di Letizia Bindi
Ha fatto bene la redazione di Dialoghi Mediterranei, sempre attenta nello scegliere, suggerire, sollecitare gli interventi, a mettere la foto titolata Fardello di Daniela D‘Ottavi, all’inizio dell’interessante riflessione che Fabio Dei ha proposto sulle pagine digitali della rivista. Riflettere sulla complessa relazione tra antropologia e progresso, infatti, intrattiene un rapporto radicale con le subalternità e la violenza coloniale – cosa che Dei puntualmente ricorda – e con un sistema di gerarchie interiorizzate tra mondo occidentale e ‘altri mondi’ che a lungo ha utilizzato le metafore della bestia da soma, dello sfruttamento e della doma antropocentrica dei colonizzati, dei migranti come esseri dotati di un agency minore, di una soggettività meno titolare di diritti, di una cittadinanza negata o in altre fasi e contesti sostanzialmente menomata.
Ma il fardello – ci sovviene subito come immagine pregnante guardando quella foto – è anche quello di lévi-straussiana memoria che si riferisce al nostro peso, alle nostre imprescindibili responsabilità: segno bifronte, significante multiplo che evoca al tempo stesso gli scenari della dominazione dei ‘popoli’ colonizzati e l’acre presa di coscienza post-bellica delle colpe, se vogliamo, di un sistema di pensiero fondato sul razzismo e quindi e contemporaneamente sulle gerarchie etnicizzate tra i saperi e le culture (Lévi-Strauss 1952).
Ha fatto bene, la Redazione, a prendere alla lettera quel concetto di fardello e riportarlo al crudo realismo di un’iperbole: quel cumulo di oggetti in plastica destinati al mercato balneare caricato sulle spalle del venditore ambulante: ‘mulo’ contemporaneo di una moderna mulattiera pro-turistica e ultimo anello di una catena del valore basata sul consumo di luoghi, di oggetti, di plastica, di suolo, di occasioni di divertimento preconfezionati. Quel mulo o asino curvo che è un uomo e che richiama immediatamente, tuttavia, tutte le bestie da soma che hanno permesso alle storie degli uomini di camminare, svilupparsi, espandersi, chissà, progredire. Quel “fardello-rimorso” per cui l’uomo egemonico occidentale continua ad addossarsi le colpe del mondo e rispetto al quale lo stesso Ernesto De Martino ci aveva presto resi consapevoli, ma anche prevenuti come forma eccessiva di autopunizione intellettuale.
Prendere sul serio le metafore
Provo a prendere per un momento ancora in considerazione questa immagine e portare alle estreme conseguenze la sua sollecitazione. L’uomo che porta il fardello è un “frutto impuro” (Clifford 1988) di quel flusso di corpi, merci, risorse che ha caratterizzato l’economia mondiale degli ultimi cinquecento anni – con gradi di intensità e sistematizzazione e spersonalizzazione differenti. Porta un fardello articolato e forse leggero: non è un caso che persino due celebri programmi di condivisione / trasferimento files siano stati chiamati eDonkey e eMule.
In questo caso si tratta di un fardello voluttuario, un non sense, in un certo modo: ciambelle per non affogare nel mare sempre meno profondo, sempre meno aperto, sempre meno pulito e sempre più affollato di corpi di altri migranti, corpi gettati, rifiuti, “vite di scarto” (Bauman 2003). In quella riflessione consegnata al mondo all’inizio del nuovo millennio Bauman non a caso teneva insieme in una fulminante e dolorosa associazione simbolica: la spazzatura del mondo generata da un consumo ipertrofico e veloce, quella liquidità tossica della contemporaneità e le vite di scarto abbandonate nei o gettate fuori dai barconi della speranza. I corpi abbandonati sul fondo dei canali di transito delle traiettorie migratorie venivano letti come segni occultati e inabissati del fallimento delle economie capitalistiche occidentali e delle democrazie o sedicenti tali che le hanno praticate e prima ancora generate.
