Dal rapporto fra noi e gli altri hanno preso le mosse, come sappiamo, i processi culturali e interculturali, ma anche, in buona sostanza, tutto il percorso etnografico dell’antropologo, le sue modalità di approccio con popoli diversi in terre inesplorate e la possibilità di restituirne la conoscenza attraverso la scrittura.
A partire dal 1871, quando Edward Burnett Tylor elaborava quella celebre definizione del concetto di cultura, l’attenzione verso i popoli cosiddetti primitivi segnava l’ingresso ufficiale dell’antropologia fra le scienze ritenute oggettive. Tuttavia in pieno clima positivista e colonialista studiosi e missionari trascurarono di fatto il lavoro sul campo a contatto con gli indigeni, nella convinzione che i loro modi di vita altro non fossero che una tappa di una scala evolutiva che avrebbe raggiunto il suo traguardo nel modello occidentale. Antropologi da tavolino furono definiti pertanto dalle generazioni successive, in quanto la loro preoccupazione principale era quella di isolare gli elementi di una data cultura e classificarli secondo tassonomie che andavano dal semplice al complesso.
Bisognerà aspettare qualche decennio perché gli antropologi del Novecento, provenienti dalla scuola angloamericana, guarderanno alla ricerca sul campo come allo strumento principale dell’indagine. Per Malinowski il contatto prolungato in una comunità di indigeni attraverso la cosiddetta “osservazione partecipante” diveniva così una condizione inderogabile per la conoscenza delle diversità culturali. L’etnografo doveva costituire nel gruppo una presenza silenziosa senza interferire con i suoi giudizi, annullando progressivamente la “sua visione del suo mondo” per diventare uno di loro, facendo propria la loro visione.
Si passa così – è Silvana Miceli (1983) a ricordarlo – da un concetto di cultura inteso al singolare nei suoi processi evolutivi, al riconoscimento delle culture in senso pluralistico, nella loro piena e irriducibile diversità, in quanto maturate all’interno di un determinato contesto sociale. La visione di Malinowski implicava pertanto il superamento radicale dell’etnocentrismo occidentale in nome di un relativismo assoluto.
Questo punto di vista non sfuggì tuttavia alle critiche dello strutturalismo e in particolare di Lèvi-Strauss che definì il metodo funzionalista un cattivo esempio di “dogmatismo empirico” in quanto si limitava solo alla manifestazione superficiale dei fenomeni. L’osservazione diretta dei popoli indigeni avrebbe dovuto, al contrario, costituire solo il primo momento del lavoro sul campo alla ricerca di quelle regole universali e spesso inconsapevoli che regolano nell’uomo il funzionamento della cultura. Negli anni Settanta dello scorso secolo questa posizione veniva ancora una volta rivisitata dall’antropologia interpretativa di Clifford Geertz che guardava al momento etnografico in senso dialogico, come uno scambio discorsivo fra il ricercatore e i nativi, partecipi con il loro interprete del lavoro di costruzione di un testo. Gli indigeni diventavano attori sociali, consapevoli di una missione che avrebbe visto il suo esito finale nella scrittura autoriale dello studioso. La responsabilità finale della ricerca restava sempre dell’antropologo, un’operazione mai del tutto neutra ma una delle tante possibili, né in alcun caso la rappresentazione fedele di quanto avveniva nella realtà del contesto osservato.
Tutto questo ha messo in luce la complessità del lavoro sul campo e le problematiche sottese al concetto di osservazione partecipante di Malinowski, che oggi, alla luce delle nuove dinamiche sociali ma anche dell’evoluzione degli studi, potrebbe richiedere un ulteriore approfondimento.
A trarre un bilancio di questi vari aspetti metodologici dell’antropologia contemporanea è stata Cecilia Pennaccini che ha curato una raccolta di saggi rieditata recentemente da Carocci nella collana Aulamagna. Il titolo del volume e il suo sottotitolo – La ricerca sul campo in antropologia. Oggetti e metodi – avverte già delle intenzioni degli autori, che da diversi punti di vista affrontano in queste pagine tutte le difficoltà insite in quella rivoluzione malinowskiana.
Pur riconoscendo nell’osservazione diretta un punto di partenza necessario alla ricerca, si tratta ora di fare luce su mondi sempre più complessi e sfaccettati che necessitano a volte di scelte metodologiche precise e ottiche specialistiche, senza mai perdere di vista tuttavia quella rete di connessioni che caratterizza in ogni dove la vita sociale degli individui.
