Etologia e antropologia
«L’etologia umana può essere definita come la biologia del comportamento umano» [1] dove comportamento è ogni azione che abbia uno scopo e sia consapevole, pianificata e intenzionale. Studiare la biologia del comportamento vuol dire analizzarne le componenti innate, quelle insite nell’organismo, sapendo comunque che nei mammiferi gli elementi innati e quelli acquisiti cooperano sempre nel produrre l’una o l’altra azione.
Dal punto di vista etologico, innatismo non vuol quindi significare che la natura umana sia immutabile, proprio perché la capacità di apprendere e quindi adattarsi all’ambiente è appunto costitutiva della nostra specie. D’accordo con l’antropologia di Arnold Gehlen, Konrad Lorenz sostiene che la natura dell’animale umano è essenzialmente culturale, essendo Homo sapiens un ente per il quale istinti e apprendimento contribuiscono a formare un unico sistema vitale.
È questa inscindibilità di natura e cultura a essere dimenticata dal behaviorismo:
«L’eliminazione del senso naturale della giustizia attraverso l’attuale tendenza alla tolleranza assoluta viene resa ancora più pericolosa dalla dottrina pseudo-democratica che considera ogni comportamento umano come frutto dell’apprendimento. [...]. È un principio etico indiscutibile che tutti gli uomini abbiano diritto ad avere eguali possibilità di affermazione. Ma questa verità si presta troppo facilmente a essere falsata e a far ritenere che tutti gli uomini siano ugualmente dotati» [2].
Se Giordano Bruno vide la terra come un granello di polvere nel cosmo infinito, se Darwin scoprì la dipendenza della specie umana dagli altri primati e dall’intero mondo biologico del quale è parte, Konrad Lorenz da parte sua permette di comprendere meglio la struttura culturale dell’animale-uomo confrontandola con il comportamento e le organizzazioni degli altri animali.
Lorenz cerca prima di tutto di spiegare i nessi causali che hanno condotto la naturale aggressività della nostra specie in un vicolo cieco non-funzionale e dunque potenzialmente autodistruttivo. Tutti i grandi predatori hanno dovuto sviluppare, nel corso della filogenesi, una radicale inibizione a usare le loro potenti armi naturali contro membri della stessa specie, pena l’estinzione. Qui l’inibizione è molto forte e spesso efficace, anche se si danno guerre e massacri anche tra gli altri animali, in particolare tra gli scimpanzé:
«In alcuni mammiferi, come i leoni, gli orsi e anche alcuni scoiattoli, a volte compare un nuovo maschio estraneo che uccide i piccoli dei residenti (nei lupi, invece, i nuovi maschi adottano i giovani già nati). A rendere diversi gli scimpanzé è il fatto che un maschio potrebbe uccidere il piccolo di una femmina che frequenta da vent’anni. Violenza che viene dall’interno della comunità: ecco che cosa distingue gli scimpanzé – e gli esseri umani: noi siamo infatti gli altri grandi primati capaci di omicidio, infanticidio e violenza all’interno di una comunità», [tanto che] «circa un decimo degli scimpanzé maschi adulti muore in guerra» [3].
Nell’essere umano tale inibizione è assente giacché egli è privo di armi naturali con le quali possa, in un sol colpo, uccidere una grossa preda: «nessuna pressione selettiva si formò nella preistoria dell’umanità per generare meccanismi inibitori che evitassero l’uccisione di conspecifici finché, tutto d’un tratto, l’invenzione di armi artificiali portò lo squilibrio fra la capacità omicidiale e le inibizioni sociali» [4].
Da qui il proliferare patologico di una violenza senza freni, esercitata mediante armi che colpiscono da lontano e in modo anonimo, rafforzata dall’evidente contrasto fra la ‘nobiltà’ dei valori etici proclamati e il permanere di impulsi atavici e fondanti come la difesa del proprio gruppo e del territorio contro qualunque invasore e ogni possibile minaccia. I rischi di fronte ai quali l’umanità oggi si trova sono pertanto secondo Lorenz numerosi e gravi: la sovrappopolazione che scatena aggressività, la devastazione dello spazio vitale, la competizione esasperata fra gli umani, il venir meno dei sentimenti, il deterioramento dello stesso patrimonio genetico, il rifiuto violento della tradizione, l’indottrinamento esasperato, le armi nucleari [5].