In un gioco retorico mai davvero sciolto tra urgenza del dominio coloniale di imporsi e retoriche di un sistema di classificazioni culturali atte a giustificare quella condotta sistematica e secolare, le teorie evoluzionistiche – e prima ancora quelle degenerazioniste – erano state elaborate per convincere la macchina degli Stati Nazione, le sue élites economiche e politiche, l’opinione pubblica diffusa che non solo fosse giusto che l’Occidente avesse prevaricato sui sud del mondo, ma che in un certo modo fosse stato necessario, legittimo, auspicabile. L’idea del progresso avanzava così assieme a quella di giustificabilità della violenza per condurre più agilmente e senza dispersioni il percorso di “civilizzazione” dei popoli nativi e aborigeni nei diversi territori di conquista e controllo economico-politico più o meno diretto. Di quel riscatto dei “muti della storia”, tuttavia, avrebbe parlato anche De Martino trasformandolo però in una prospettiva politica condivisa: quell’idea di “entrare come compagno” nel processo di liberazione e riscatto che sicuramente animò l’ “etnocentrismo critico” – per quanto sfumato e posticcio il concetto possa essere considerato filologicamente – di De Martino e che fu, sullo sfondo, anche di Gramsci.
Al cuore dunque del binomio “antropologia e progresso” incontriamo un atto violento di prevaricazione, un fardello bifronte che grava sui ‘vinti’ e si ritorce, tuttavia, persecutorio sull’Occidente, un habitat di scambio di corpi, di consumo di merci e di significati e un neanche tanto sottile slittamento simbolico tra uomo e animale che ritroviamo nelle metafore ferali e in certe descrizioni dei nostri narratori meridionali o meridionalisti, nella denuncia delle condizioni ‘bestiali’ di vita dei braccianti delle nostre campagne, ma anche in quella laudatio compensatoria di una sorta di stato di natura ritrovato nelle forme di vita più distante dagli stili urbani e occidentali.
Potrebbe sembrare che stia forzando l’esile spunto – ma neanche tanto esile – della fotografia summenzionata o che stia giocando retoricamente anziché affrontare uno ad uno i nodi importanti su cui Dei ci ha condotti nella sua intensa quanto documentata riflessione. Penso, al contrario, che il tema meriti la massima attenzione scientifica e che ci conduca al cuore di una delle questioni oggi più dibattute: quella dell’idea di sostenibilità dello sviluppo, di transizioni e trasformazioni del mondo che è stato pensato e plasmato dal positivismo e solo apparentemente, forse, intaccato dai moniti relativisti e da decenni di interpretativismo e critica culturale.
Fa bene Dei a mettere in discussione il dibattito indigenista anni Sessanta e Settanta per le sue derive essenzializzanti, per quel nesso quasi indiscusso tra terra e cultura, quell’idea monolitica dei gruppi etnici, delle culture native come in equilibrio atavico con il sistema mondo e le sue risorse. Tuttavia, si deve a quella riflessione una prima apertura di sguardi che esploderà all’inizio del nuovo millennio nella messa in discussione radicale del sistema economico e geopolitico montato sull’atto coloniale e sulle sue propaggini post-coloniali, sulla agentività esclusiva e razzista che continua a negare parola e rappresentazione del mondo a chi non è parte del sistema di valori e di cultura occidentale, urbano, capitalista e post-capitalista e rappresenterà, tra l’altro, uno dei canali di accesso al pensiero de-centrato che allarga alla natura, all’ambiente, alle acque, agli animali e alle piante e foreste (Stone 1971; Kohn 2013) una agentività autonoma e rilevante nella definizione critica di cosa debba intendersi per sviluppo, per miglioramento delle condizioni di vita delle persone, di allargamento e innalzamento dei livelli di cittadinanza e delle opportunità di uguaglianza.
In tal senso si fatica forse un poco a comprendere cosa Dei contesti a Graeber e Wengrow (2021) quando parla del loro «cadere nel gioco relativista e neoromantico dell’inversione, sfoderando tutto il classico repertorio» (Dei 2024), in particolare quel loro «credere in un progresso che sarebbe maturato nella storia e in un processo di civilizzazione che ha trovato nell’illuminismo la sua espressione più chiara sarebbe intrinsecamente razzista» sarebbe per Dei difficile da accettare.
Personalmente sono dell’avviso – forse con ciò cadendo io stessa nel tranello/fardello occidentale – che certe idee di civilizzazione, plasmazione e condizionamento culturale e politico operate dal colonialismo nelle sue diverse stagioni ai danni dei “popoli senza scrittura” (Wolf 1982) non siano in effetti mai uscite a pieno dalla gabbia positivista delle gerarchie culturali, dello sviluppo come chiave di volta omologante che avrebbe prima o poi risolto le contraddizioni dello sviluppo a geometrie variabili, delle asimmetrie su cui l’ordine mondiale dei poteri economici e simbolici si è retto e si regge, per molti versi, ancora oggi.
