di Giuseppe Giacobello [*]
Tra le etnografie regionali dedicate al mondo preindustriale europeo, qualora ci si soffermi sulla marcata religiosità degli orizzonti sociali di riferimento, la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane di Giuseppe Pitrè presenta una circostanza sorprendente: nei venticinque volumi pubblicati dal 1870 al 1913, su temi canonici dell’enciclopedia demologica ottocentesca e primo-novecentesca (canti, fiabe, leggende, proverbi, feste, spettacoli ecc.), non ve n’è uno espressamente rivolto alle preghiere, malgrado un esame accurato possa individuare diverse centinaia di riferimenti su molte orazioni celebrative, propiziatorie e apotropaiche. Senza una sede editoriale autonoma, in Pitrè come nei suoi contemporanei, è mancato così un riconoscimento in quanto repertorio eucologico ed esplicito campo d’indagine. Deve averne avuto consapevolezza, il demopsicologo, se nel 1910 ha ammesso un intento parzialmente compensativo nell’Avvertenza a Proverbi, motti e scongiuri del popolo siciliano (ora in edizione nazionale a c. di L. Bellantonio, Cosimo-Palermo, 2006, dopo altre precedenti, tra cui quella inclusa nella «Biblioteca delle tradizioni popolari italiane», diretta da A. Rigoli, prefaz. di M. Provvidenza La Valva, Palermo, 1982):
«Qua e là, in alcuni volumi della Biblioteca, e particolarmente nel II dei Canti [1871], nei quattro degli Usi e Costumi [1889], nell’unico della Medicina [1896], sono preghiere e scongiuri, creduti mirabili a certi bisogni ed occasioni del momento; ma una speciale raccolta non c’è. Quella onde si chiude il volume soccorre a questa mancanza nel campo del pregiudizio e della poesia con un contributo alla tradizione etnografica e alla letteratura orale. Si compone di sessantotto invocazioni, distribuite in quattro gruppi, quanti ne ha consigliati il loro carattere ed il loro uso. [I] Malattie, [II] malocchio, jettatura, lontananza e silenzio di persone care, incertezza della loro sorte, amori leciti ed illeciti contrastati o compromessi, [III] fenomeni meteorologici, vicissitudini atmosferiche nocive alla sanità, alla sicurezza ed ai prodotti dei campi, [IV] morsi di animali velenosi o supposti tali, pericoli d’ogni sorta presenti ed avvenire, tutti hanno rimedî di parole e di operazioni bastevoli a tranquillizzare gli spiriti agitati di chi soffre, crede, teme e spera» [Pitrè 1910: 8-9].
Con una problematica oscillazione lessicale tra preghiere, scongiuri e invocazioni, da ricollegare a quella tra cosi di Diu e orazioni presentata quarant’anni prima nello Studio critico sui canti popolari siciliani (1870-71), erano richiamati i due principali ambiti, il filologico-letterario e l’etnografico, che si volgevano all’indagine dei «rimedî di parole e di operazioni», «reliquie ingloriose – si riteneva – di religioni tramontate da secoli»; così com’era dispiegata, in quell’Avvertenza e in altri passi, la visione scientifica allora prevalente: un precipitato di critica antisuperstiziosa, svalutazione estetica e dipendenza ermeneutica da categorie teologiche.
Nei decenni seguenti l’orientamento non è cambiato e quindi nemmeno la resa documentaria. Quando Maria Tedeschi ha proposto una prima tipologia generale dei Canti sacri popolari della Sicilia (1928-39, sulla rivista «Folklore Italiano», poi «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari»), il quadro interpretativo è rimasto inalterato, con l’insistenza di stereotipi riduttivi cui non corrispondevano, neanche lontanamente, la mole di riscontri e il respiro di conoscenze del grande antesignano.
Da un diverso punto di vista, pensando al limite “essenzialistico” attribuito a quella stagione demologica, la distribuzione frammentaria di Pitrè può comunque risultare un pregio: anche se sparpagliate in molteplici luoghi, ma proprio perché inserite a proposito di svariati contesti e funzioni cerimoniali e dunque proprio perché collegate a storie e comportamenti sociali diversi tra loro, le orazioni popolari mostrano implicitamente uno spessore fenomenico che le tante riserve di principio non lasciavano sospettare.