Così Alessandro Gusman nel primo capitolo del libro confida in una nuova antropologia sensoriale che ponga al centro dei propri interessi scientifici lo studio delle sensazioni viste non più come naturali e universali, ma socialmente determinate e plasmate dalla cultura: l’etnografo deve saperle cogliere riuscendo gradualmente ad assorbirle, in un lavoro che non è soltanto di osservazione quanto di immersione totalizzante nel campo, o perduzione secondo Piasere (2002: 56). Un lento processo di acquisizione inconscia di schemi cognitivi altrui.
Anche le azioni individuali e collettive, ciò che gli uomini realmente fanno e producono, costituiscono secondo Antonino Colajanni (cap.2), un ambito privilegiato della ricerca. Purché venga superata quella dicotomia insanabile fra una condizione empirica e oggettivante dell’azione, ritenuta inconfutabile (e qui torna Malinowski), da quella che considera l’agire come risultato di una serie di predisposizioni, tendenze e inclinazioni che si proiettano nei corpi e nelle cose plasmandole a loro insaputa. Un habitus per dirla con Bordieu (1998). Le azioni secondo Colajanni restano sempre impregnate di idee e scelte in vista del raggiungimento di determinati scopi, ma proprio per questo è possibile documentarle perché sono direttamente osservabili.
All’universo delle pratiche umane restano inevitabilmente legati gli oggetti della cultura materiale, su cui per tanto tempo ha pesato una certa ottica positivista che tendeva a decontestualizzarli e isolarli come atomi nel lavoro di descrizione, classificazione e comparazione. Nella sua acuta riflessione Silvia Forni (cap.3) guarda al mondo delle cose così come si declina nelle diverse culture ma anche nei musei che sempre più si stanno trasformando in “zone di contatto” (Clifford 1997) fra culture diverse, luoghi di incontro fra il ricercatore e gli indigeni, direttamente coinvolti nel lavoro di raccolta dei propri oggetti e nelle fasi successive dell’allestimento. Lungi allora dal ricadere nelle operazioni di esportazione tipiche del passato coloniale, è necessario considerare l’oggetto non in sé e per sé, ma nell’insieme delle pratiche simboliche, economiche, sociali e patrimoniali che ruotano attorno ad esso. Atteso che dietro a ogni oggetto vi è la storia dei rapporti di produzione e di classe (Miceli, 1980: 11-16), bisogna considerarli come parti di un sistema di segni anche quando hanno perduto la loro funzione d’uso e assumono nei musei una nuova valenza simbolica. E questo vale sia per gli oggetti artistici dove è già impresso l’intento estetico e creativo, sia per quelli comuni di uso domestico e quotidiano come la pentola per cucinare. Entrambi sono espressione di una prassi umana che imprime una forma culturale su una materia grezza (Miceli: ibidem)
Alla stessa stregua degli oggetti, anche le parole costituiscono per l’antropologo un deposito inesauribile di informazioni, in cui si stratificano significati culturali su vari aspetti della vita associata (Cuturi, cap.4). Le parole dei nativi costituiscono inoltre l’elemento di mediazione e di contatto per l’etnografo già dal suo arrivo sul campo e giocano un ruolo imprescindibile nella ricerca, garantendo così la comunicazione e le relazioni sociali con gli interlocutori. Tralasciando le tecniche obsolete di estrapolazione, classificazione e comparazione degli sterili dizionari di stampo positivista, bisognerebbe cogliere piuttosto i processi comunicativi di ciò che si dice ma anche di quello che non si dice, includendo la natura non verbale del linguaggio, come la gestualità ad esempio, ma le modalità con cui si marcano le differenze di status, di età e di genere dei parlanti.
Ma il linguaggio non è, come sappiamo, l’unico tratto distintivo della comunicazione in quanto le culture, ogni cultura sviluppa altre forme espressive che coinvolgono diverse percezioni sensoriali come l’udito per i suoni e le musiche (Facci, cap.6) e la vista per le immagini (Pennaccini, cap.5). Questi due aspetti basilari della vita sociale sono stati storicamente considerati come fasi secondarie del lavoro sul campo. Se non che, complice lo sviluppo delle nuove tecnologie digitali di rilevamento, sono state negli ultimi decenni rivalutate, guadagnandosi così uno spazio autonomo fino al punto da divenire discipline a sé stanti come l’etnomusicologia e l’antropologia visuale.