Torno per un secondo alla fotografia con cui si apre l’articolo di Dei, a quella bestia da soma che è un uomo stretto nella morsa delle asimmetrie tra i nord e i sud, gli occidenti e gli orienti del mondo. Penso che la sua efficacia sta proprio in quella definizione di fardello che sposta dall’uomo all’idea di animale e il carico futile di giocattoli di plastica – un’altra efficace, implicita allusione all’insostenibilità del leisure contemporaneo che avvelena e soffoca il mondo – a un carico più pesante fatto di sostanze tossiche, di guerre, di rifiuti ai danni degli “altri”.
L’immagine del fardello – si è detto – rinvia immediatamente alla comparazione con l’animale e alla violenza implicita ed esplicita di queste metafore, non a caso copiosamente sfruttate dalle retoriche propagandistiche e belliche dei vari regimi: il nativo come selvatico, il migrante come animale da sfruttare, i popoli colonizzati come bestie da domare (Favole 2024). Credo che la relazione tra studi antropologici e progresso, la critica dell’evoluzionismo e del positivismo pseudo-scientista e delle gerarchie culturali che ne sono derivate emergano in modo più evidente se le guardiamo dai margini: margini geografici del grande scacchiere diplomatico mondiale, margini delle domande e dunque dei nodi teorici posti dalla ricerca e dal sistema di produzione del sapere ufficiale. In tal senso le relazioni interspecie sono state da sempre configurate come relazioni di dominazione in cui le specie animali sono costrette, sfruttate, “parlate” e rappresentate dagli uomini senza la opportuna e necessaria apertura di forme di ascolto e osservazione che permettano di coglierne i desideri, le sofferenze, le forme di interazione sociale interna ed esterna alla propria specie.
Questo allargamento dell’agency della storia al more-than-human costringe gli studi antropologici e più generalmente le scienze sociali a ripensare in profondità l’idea di evoluzione e di progresso, quella di limite della capacità espansiva dell’Antropocene, la violenza che la cultura occidentale e le culture umane hanno più complessivamente esercitato verso le altre specie animali e verso la natura considerandole risorse da sfruttare legittimamente a vantaggio delle comunità umane in nome di una razionalità, di un comportamento ‘conveniente’ e coerente che le altre specie non potrebbero vantare.
Le criticità e vulnerabilità del nostro tempo lasciano pertanto intuire che al fondo delle società umane, orgogliose delle loro frontiere, dei loro avanzamenti costanti persiste in ogni categorizzazione, in ogni sistematizzazione dei loro saperi una attitudine alla prevaricazione, un eccesso di orgoglio specista che si trasferisce anche più ampiamente all’idea di controllo della natura, delle piantagioni, dei boschi e delle foreste di cui sono costituite in larga parte le aree protette e i parchi e che l’uomo si concentra a compartimentare, suddividere, nominare, computare attribuendo a questa attività di mappatura capillare, di inventariazione parte della propria capacità di controllo e di intervento orientato – neanche a dirlo – al progresso e all’avanzamento della propria condizione di vita.
Per riconsiderare il tema che qui si sta cercando di discutere, può pertanto essere utile confrontare la storia degli studi che – come ci ricorda Dei – si è intrecciata con le teorie del progresso, dell’evoluzione e della violenza esercitata da alcuni gruppi su altri a quella evocata e allusa dal dibattito più recente dei post-human studies. Guardare la nozione di progresso dal margine della specie anthropos, de-centrare e de-costruire i pilastri dell’autoreferenzialità umana, riconoscere agentività, soggettività, coscienza negli animali, pensieri nelle foreste da un lato pone questioni di essenzializzazione a sua volta, dall’altro permette di mettere in luce le contraddizioni profonde della relazione tra produzioni, crescita economica, stili di consumo, salute e benessere umano e animale, salvaguardia ambientale, sostenibilità e conservazione della biodiversità che sono al fondo le questioni intorno a cui si avvolge oggi il dibattito sulle frizioni dell’Antropocene.
Questo approccio radicalmente critico ha trovato nutrimento in ricerche come quelle di Kirskey e Helmreich (2010) sugli animal studies, le relazioni tra specie e tra mondi viventi (gli animali umani e non umani, le piante, il sistema-pianeta con le sue risorse, l’acqua, la luce) e le riflessioni che hanno intrecciato teorie radicali femministe, post-femministe e queer (Haraway 1988, 2008; Tsing 2005, 2015) con quelle sulle nuove ontologie (Povinelli, 2016) e ancora l’insieme ampio e variegato di studi critici dei modelli di prevaricazione delle società umane sulle altre specie e nei confronti dell’ambiente e della natura (Latour 2004, 2005; Eriksen 2022) fino a giungere ai cosiddetti “future studies” e alle potenzialità dello Speculative Critical Design (Dunne – Raby 2013; Kjærsgaard – Boer 2016) che non a caso radicalizza il pensiero decentrato post-antropocentrico e prova a pensare in chiave reticolare le relazioni tra “personas” intese come nuove soggettività plurali, liberate o da liberare per costruire un futuro sostenibile e durevole.