Antropologia e pedagogia
Anche le ricerche di Iräneus Eibl-Eibesfeldt hanno importanti e numerose implicazioni filosofiche. L’etologia umana tenta di risolvere il problema del dualismo fra corpo e anima, res extensa e res cogitans, empirismo e razionalismo, esperienza e coscienza. Il concetto antropologico di «superorganico» [6] chiarisce infatti la differenza fra il piano della biologia e quello della cultura, fra ereditarietà e civiltà, non per separarle bensì per comprendere la radice somatica dell’intelligenza e quella mentale della corporeità. A questo proposito Eibl-Eibesfeldt così si esprime:
«La vecchia contrapposizione tra empirismo e innatismo è oggi senz’altro superata. I tentativi del behaviorismo di ricondurre ogni comportamento a semplici collegamenti stimolo-reazione che si formano attraverso l’esperienza, possono considerarsi falliti. Il nostro sistema nervoso centrale non viene riempito di contenuti solo attraverso le percezioni sensoriali. Esso, al contrario, è predisposto a percepire, e dunque non è una tabula rasa. Il behaviorismo sopravvive tuttavia nelle idee di molti profani e le sue tesi semplicistiche sono accolte da una certa parte della pedagogia, psicologia e sociologia» [7].
Per Eibl-Eibesfeldt, come per Lorenz e per Gehlen, l’intelletto e il sentimento – il superorganico, appunto – permettono agli umani di addomesticare la propria natura in quanto «le basi biologiche che ci rendono capaci di ciò le abbiamo dentro di noi» e «biologia non significa destino», anzi «ogni comportamento istintivo è passibile di modificazione da parte dell’educazione» (Eibl-Eibesfeldt 1993: 191 e 262).
La pratica sperimentale quotidiana e il razionalismo critico di fondo consentono a Lorenz e a Eibl-Eibesfeldt di tenersi liberi da posizioni pregiudiziali. Quasi tutti i problemi antropologici appaiono meglio definibili se si affrontano con il necessario rigore e pragmatismo. Le impostazioni estreme presentano sempre più rischi che vantaggi. È, ad esempio, assai pericoloso l’eccesso di umanitarismo dell’etica contemporanea. Esso è stato anche una reazione alla disumanizzazione dell’etica eroica nazionalsocialista e un antidoto contro quella barbarie: «l’amore per il prossimo e la generosità sono virtù» ma è bene sapere che «se essi superano l’optimum si trasformano in vizi, anche se le intenzioni del donatore erano sostanzialmente buone» (ivi: 470).
È anche da questo equivoco che si generano i paradossi pedagogici e i veri e propri controsensi che caratterizzano gran parte delle pratiche educative contemporanee. Troppi educatori ritengono che ogni divieto provochi frustrazione e risentimento; sottovalutano la portata dell’aggressività esplorativa che induce il bambino e il giovane a imporsi con la violenza sui concorrenti e sul mondo circostante; si estenuano in una mediazione continua e sterile con l’educato che invece ha bisogno anche di durezza. Così facendo non producono certo individui liberi e pacifici ma soggetti sfrenati e incapaci di autocontrollo nella loro aggressività, talmente insicuri da essere poi disponibili a ogni dominazione ideologica, pronti a seguire qualunque capo supremo, omologati e cancellati dentro i social network.
A smentire il mito roussoviano Lorenz e Eibl-Eibesfeldt adducono centinaia di esempi e pure Jared Diamond parla in modo critico di «fantasia rousseauiana» [8]. Secondo Diamond le società tradizionali. non sarebbero né egualitarie né pacifiche e le società umane – che siano ristrette o estesissime – «al contrario di quel che diceva Rousseau […] non si sono unite per aumentare il benessere dei cittadini, ma [si è sempre trattato] di un’unione sotto la minaccia di forze esterne, o addirittura per conquista. Lo dimostrano innumerevoli esempi» [9].