Resta ancora da esaminare quel vasto universo delle emozioni che gradualmente sta entrando a pieno titolo nel campo di interesse dello studioso. Considerato il peso dell’eredità positivista che ancora traspare sotto mentite spoglie nell’interpretazione antropologica dei processi culturali, l’ambito emozionale è stato per lungo tempo rimosso, ritenuto fuorviante in quanto refrattario ad un’osservazione oggettiva. Le emozioni rientravano così nell’aspetto più intimo e privato dell’individuo, sfuggevole allo sguardo dello studioso.
Nella seconda metà del Novecento si fa strada un nuovo orientamento costruttivista dell’esperienza emozionale come componente sociale e culturale (Pussetti cap.7). La nuova antropologia delle emozioni ha messo a punto due tecniche di rilevamento per accedere a questo universo sconosciuto: la prima consiste nella raccolta diretta dei discorsi che i nativi fanno riguardo le proprie emozioni, consentendo allo studioso di partecipare ai modelli locali e tradurli nella propria lingua; la seconda si fonda sull’empatia, vale a dire sulla capacità di immergersi in quel particolare “paesaggio sensuale dei nativi”, in una sorta di nuovo habitus con cui l’etnografo non si limita a raccogliere dati, ma assorbe anche gli elementi più impliciti e reconditi di una cultura (Piasere).
Al contrario delle emozioni, le idee sono prodotti mentali per eccellenza (Remotti, cap.8) ma anche i più immateriali, pur depositandosi in una molteplicità eterogenea di espressioni culturali. Richiamando l’origine greca del termine, Remotti definisce l’idea come una forma in grado di articolare e unificare il molteplice. L’esempio classico è quello dei sistemi di parentela, ma anche quello delle credenze religiose o degli universi etno-botanici, medici e farmacologici. In questo processo di identificazione delle idee dei nativi, l’etnografo rimane spesso condizionato dai suoi punti di vista che non collimano con quelli studiati. In ogni caso nessun sistema di idee, anche quello ritenuto più valido e scientifico, può rappresentare “oggettivamente” il fertile disordine presente nel mondo (Pennaccini, introduzione).
Per mezzo della scrittura le idee si depositano su supporti durevoli dando luogo ai documenti d’archivio che, in quanto fonti, restituiscono il senso della storia (Songoni e Viazzo cap.9). Per lungo tempo la carenza di una documentazione scritta ha comportato una visione unicamente sincronica dell’etnografo sui popoli in esame, considerati senza storia e imbrigliati in un presente etnografico. L’etnostoria ha restituito la prospettiva diacronica e la ricerca d’archivio risulta oggi uno strumento indispensabile per ricomporre il passato dei popoli senza scrittura. Ad esempio gli archivi coloniali costituiscono una preziosa risorsa per colmare le lacune storiografiche di queste comunità. Per non parlare degli archivi ecclesiastici o di quelli privati a carattere familiare. Fermo restando che anche la raccolta dei documenti d’archivio non è mai un’operazione neutrale né tanto meno oggettiva, ma implica una selezione e dunque una scelta che spesso sottende implicitamente ad una manipolazione della storia.
In definitiva, fra i tanti meriti di questa raccolta di saggi curata da Cecilia Pennaccini, vi è soprattutto quello di aver stimolato e avviato, da diversi punti di vista, un processo definitivo di “decolonizzazione”, ponendo fine alla supremazia dello sguardo occidentale. Oggi la gran parte degli antropologi si muove all’interno di un dialogo serrato e paritario con i propri interlocutori, nel riconoscimento delle rispettive differenze. Gli autori presenti nel volume invitano pertanto a riconoscere l’agency degli informatori, cioè la loro capacità di operare deliberatamente in funzione di determinati scopi. Il che – in altre parole – significa lasciarsi definitivamente alle spalle il paradigma oggettivante del positivismo, di cui ancora purtroppo piangiamo le conseguenze.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Riferimenti bibliografici
Bordieu P.
1998 Meditazioni pascaliane, Milano, Feltrinelli
Clifford J.
1999 Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri
Geertz C.
1987 Interpretazioni di culture, Bologna, il Mulino
Miceli S.
1980 Cultura materiale, segni, informazione, in «La cultura materiale in Sicilia», Quaderni del Circolo Semiologico 12-13, Palermo, Flaccovio
1983 In nome del segno, Palermo, Sellerio
Piasere L.
2002 L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Roma-Bari, Laterza.
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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