La sintesi degli studi conduce all’opera pubblicata da Giuseppe Bonomo nel 1953, Scongiuri del popolo siciliano: sei anni prima della demartiniana Sud e magia, altra pionieristica ricerca italiana sulle stesse pratiche cerimoniali, ma di area lucana. Anche solo per alcuni tipi di orazione propiziatoria e apotropaica, in quel momento entriamo davvero nella logica di un repertorio, con oltre 400 documenti, comprendenti pure quelli ereditati da Pitrè e da suoi colleghi regionali (Tommaso Cannizzaro, Raffaele Castelli, Serafino Amabile Guastella, Mattia Di Martino, Corrado Melfi, Salvatore Raccuglia, Girolamo Ragusa Moleti, Salvatore Salomone Marino), ma sottoposti a un esame comparativo esteso anche ad altri territori italiani. Una specifica attività di ricerca può così essere meglio circoscritta, riconoscendo non pochi antecedenti nella filologia, nell’etnografia e nella storia delle religioni di riferimento non solo regionale (Giuseppe Cocchiara, Gerardus van der Leeuw, Carmelina Naselli, Francesco Novati, Adalberto Pazzini, Raffaele Pettazzoni, Fritz Pradel, Pio Rajna, Paolo Toschi). Comincia pure a rendersi evidente una maggiore profondità temporale, oltrepassando all’indietro la fase classica degli studi avviata dai Canti popolari siciliani di Lionardo Vigo (1857, diventati Raccolta amplissima nel 1870-74):
Convinti come siamo che uno scongiuro siciliano non possa essere spiegato alla luce degli scongiuri che si trovano nella stessa Sicilia — si potrebbe giustamente dire, del resto, che chi conosce uno scongiuro non ne conosce nessuno —, abbiamo allargato il nostro campo di indagine, ove e quando lo abbiamo creduto utile, agli scongiuri delle altre regioni d’Italia. E i nostri raffronti, tuttavia, non sono intesi soltanto a interpretare i componimenti, bensì a segnalare le loro concordanze e divergenze. Né questi raffronti sono stati contenuti entro i limiti del folklore attuale, tanto è vero che ci siamo anche avvalsi di scongiuri provenienti da antichi codici, i quali risalgono ai secoli XIII, XIV, XV e XVI. Essi sono di grande importanza per riscontrare la conservazione di “motivi” magico-scongiuratori e di tipiche formule di incantesimo, ovvero la loro rielaborazione e il loro adattamento. Soprattutto ci sono state veramente preziose le antiche opere mediche e specialmente quelle sulla medicina empirica. In esse si trovano notevoli testimonianze su quella che è in genere la materia degli scongiuri attuali. Nel medesimo tempo abbiamo avuto sott’occhio le testimonianze, non meno importanti, rintracciabili nella letteratura dell’antichità classica, nonché in quella di popoli anteriori alle civiltà della Grecia e di Roma [Bonomo 1953: 15-16].
È poi ribadita l’implicazione tra testi, co-testi e contesti cerimoniali; anche se, è giusto ricordarlo, Bonomo non è stato assiduo ricercatore “sul terreno”, ma soprattutto esploratore d’archivio (tra fondi tardo-medievali e moderni, come nel caso dei manoscritti messinesi di Tommaso Cannizzaro) e partecipe di un programma di ricerche universitarie sulle orazioni popolari innestato nei percorsi di laurea degli studenti seguiti con Giuseppe Cocchiara. L’insieme di questi aspetti è peraltro ripreso in alcuni suoi saggi brevi: Il paternostro di San Giuliano nella letteratura e nel folklore, 1962, ried. 1970; Introduzione a M. Adriani, Italia magica. La magia nella tradizione italica, Roma, 1970); Forme magiche e formule medico-magiche (relaz. al convegno «Aspetti e prospettive della ricerca demologica in Italia», 1970), 1973; Introduzione agli atti del conv. «La magia come segno e come conflitto» (1975), 1979; Il magismo in Sicilia, relaz. al conv. «La ricerca etno-antropologica in Sicilia: 1950-1980» (1982) 1986.
Con privilegiata attenzione alle figure dei guaritori popolari e in un quadro interpretativo che ha nell’antropologia medica, nella ricerca sul campo e nell’incontro etnografico le sue principali caratteristiche, arriva invece il prolungato e sistematico contributo di Elsa Guggino: La magia in Sicilia, 1978; Un pezzo di terra di cielo. L’esperienza magica della malattia in Sicilia, 1986; Storie di maghi, 1991; Il corpo è fatto di sillabe. Figure di maghi in Sicilia, 1993; I canti e la magia. Percorsi di una ricerca, 2004; Fate, sibille e altre strane donne, 2006.
