo, le bizzarre e paradossali questioni, che nascono da impressioni momentanee, se non ci sono possibilità di verifiche, rimangono bizzarre ed irrisolte.
Suretè nationale
Negli ultimi anni ci siamo abituati a vedere per le strade delle nostre città europee militari di ogni sorta, richiamati da preoccupazioni securitarie o per far credere alla gente che lo Stato è vigile; sono provvedimenti che mi convincono poco, perché da una parte, infatti, rischiano di impedire un pieno esercizio della democrazia e, dall’altra, riducono la tanto conclamata privacy. In Marocco la presenza dei militari in strada è ancora più avvertibile, specie vicino alle sedi del sovrano, anche quando questi è assente. Sono gruppi di militari, dalle divise diverse, che stazionano davanti agli ingressi dei palazzi reali e vigilano perché i turisti non si avvicinino troppo all’edificio (era tollerata una distanza di circa duecento metri); addirittura a Meknes era chiuso anche al traffico pedonale l’intero quartiere dove ha sede il palazzo del Re.
Spesso, in città e nelle strade di grande comunicazione, s’incontrano blocchi stradali: la polizia si installa in appositi gabbiotti, ferma le auto, controlla i documenti, mentre un addetto prepara le strisce chiodate per eventuali facinorosi che volessero sfuggire al controllo.
Negli aeroporti, poi, i controlli diventano asfissianti: all’ingresso dell’aeroporto di Casablanca occorre presentarsi, ovviamente, con tutti i documenti, e poi è necessario spogliarsi e far passare sotto i detector i bagagli, le borse, le cinture, il portamonete ed anche le scarpe. Avendo fatto sapere al controllore che ho una protesi all’anca, un poliziotto mi ha palpeggiato dalle caviglie alla nuca. Passati indenni questo primo controllo, si entra nello spazio del check-in: anche qui controllo dei documenti e dei bagagli. Poi si entra nella sala in cui controllano il biglietto e di nuovo il passaporto e dove si deve riempire un modulo rispondendo a domande più o meno insulse (se sono un turista, perché vogliono sapere solo il nome dell’ultimo albergo in cui ho dormito?). Avuto il via libera dall’agente, si pensa che sia tutto finito; invece, fatti sì e no venti metri, un altro poliziotto arcigno, che ci ha visti pochi minuti prima fermi allo sportello precedente, controlla di nuovo il passaporto. Forse non si fidano nemmeno fra di loro.
Opere d’arte
La guida principale, durante una sua spiegazione, sottolineava la differenza tra l’arte e il concetto di arte nel mondo islamico e l’arte che si è originata in Europa. «Quando noi entriamo in un vostro museo, restiamo affascinati e stupiti dall’arte figurativa: le statue, i dipinti appartengono alla vostra cultura; noi ci limitiamo a decorare pareti e pavimenti, forse perché la nostra religione ci vieta la rappresentazione della figura umana». In effetti, la grande varietà di marmi, la vividezza dei colori, l’eccezionale tecnica musiva, l’utilizzo della scrittura araba come elemento decorativo sono tutti elementi che colpiscono gli occhi, forse anche la mente nel seguire i ghirigori delle linee e l’accostamento magistrale di colori, di tessere e di piastrelle; ma dopo l’iniziale stupore la ripetitività dei preziosi manufatti alla lunga diventa stucchevole e smette di provocare emozioni. Così l’arte finisce per essere solo ostentazione di ricchezza, di lusso, di spreco infine.
Volubilis
Gli antichi Romani sono arrivati sulle montagne del Medio Atlante e qui si sono arrestati: hic sunt leones. Ma hanno fatto in modo di ripulire quelle contrade di tutti gli animali selvaggi, che sono stati trasportati a Roma per gli spettacoli degli anfiteatri. A Ifrane, all’ingresso della città, uno scultore ha trasformato un enorme macigno in un leone morente: la scultura pare sia stata realizzata in tempi abbastanza recenti, quando la scomparsa dell’ultimo animale selvaggio è diventata ufficiale.