Anche uno dei più importanti antropologi libertari, Pierre Clastres, conferma la presenza e la pervasività della guerra in tutte le società conosciute. Contro Lévi-Strauss, che fu suo maestro, Clastres sostiene che la guerra non sarebbe il risultato di uno scambio fallito; non l’esito dunque di una pratica commerciale che nel mondo primitivo non esiste, ma sarebbe la struttura e la condizione di base di quelle società.
La guerra ha lo scopo fondamentale di mantenere ciascuna di quelle società autonome rispetto alle altre e indivise al proprio interno. Si tratta di società-per-la-guerra poiché «finché c’è guerra, c’è autonomia: per questo la guerra non deve, non può finire, per questo è permanente» [10]. La guerra svolge la funzione costitutiva di forza centrifuga e di tutela del molteplice. La società primitiva è egualitaria al proprio interno, dove domina il principio di identità, ma è separata rispetto all’esterno, dove domina il principio di differenza. Sono società indivise, dato che ciascuna di esse rappresenta una totalità. Sono società senza classi, poiché non vi sono ricchi che sfruttano il lavoro degli altri. Sono società senza organi separati del potere, che invece rimane per intero all’interno della comunità, non si proietta e incarna in istituzioni e figure separate dal corpo sociale.
In queste società l’iniziazione maschile è condotta anche tramite isolamento, maltrattamenti, forzata dipendenza dall’adulto; tutti strumenti per rendere i giovani disponibili agli insegnamenti, per legarli alla società in cui entrano ma anche per farli capaci di assumersi i loro compiti e comprendere e accettare i propri limiti. Nelle nostre società permissive si inverte il processo: si evita qualunque ‘trauma’ educativo ma con ciò si rende l’individuo irresponsabile e insicuro, preparato a seguire personalità forti allo scopo di superare la paura e pronto ad addossare sempre la colpa a soggetti esterni: «il mondo, gli altri uomini con le loro manchevolezze, la loro scarsa intelligenza oppure addirittura la volontà di Dio» (ivi: 470). L’etica dei sentimenti prevale sull’etica della responsabilità, per dirla con Max Weber. Non a caso Eibl-Eibesfeldt cita spesso le utopie negative di Orwell e Huxley per indicare il pericolo al quale una società di massa e permissiva è sottoposta.
Al facile spirito dell’utopia, la ricerca scientifica oppone la pazienza dell’indagine e la difesa di un pensare quanto più rigoroso possibile e soprattutto un pensiero libero dai dogmi, che siano religiosi, politici, etici. Mantenere la varietà dei singoli, la molteplicità delle prospettive, la differenza etnica e culturale, l’eterogeneità dei caratteri, è una delle condizioni essenziali, come sempre è stata nel passato, per evitare i rischi che un eccesso di potere e di omologazione comporta. Il livellamento degli individui e dei cittadini si oppone a una aspirazione innata quale è quella del rango. Ecco perché uguaglianza e libertà non sono alla lunga conciliabili: chi vuole ottenere la prima deve necessariamente reprimere la seconda e alla fine produce solo una massa indistinta e facilmente manovrabile dai pochi – che siano singoli dittatori o gruppi oligarchici – che hanno ottenuto appunto il riconoscimento del rango.
L’esasperazione dell’egualitarismo anche nelle democrazie occidentali corre il rischio di «minare un giorno la base stessa di queste democrazie, che è fondata sul pluralismo delle personalità e delle opinioni» (ivi: 204). Se non possiamo programmare l’evoluzione, dobbiamo però porre degli obiettivi chiari allo sviluppo culturale e all’etica: «uno potrebbe essere quello di vivere in una società di individui responsabili, e ciò corrisponde alla nostra idea di un’umanità superiore» (ivi: 479). È stata l’intelligenza l’elemento più adattativo della specie e quindi un’evoluzione di grado superiore potrebbe riguardare le caratteristiche più tipicamente umane come la curiosità, la creatività, la razionalità. Le nostre possibilità di estinzione sono elevate quanto quelle di una ulteriore evoluzione e noi potremmo davvero rappresentare «un missing link, ossia un ipotetico anello di congiunzione» (ivi: 437) a condizione che si riesca a sopravvivere superando la crisi del presente e avviando a soluzione almeno alcuni dei principali problemi planetari.