Nel medesimo campo d’indagine regionale, al quale andrebbero correlati altri autori (da Danilo Dolci a Giuseppe Cavarra, da Marinella Fiume a Macrina Marilena Maffei) e altre prospettive storico-sociali (non ultime le ricerche sulle fonti inquisitoriali dei secc. XVI-XVIII, da Gaetano Millunzi e Salvatore Salomone Marino a Francesco Renda, Maria Sofia Messana e Melita Leonardi), viene a situarsi Pier Luigi Josè Mannella con Il Sussurro magico. Scongiuri, malesseri e orizzonti cerimoniali in Sicilia (2015). Il debito con gli studiosi precedenti è riconosciuto con la prosecuzione del percorso di Bonomo e il ritorno al Museo Etnografico Siciliano “Giuseppe Pitrè”, a Palermo, dov’è oggi la più parte delle tesi universitarie accudite a suo tempo da Cocchiara e dal suo allievo. Riducendo la portata tipologica soprattutto ai gruppi I e II della quadripartizione del 1910, è intensificata la retrospettiva verso testimonianze dell’antichità mediterranea. Gli sviluppi delle ricerche etnografiche, linguistiche e archeologiche nell’Isola, uniti a frequentazioni “sul terreno”, gli permettono di elaborare la strumentazione euristica della “sua” raccolta di orazioni terapeutiche (propiziatorie e apotropaiche), dette anche ‘scongiuri’.
Il piano dell’opera comprende un’Introduzione suddivisa in quattro paragrafi, dove sono presentate le principali coordinate storico-etnografiche (Un antico sottofondo religioso – Archeologia e medicina cerimoniale in Sicilia – Demoni patogeni) e filologico-etnolinguistiche (Incantare e disincantare nella lingua siciliana), da cui ricavano sfondo le analisi di specifici repertori. Questi ultimi sono dapprima affrontati nel loro complesso, secondo caratteri formali più estensivi, nel vero e proprio capitolo di orientamento (Orazioni terapeutiche siciliane); seguono cinque trattazioni settoriali (Vermi – Malocchio – Mal di Stomaco e delle Donne – Occhi Pelle Gola – Sole Luna Erbe), esito di una selezione operata su possibilità ben più vaste, che lascia supporre altri territori esplorati, altre pagine al momento accantonate (come conferma anche il breve intervento Acqua e Sale. Rituali catartici siciliani, nel n. 28 dei «Dialoghi Mediterranei»).
Il maggiore contributo del Sussurro magico consiste nella ricostruzione paradigmatica di molte forme recitative, compiuta con il confronto tra centinaia di lezioni individuate sul campo e in archivio e altre censite da diversi studiosi, al fine di individuare caratteri ricorrenti. Il risultato di una simile esegesi è immediatamente leggibile in una scheda sinottica conclusiva (Classificazione delle tipologie) in cui ciascuna preghiera è collezionata attraverso riferimenti a pratiche rituali, strutture testuali, diffusioni geografiche, fonti documentarie e, innanzitutto, ai correlati malesseri; in quest’ultimo caso, senza entrare qui nel merito delle tassonomie nosologiche e dialettologiche o delle ancor più discusse distinzioni tra prospettive mediche ufficiali e saperi territoriali, ci si limita a riportare alcuni dei richiami più ricorrenti nel libro: malocchio, singhiozzo, vermi, scantu, dispepsia, rachitismo, emicrania, capogiri, matrone, mal di pancia, isteria, gastropatie, oftalmie, sciatica, stomatite, erisipela, impetigine, fuoco di sant’Antonio, herpes zoster, mughetto, focu aresti, geloni, porri, malattie della milza, insolazione, malaria, bronchite, ingorgo scrofoloso, foruncoli, itterizia, slogature, galottoforite, ingolfo mammario, mali a tartuga, adenite inguinale, torcicollo, tonsillite, carbonchio, mal di gola, ranula, mal di denti, intorpidimento degli arti, formicolii, parotiti, dolori generici.