Volubilis, città dell’antica Mauritania, si trova nei pressi di Meknes ed è tornata alla luce circa cinquanta anni fa, dopo il terremoto che la distrusse intorno alla metà del diciottesimo secolo. Nonostante le erbacce, il sito archeologico si conserva abbastanza bene: notevoli i mosaici che impreziosiscono alcuni pavimenti di ricche dimore e alcuni frantoi restaurati che testimoniano la presenza di un’importante industria olearia.
I Romani, in circa due secoli di permanenza in quei luoghi, riuscirono a fare di Volubilis una città moderna. Non ho avuto modo di capire se gli abitanti odierni ne siano consapevoli; la guida, una persona anziana del luogo, nell’esporre le vicende della città antica, non sembrava molto entusiasta; stancamente biascicava la storia e la configurazione del sito: per lui Volubilis è solo un mezzo per guadagnare qualche spicciolo.
Il re
Le monarchie arabe non hanno mai dimostrato di essere esempi di democrazia; non lo è stata neanche quella marocchina, da Mohammed V ad Hassan II; quest’ultimo, negli anni ‘50/60 del secolo scorso si segnalò, oltre che per la gestione di un potere autoritario e dispotico, per aver fatto eliminare, con la connivenza dei servizi francesi, il deputato Ben Barka reo di aver creato un partito politico che lottava per ottenere un sistema democratico e contemporaneamente per tirar fuori il Marocco da una situazione politica e sociale molto arretrata.
L’attuale monarca, che al suo insediamento si guadagnò il favore del popolo svuotando quasi le carceri che suo padre aveva riempito di avversari politici, sembra godere fra le guide turistiche di un buon gradimento; nei locali pubblici la foto del re sorridente ti segue in ogni movimento. Altre informazioni non mi è stato possibile raccogliere; ma anche lui ha dovuto vedersela con il Parlamento che in qualche modo lo ha costretto a promulgare una nuova Costituzione più liberale, che dà maggiori poteri all’Assemblea parlamentare, assegna eguali diritti alle donne e agli uomini. Forse è autoritario come il padre, ma i tempi diversi e i rapporti internazionali lo convincono ad essere più tollerante e a concedere qualche riforma, specie se costretto dalle vivaci proteste popolari, come quelle del 2011.
Così, il giornale di Casablanca, Le Matin, filogovernativo, il giorno 13 giugno 2018 poteva avere in prima pagina la foto della regina intervenuta ad un forum durante il quale ha parlato dell’importanza e del ruolo che la donna ha per la crescita economica e culturale della Nazione marocchina.
Piazza Jemaa el Fna
Forse erano sbagliati il giorno e l’ora (ma erano quelli già stabiliti prima ancora di comprare il biglietto del viaggio) quando ho visitato quella che passa come la piazza più importante di Marrakech o per lo meno la piazza che nella mitologia turistica è diventata l’icona del Marocco stesso e della sua vita ancora “primitiva” e caotica, non ancora europeizzata o americanizzata. Purtroppo, la sera prima, gli astronomi islamici, osservando la fase della luna, avevano appurato che quello in cui era prevista la visita alla piazza sarebbe stato il primo giorno del Ramadan, il mese del digiuno. Così in quel pomeriggio afoso poca era la gente che si aggirava nella piazza, per lo più turisti in cerca di sorprese, mentre la gente locale era in attesa che arrivasse l’ora in cui è possibile rifocillarsi dopo una giornata priva di cibo e soprattutto di acqua.
La mia delusione però aveva forse un’altra causa: trent’anni fa avevo letto un paio di libri di Tahar Ben Jelloun, originario di Fez; nel romanzo Creatura di sabbia la vicenda della protagonista era raccontata proprio da un cantastorie della piazza. Forse a causa dell’arte di Ben Jelloun, così coinvolgente per la sua atmosfera spirituale e visionaria, così avvincente per lo stile di grande lirismo impresso al racconto, della piazza marocchina mi ero fatto un’idea che non combaciava affatto con quella reale che mi sono trovato davanti: la piazza era quasi vuota, rattristata da due scimmiette ridotte al lumicino e da un paio di crotali che a malapena sollevavano la testa, resi innocui e insonnoliti da chissà quali interventi operati nei loro organi vitali.