La gravità di tali problemi è data anche dal fatto che nel corso della filogenesi non vi è stata alcuna pressione selettiva contro la guerra, la quale solo a partire dal Novecento ha assunto la dimensione di un male definitivo e irreversibile; contro l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, data la scarsità della popolazione fino all’esplosione demografica contemporanea; contro il potere delle immagini televisive e di Internet, fenomeni evidentemente nuovi e il cui impatto è ancora difficile da valutare in termini evolutivi, anche se è possibile coglierne fin d’ora i rischi di omologazione politica e di istigazione imitativa. Eibl-Eibesfeldt individua nell’atteggiamento scientifico
«l’unico ethos culturale di portata universale. Esso si basa sull’accettazione del realismo scientifico, sul presupposto della libertà di pensiero e di ricerca, e anche sull’idea che la conoscenza sia un bene e quindi che il sapere sia sempre meglio dell’ignoranza» (ivi:477).
Non a caso questo etologo ricorda la necessità socratica di diffondere almeno la consapevolezza dei problemi di fronte ai quali la specie umana oggi si trova e delle conoscenze che possono renderne più concreta la soluzione, in questo rimanendo «fedele all’invito che si trovava anticamente inciso sul tempio di Apollo a Delfi: ‘Conosci te stesso’» (ivi: 479).
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Note
[1] I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento (Die Biologie des menschlichen Verhaltens Grundriss der Humanethologie, 1984), a cura di R. Brizzi e F. Scapini (con gli aggiornamenti dell’autore per l’edizione USA, 1989) Bollati Boringhieri, Torino 1993: 4.
[2] K. Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (Die acht Todsünden der zivilisierten Menschheit, 1973), trad. di L. Biocca Marghieri e L. Fazio Lindner, Adelphi, Milano 1992: 78 e 120.
[3] C. Safina, Animali non umani. Famiglia, bellezza e pace nelle culture animali (Becoming Wild. How Animal Culture Raise Families, Create Beauty, and Achieve Peace, 2020), trad. di I.C. Blum, Adelphi, Milano 2022: 363 e 468.
[4] K. Lorenz, L’aggressività (Die sogennante Böse: zur Naturgeschichte der Aggression,1963), trad. di E. Bolla, Mondadori, Milano 1990: 314-315.
[5] Cfr. Id, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, cit.
[6] A.L. Kroeber, Antropologia dei modelli culturali (saggi tratti da The Nature of Culture, 1964), trad. di P.G. Donini, Il Mulino, Bologna 1976: 25-83.
[7] I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana, cit.: 380. Da qui in avanti i numeri di pagina delle citazioni da questo libro saranno indicati nel testo tra parentesi.
[8] J. Diamond, Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens (The Rise and Fall of the Third Chimpanzee, 1991), trad. di L. Sosio, Bollati Boringhieri, Torino 1994: 383.
[9] Id., Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (Guns, Germs, and Steel. The Fates of Human Societies,1997), trad. di L. Civalleri, Einaudi, Torino 1998: 228-229. Diamond aggiunge che «non è vero che tutti i membri del gruppo hanno lo stesso prestigio e contano in egual misura nelle decisioni; però il ruolo di preminenza non è formalizzato, e si acquisisce con la personalità, la forza, l’intelligenza o l’abilità nel combattere»: 213; «l’omicidio è una delle principali cause di morte nelle società tradizionali»: 219; «la guerra e la minaccia hanno giocato un ruolo fondamentale nella formazione di quasi tutte (se non proprio tutte) le società complesse»: 230.
[10] P. Clastres, L’anarchia selvaggia. Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re (1980), trad. di G. Lagomarsino, introduzione di R. Marchionatti, elèuthera, Milano 2013: 69.
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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Disvelamento. Nella luce di un virus (Algra Editore, 2022).
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