L’impostazione comparativa è stata impiegata in recenti studi internazionali sulle formule incantatorie o verbal charms, spesso per determinarne i topoi e riprodurne i paradigmi (cfr. Charms, Charmers and Charming. International Research on Verbal Magic, a cura di J. Roper, 2009 o le annate di «Incantatio», International Journal on Charms, Charmers and Charming, 2011-2017, www.folklore.ee/incantatio/). In alcuni tratti, essa riconduce all’approccio di Vladimir Ja. Propp e della sua Morfologia della fiaba (1928), cosicché lo scongiuro è anche configurato quale “mezzo magico” risolutivo di un “dramma” corporale e sociale vissuto dal malato. Gli stessi nuclei narrativi (historiolae) presenti in molte orazioni sono letti come distillati di vicende mitiche nelle quali i protagonisti entrano spesso in stato di crisi a causa di un danno provocato da antagonisti (malattie), poi risolto (guarigione) con l’intervento di aiutanti di derivazione sacra (taumaturghi). Le titolazioni dei paragrafi delle cinque sezioni monografiche seguono proprio quest’orientamento: Madre taumaturga e figlia malata, Santone nascosto, Viandante benedicente, Ninfa affascinata, Nove fratelli, Visita di Santa Elisabetta alla Madonna, Nanetto peloso e tartaruga immolata, ecc. I testi delle singole preghiere, sparsi per l’intera opera e intessuti nella trama argomentativa, sono riportati con la sequenza in varianti del siciliano, la traduzione italiana e le stesse informazioni di corredo poi riprese nella tavola sinottica finale. Intorno, ben ricostruito, c’è l’universo immaginifico di non poche figure preternaturali: folletti pelosi che lanciano maledizioni o approntano cure, spiriti aerei aggressivi o salvifici, figure sciamaniche soteriche e taumaturgiche, demoni patogeni che appaiono anche in forma di “belle signore” (Donni di fora). Sul complesso mondo simbolico rappresentato da queste ultime entità, Mannella discute largamente in un’ekphrasis interna alla sezione sul malocchio; qui le Donni sono ricondotte ad antiche entità “selvatiche” (Nymphai, Paides, Meteres ecc.), il culto siciliano delle quali è attestato archeologicamente o letterariamente.
Chiudono il volume una bibliografia comprensiva delle diverse discipline coinvolte e un apparato fotografico, completo di schedature, con testimonianze storiche di lunghissima durata (in prevalenza oggetti, strumenti e manufatti amuletici). L’opera traccia così un percorso riepilogativo su settori importanti dell’eucologia terapeutica e le loro modalità trasmissive, espressive, enunciative e rituali. Ciascuna esposizione è corposamente annotata, perché Mannella è ostinato inseguitore di un’utopia interpretativa suscitata dall’ascolto temerario del sussurro cerimoniale. Sa bene che la filologia dei testi orali non può essere concepita sul modello di quelli scritti; che differenti sono le dinamiche di elaborazione e trasmissione; che in ambito sacro si affermano specifici condizionamenti delle norme esecutive, non ultime quelle imposte da secoli di acculturazione liturgica latina e greca; è consapevole del peso assunto dalle competenze mnemoniche dei testimoni e da quelle metodologiche dei ricercatori, così come dei possibili errori di ricezione e restituzione nell’uno e nell’altro versante. Comprende senza problemi, insomma, come l’unica recensione possibile di una preghiera di tradizione orale coincida con l’insieme delle sue lezioni. Malgrado ciò, imperterrito, persegue la cernita di etimologie, probabili tessere combacianti e ipotetici anelli di congiunzione intermedia; come da sempre hanno spinto le utopie di ogni studioso capitato non per caso davanti al suo lavoro.
Per illustrare meglio la portata di questa scelta, e l’impegnativo trattamento dei “materiali” che determina, bisogna richiamare un altro dei tragitti sperimentati in passato da quanti si sono occupati di preghiere popolari o di generi convergenti (scongiuri, incantesimi, formule medico-magiche ecc.); tragitti non di rado affinati per aree diverse da quella siciliana o in ambiti di ricerca contigui a quello folklorico.