Se avessi potuto aspettare almeno fino alle 21, può darsi che avrei potuto immergermi anch’io nella caleidoscopica confusione della piazza descritta da tutte le guide, ma alle 18.30 il responsabile del viaggio ci ordinò di salire sul pullman che ci avrebbe portato al ristorante per la cena “berbera” prevista dal programma. A rivederci alla prossima volta (se ci sarà), piazza El Fna.
Le pietanze della cucina locale
Inutile anche pensare che durante un viaggio organizzato sia possibile assaggiare i cibi della cucina locale. Si dorme e si mangia in alberghi gestiti da compagnie internazionali, la colazione è la stessa che si può consumare negli alberghi a quattro/cinque stelle di qualsiasi parte del mondo. Poi ti servono la tadjine, il couscous, il montone cotto in forni scavati a terra, ma tutto è ridotto ai gusti del palato “occidentale”, al massimo si avverte il sapore piccante di qualche spezia particolare come il cumino. Forse l’unica cosa genuina è il tè alla menta o la tisana di menta, versata bollente nelle tazze tenendo la teiera molto in alto e il bicchiere in basso, in modo da produrre molta schiuma.
Sempre dal pullman in corsa, avevo visto decine e decine di greggi; così una sera, stanco delle cucina “internazionale” (cioè, di piatti del tutto privi di sapori particolari), chiesi al cameriere se potevo avere del formaggio. Sembrava non rendersi conto di quello che chiedevo, malgrado i miei sforzi di esprimermi in francese e in inglese. Alla fine, con un sorriso di scherno sulle labbra, mi consegnò un piattino in cui c’erano due cucchiaiate di formaggio grattugiato.
Il velo delle donne
Nella piazza Jemaa El Fna di Marrakech ho incrociato una giovane coppia molto elegante: lei aveva un abito nero che culminava con una specie di burqa, anch’esso nero, dal quale fuoriusciva appena un paio di occhiali dalla montatura troppo grande. La qualità dell’abito, l’eleganza del portamento della signora ed anche l’abito del suo accompagnatore segnalavano la loro appartenenza ad una classe sociale abbastanza alta. Secondo un pregiudizio nostro, chi appartiene ad una classe borghese spesso fa a meno di indicatori sociali tradizionali, come in questo caso il colore nero dei vestiti e il velo che nascondeva totalmente il viso della signora. Appunto, pregiudizi, stereotipi. Chiesi alla guida se avesse una spiegazione. Si tratta, mi rispose, di persone che esibiscono la loro ortodossia religiosa. In fondo, degli snob, degli anticonformisti che invece di dimostrare sprezzo nei confronti della tradizione, usano proprio i simboli del più accentuato tradizionalismo per farsi notare e pour épater les etrangéres.
Negli anni ‘90 del secolo scorso in tutta l’Europa si è discusso, forse si è chiacchierato a lungo, se le donne islamiche devono togliersi il velo quando si trovano a lavorare e dimorare nei Paesi europei. La Francia, contraddicendo i principi su cui si basa la sua cultura filosofica e politica, ne ha vietato l’uso nei locali pubblici. In Italia il dibattito si è svolto e si svolge a livelli molto bassi, al limite del becerume, così che non si viene a capo di nulla. Eppure è così semplice! Basta applicare la Costituzione italiana che prevede libertà di manifestazione della propria religione.