Anche se il centro dell’interesse era diverso, già Bonomo, sulla scia di Toschi (Rapporti fra gli scongiuri e la poesia popolare narrativa religiosa, 1931, riediz. ampl. del 1943 e 1946; Fenomenologia del canto popolare, 1947-49) e di Cocchiara (Il linguaggio della poesia popolare, 1939 e 1951; success. Le origini della poesia popolare italiana, 1966), aveva segnalato come le sequenze verbali degli scongiuri, in ragione della loro fisionomia poetico-rituale, attivino una duplice dimensione significante: una proposizionale, o lineare, e l’altra più propriamente formulare (Bonomo adoperava i termini ‘motivo’ o ‘formula’) che chiama in causa raggruppamenti di più versi in ordine alla posizione e alla scansione recitativa. Ma l’approfondimento di tale prospettiva è stato avviato soprattutto con studi di antropologia linguistica (sulla scia di Bronislaw Malinowski, Coral Gardens and Their Magic, 1935, o in seguito di Stanley J. Tambiah, The Magical Power of Words, 1966, e Form and Meaning of Magical Acts, 1973) e di filologia morfologico-semiotica applicata all’oralistica; in questo secondo caso, tra gli anni Cinquanta e Settanta del XX secolo, una certa influenza va attribuita a contributi come quelli di Thomas A. Sebeok (The Structure and Content of Cheremis Charms, 1953, ried. ampl. 1964), Tzvetan Todorov (Le discours de la magie, 1973, solo in minima parte ripreso nell’intervento La magie et son discours, presentato nel 1975 al citato convegno «La magia come segno e come conflitto», poi pubbl. nel 1979), Paolo Ramat (Per una tipologia degli incantesimi germanici, 1974, già Les structures des incantations germaniques “zauberspruche”, presentato nel 1970 a un altro raduno scientifico palermitano su «Strutture e generi delle letterature etniche», pubbl. nel 1978) e Winfried Nöth (Semiotics of the Old English Charm, 1977).
Il comune punto di partenza ha riguardato le difformità e le incongruenze presenti nelle versioni di una stessa orazione. Abituati come siamo alla stabile individuazione dei testi scritti, sempre controllabili e verificabili, cosa può essere considerato variabile, incidentale – ci si chiedeva – e cosa strutturale, identificante, in una tradizione orale documentata in modi sempre diversi e solo parzialmente convergenti? E ciò che è strutturale lo è per lo più nella dimensione performativa del rituale o influisce anche nella fisionomia testuale delle parole recitate (quelle unicamente documentate dalle fonti storiche o unicamente trascritte dall’etnografia tradizionale)? Nel corso di un’esecuzione cerimoniale vincolata, prescritta, quali componenti verbali risultano perspicue agli officianti e quali invece – per rimodulare un ragionamento di Patrice Coirault – sono solo “fedelmente” riprodotte, con relativa indifferenza semantica, fino all’incomprensione o alla distorsione? Se esaminiamo ad esempio i testi confluiti nei libri di Pitrè, Bonomo e Mannella, in alcuni casi costatiamo che sono linearmente comprensibili; in altri casi le parole sono come fraintese: ce ne aspetteremmo alcune, disposte in un certo modo, e invece ne compaiono differenti; in altri casi ancora quelle parole mancano del tutto o s’interrompono, sospendono il flusso precedente e passano oltre, oppure cedono il posto a interi segmenti insoliti; e così via. Eppure ogni preghiera, salvo eccezioni o incidenti di trascrizione, è stata riferita “in buona fede” dai testimoni, come se fosse ritenuta conforme a una convenzionale compiutezza e come tale considerata integralmente, e a tutti gli effetti, funzionale.
Spiegazioni di queste anomalie sono state avanzate in varie direzioni e molte sono richiamate nelle pagine di Mannella; ma due, tranciando le sfumature, hanno prevalso sul resto. 1) Gli scongiuri popolari di questi ultimi secoli sono relitti linguistici ormai senza significato uniforme: registrano il disfacimento e la confusione di testi antecedenti, con graduale sparizione dell’intento originario; degradazione che coinvolge le attività cerimoniali ancora operative e dunque, per proprietà transitiva, la dimensione esistenziale di chi le pratica (soprattutto donne). Da qui una nutrita collezione di giudizi liquidatori, spesso di sapore misogino, espressi da studiosi del recente passato. 2) Gli scongiuri popolari, malgrado sensibili trasformazioni connaturate all’oralità religiosa, mantengono significati coerenti con il senso delle pratiche rituali: il riflesso testuale di quest’ultimo si deve cercare non solo o non tanto nelle singole proposizioni versificate, ma anche e soprattutto nei raggruppamenti formulari con cui quelle proposizioni si dispongono nella concreta scansione recitativa. L’esecuzione di queste preghiere avviene attraverso sequenze di brani o nuclei (nucleo invocativo, nucleo narrativo o historìola, nucleo istitutivo… per richiamarne alcuni definiti da Mannella) che svolgono diverse funzioni comunicative e corrispondono a un distinto flusso fonico-recitativo, un distinto sussurro. Anche quando qualche frammento si perde, o è frainteso, il brano complessivo (la porzione ritmico-prosodica cui appartiene, il relativo nucleo formulare) conserva una sua tenuta enunciativa e la persona che recita mantiene la convinzione, tutta devozionale, di eseguire sempre la stessa orazione. Può anche succedere che un intero nucleo sia rimosso o che se ne inserisca al suo posto qualcuno che svolge analoga funzione enunciativa in un’altra orazione, a volte persino in un altro genere espressivo, come ninna nanne, filastrocche, canti di lavoro, ecc.; ebbene, anche in tali casi la recitazione può conservare coerenza rituale e l’officiante può mantenere il convincimento di replicare un testo compatibile con la tassonomia comunitariamente riconosciuta: a priera î sant’Anna, a raziuni pu pilu î minna, u patrinostru î san Giulianu, ecc. (la preghiera di sant’Anna, l’orazione per contrastare l’ingolfo mammario, il paternoster di san Giuliano, ecc.).