La Costituzione marocchina, voluta dall’attuale re, prevede una legislazione in cui le donne hanno diritti e doveri come gli uomini, rende molto difficile all’uomo di poter sposare, come previsto dal Corano, fino a quattro donne, cerca di far sparire lentamente tutte quelle tradizioni che appartengono a società basate su principi di patriarcato e sull’autorità maschile. Le leggi però non bastano: occorre che la donna prenda coscienza della propria dignità e dei propri diritti. Nelle nazioni europee l’emancipazione di uomini e donne è avvenuta grazie alle profonde trasformazioni della società: quando quella patriarcale e contadina è scomparsa, allora è emersa una nuova società in cui ogni individuo è padrone della propria vita. Noi abbiamo avuto bisogno di una rivoluzione politico-filosofica e di una rivoluzione industriale per raggiungere tale traguardo; forse ai Marocchini e agli altri popoli, che vivono nelle stesse condizioni, saranno sufficienti la libera circolazione a livello mondiale della cultura e della scienza e le nuove tecnologie informatiche.
Intanto la maggioranza delle donne marocchine continua ad indossare vestiti che coprono l’intero corpo e foulard che nascondono il viso e il collo. Osservandole, tuttavia, ho avuto l’impressione che, nonostante i loro scafandri di lana, le donne esercitino un potere profondo nella società: in nessun altro Paese da me visitato ho visto materializzarsi, come nelle donne marocchine, l’idea insieme della mater matuta e del matriarcato. Qualcosa di simile ho visto, molti anni fa, in certe località della profonda Sicilia e della profonda Sardegna.
In attesa dei pullman e sotto i portici
Nelle periferie delle città, ai margini delle piazze, nei luoghi di mercati all’aperto, lungo le vie di comunicazione, spesso si vedono piccoli raggruppamenti di persone che attendono di prendere la corriera. La gente sta in piedi, pochi sono coloro che conversano, ognuno sembra assorto nei propri pensieri; qualcuno se ne sta accovacciato, a volte appoggiando la schiena ad un muro o ad un palo.
Di gente seduta a terra o su sedili improvvisati o accovacciata in qualche modo, che passa il tempo in una specie di dormiveglia o dormendo addirittura, se ne vede spesso nelle città marocchine: nelle strade, nelle piazze ma anche in mezzo al caos dei suq. Sotto i portici che circondano l’immensa piazza antistante la moschea di Casablanca sono molti che se ne stanno seduti a terra e appoggiati alle colonne: ho visto non solo persone anziane che stanno lì per riposarsi o perché sono senza casa, ma anche studenti universitari (maschi e femmine) che leggevano e scrivevano, famiglie che consumavano il pranzo a sacco, mamme che controllavano i bambini che correvano sui pattini o giocavano al pallone.
Il Ramadan
A sentire la nostra guida, il Ramadan è un esercizio spirituale piuttosto faticoso, tanto che i ragazzi al di sotto dei quindici anni ne sono esentati. Anche i cattolici, fino ad alcuni decenni fa, dovevano osservare i precetti della Quaresima: quaranta giorni di cibi di magro e qualche digiuno. Poi, venendosi ad allentare la mentalità bigotta, a poco a poco i rigori della quaresima si sono attenuati, così come è successo per la Comunione che, quando ero ragazzo, bisognava “prenderla” solo di mattina e a digiuno, mentre adesso ci si può comunicare a qualsiasi ora del giorno, a prescindere se si è digiuni o meno, così come l’interdizione della carne nel mercoledì non esiste più e si è allentata o addirittura è scomparsa anche quella del venerdì.
La stessa cosa sta avvenendo per il Ramadan islamico: la nostra guida ci spiegava come si osserva il mese di digiuno, che comincia alle quattro del mattino e finisce verso le 19.30 di ogni giorno. Molti si alzano alle tre del mattino e consumano un pasto abbondante che permetta loro di passare indenni tutta la mattinata; chi non vuole fare la levataccia, dopo la rottura del digiuno alle ore 19.30 con un pasto sostanzioso, ne consumano un altro tra le 23 e l’una di notte. In sostanza, per evitare di soffrire la fame e la sete durante la giornata lavorativa, i musulmani marocchini (non conosco la situazione di altri Paesi), rovesciano gli usi del giorno e della notte: digiunano con il sole e mangiano di notte; che è, in fondo, l’unica penitenza cui sono costretti.
Un imprenditore italiano, incontrato all’aeroporto mentre ci accingevamo a tornare in Italia, mi diceva che i suoi operai devono presentarsi puntuali al lavoro a prescindere dai loro impegni religiosi. Anche da noi, le prescrizioni religiose furono osservate strettamente fino a quando è esistita la società contadina che in qualche modo poteva fare a meno degli orologi e degli orari tassativi delle aziende moderne. Quando, però, la società industrializzata ha trasformato i modi di vita ed ha modificato la cultura e la maniera di pensare, non solo molti precetti sono osservati con superficialità e senza continuità, ma molte pratiche religiose sono, addirittura, scomparse.
Avverrà la stessa cosa in Marocco?
Chez Ali
Con una “cena berbera” si è concluso il mio tour in Marocco. L’evento si è svolto presso il ristorante “Chez Ali”, pubblicizzato da tutte le agenzie di viaggio e che si trova nel palmeto di Marrakech. Nel piazzale antistante l’ingresso, i turisti sono accolti da una schiera di guerrieri berberi a cavallo; poi si varca un ponte e si entra nel castello: la prima cosa che si vede è una grotta artificiale con l’insegna “grotta di Alì”, quello dei quaranta ladroni delle Mille e una notte, opera probabilmente di origine persiana ma collocata nell’Africa nordoccidentale, in un generico contesto arabo orientaleggiante.
Non mi sono stupito di trovare queste cose, perché ormai da qualche decennio in Italia siamo abituati alle feste che riguardano le rievocazioni cosiddette storiche, con cortei in costumi medievali o rinascimentali, con varie gare e palii di somari e di botti, e giostre di saracini e così via. Mi sono invece meravigliato nel vedere come la proposta e la rappresentazione di alcune tradizioni berbere, mescolate con altre di origine panaraba, fossero così puntuali ed esaustive. Non mancava nulla (c’era perfino un tappeto volante), così come nulla manca alla moschea di Hassan II. In un mondo in rapida trasformazione che in poco tempo annulla buona parte del passato, il desiderio di difendere una qualche identità perduta e la nostalgia hanno innescato una serie di meccanismi per mezzo dei quali si vuole riacquistare ciò che si è perso, a costo di creare falsi storici e culturali.
Così anche nel Marocco: nel momento in cui si sente che la cultura del Paese e i suoi comportamenti stanno per cambiare, ecco che ai turisti si offrono scene di vita del passato o del presunto passato. Questo avviene a Marrakech, città forse più abituata storicamente a trasformazioni socioculturali e quindi più pronta a fiutare il vento delle novità che vengono dall’Europa. Non solo la piazza Jemaa El Fna presenta già molti fenomeni di ibridazione e di coesistenza di elementi di varia provenienza storica e geografica, ma anche a qualche km dalla città c’è chi si è preoccupato di sfruttare turisticamente, con un gusto piuttosto banale, che spesso cade nel Kitsch, le tradizioni storiche, vere o reinventate, del popolo Berbero. Così gli ospiti (il locale ha una capienza di circa seimila posti) sono accolti in tende collocate ai lati di una vasta spianata in cui, dopo la cena avviene lo spettacolo vario di cavallerizzi, di ballerini e di gruppi musicali, che si concludono con i fuochi d’artificio e una scritta luminosa, in lingua berbera (Maa Salama) con cui si salutano gli spettatori.
Il commiato, dunque, è stato coerente con tutti i dettami della cultura di massa: l’importante non è aver capito ma aver visto le città imperiali, piazza Jemaa El Fna, Volubilis, i suq e il palmeto di Marrakech. Quello che conta è l’esserci stati e il poterlo raccontare a chi è rimasto a casa. Anche per questo i viaggi organizzati mi sono estremamente antipatici.
Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
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Mariano Fresta, già docente presso il Liceo classico di Montepulciano, ha collaborato con Pietro Clemente, nella Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare (canti e proverbi), di alimentazione, di allestimenti museali (Tepotratos-Monticchiello), di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è interessato ai temi della identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Più recentemente si è occupato dei paesi e dei borghi abbandonati. Tutti i suoi lavori si possono leggere in http//marianofresta.altervista.org.
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