Alla ricerca del significato delle preghiere sussurrate, dopo averle opportunamente riconfigurate nel peculiare contesto d’enunciazione – quando mai, con i linguaggi, non è così? – occorre dunque misurarsi con l’altrettanto particolare “concordanza a senso” tra le loro parti funzionali. Funzionali alla recita, funzionali al rito, al senso pratico del rito e della sua appropriatezza devozionale. Non sempre, o non necessariamente, al significato delle parole tramandate.
Nel solco di queste riflessioni verranno altre ricerche qui neanche sunteggiabili. In ambito italiano si può comunque ripartire dai lavori di Marina Buzzoni (Il “genere” incantesimo nella tradizione anglosassone. Aspetti semantico-pragmatici, Firenze, 1996), Alessandro Lupo (La oración: estructura, forma y uso. Entre tradición escrita y oral, in C. Lisón Tolosana, comp., Antropologia y literatura, Zaragoza, 1995) o dalle ineguagliabili ispirazioni di Giovanni Pozzi (Come pregava la gente, 1982; versione ampliata in Id., Grammatica e retorica dei Santi, Milano, 1997).
Quanto a Mannella e alla sua tenacia da filologo di frontiera, tra linguistica storica ed etnografia, la meticolosa lettura morfologico-formulare è impegnata allo stesso tempo sulla migrazione, talvolta la deriva, di singoli termini o motivi mitico-cerimoniali. Ricostruire frammenti, colmare lacune, riposizionare prestiti e scambi, pur sapendo che il risultato, di qualche utilità per lo studioso, potrebbe incidere poco rispetto alla coerenza testuale o alla compatibilità di chi ha attivato il rito, che quei frammenti ha considerato comunque adeguati, che quelle lacune ha tranquillamente ignorato, che prestiti e scambi ha generato o riportato con disinvolta e rinnovata armonia. Con tutto questo, molte sono le ipotesi illuminanti e non poche sorprendenti, anche se più d’una, per momentanea penuria di supporti, andrà ancora collaudata. Sul terreno della riconversione storica e funzionale delle forme, nel passaggio generazionale tra studiosi.
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Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
[*] Con diverse variazioni e con licenza dell’editore (che ringraziamo), è qui rielaborato il testo Il senso pratico delle formule rituali, scritto come Premessa a P. L. J. Mannella, Il sussurro magico. Scongiuri, malesseri e orizzonti cerimoniali in Sicilia, Palermo, Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari, 2015, pagg. 412 (vol. 27 di «Studi e materiali per la storia della cultura popolare», a c. del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino).
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Giuseppe Giacobello, ha conseguito il dottorato di ricerca in Etnoantropologia all’Università di Palermo e oggi insegna discipline letterarie al Liceo Artistico “F. Arcangeli” di Bologna. Tra le pubblicazioni: Il paternoster di san Giuliano. Recitazioni ritmiche e simbolismo divinatorio in Sicilia, Palermo, 1999; Preghiere popolari e ricerca etnografica in Sicilia (1857-1953), in AA.VV., La forza dei simboli (…), Palermo, 2000; Orazioni apotropaiche della raccolta Pitrè, in AA.VV., Il potere delle cose (…), Palermo, 2006; Ritualità e preghiere agiografiche nel Corpus di Alberto Favara, «Dialoghi Mediterranei» 28, 2017; Le preghiere, in AA.VV., La cultura tradizionale in Sicilia, Palermo, in corso di stampa
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