In modo analogo operano sul piano della concettualizzazione della categoria di progresso e di sostenibilità dei nostri (umani) modelli di sviluppo sin qui praticati teorie come quelle di One Health che si fondano sul principio olistico di una permanente connessione tra il benessere delle donne e degli uomini, degli esseri viventi – animali e vegetali – e della natura e del paesaggio come presidi della nostra stessa sopravvivenza (Steffens – Finnis 2022).
Il tema del progresso porta al cuore del dibattito filosofico e antropologico quello inaggirabile degli immaginari di futuro che ciascuna società ed epoca elabora e trasmette. Se la linearità ‘progressista’, antropo-etno-centrica ha veicolato e supportato comportamenti aggressivi e di prevaricazione tra nord e sud del mondo, tra cultura occidentale e non occidentale, l’esercizio di foresight (Dator 1978) sposta l’accento dal conflitto connesso alla volontà di crescita esponenziale e di prevaricazione (continuation) al momento di crisi e arresto della curva di sviluppo (limits and discipline) che volge successivamente verso una vera fase di declino e collasso (decline and collapse) in cui si cerca di ripristinare il ciclo di vita del processo di crescita (senza riuscirvi) per poi sciogliersi in una fase del tutto nuova di trasformazione alla nuova generazione (transformation).
Opportunamente Dei ci mette in guardia dalla tentazione, anch’essa essenzializzante, di una filosofia della storia che pensa di collocare l’età dell’oro nel futuro – come in precedenza e per molti versi ancora oggi si è fatto collocandola nel passato ed è forse in questo che si può riscontrare un certo vagheggiamento narrativo della nuova ontologia futurologica. Resta il fatto che anche in questo contesto di riflessioni al contempo ispirate al design urbanistico e alla sostenibilità degli insediamenti, ai big data e ai networks cooperativi per lo sviluppo di intelligenze artificiali tornano temi e frizioni connessi alle autorità e ai poteri che supervisionano tali processi, alle authorities che forniscono e delimitano i nuovi habitat digitali tutt’altro che virtuali e che al contrario occupano e consumano cospicue quantità di suolo, acqua ed energia globale rilasciando, tra l’altro, notevoli quantità di gas serra e di rifiuti elettronici e tossici.
Così il miraggio di progresso, il foresight exercise che si proponeva di sovvertire la narrazione determinista e sconfortante di un mondo schiacciato da relazioni di prevaricazione tra nord egemonici e sud minoritari, finisce – per dirla con Dei – in «una nuova ideologia folk – insomma, come un oggetto e non come una risorsa della nostra conoscenza» (Dei 2024).
Il saggio di Fabio Dei è stato scritto nel quadro di un progetto europeo di ricerca dal titolo Science and Ideology Today. Environmentalism, Primitivism, and Sexuality (ZID), un progetto coordinato dall’Istituto di Filosofia dell’Università di Zagabria, approvato dal Ministero della Scienza e dell’Istruzione della Repubblica di Croazia e finanziato attraverso il National Recovery and Resilience Plan 2021-2026 dell’Unione Europea – NextGenerationEU. Credo che sia interessante – provando a trovare una soluzione che probabilmente non c’è a questo confronto e a questa preziosa riflessione –, tornare a riflettere sulle cornici all’interno delle quali certe teorie critiche sono state prodotte in passato e vengono prodotte oggi. La riflessione dell’antropologia sulla nozione di evoluzione e progresso apparteneva a un mondo segnato dal colonialismo e dai processi di estrazione di risorse, suoli e significati da porzioni cospicue di territori e popolazioni del mondo. La presente riflessione sulla crisi e le frizioni dell’antropocene si colloca in un quadro politico globale segnato dal Piano di Recupero e Resilienza successivo alla grande pausa planetaria della pandemia e alla estremizzazione delle crisi e delle asimmetrie mondiali e locali che essa ha messo inequivocabilmente in luce.
La riflessione antropologica è chiamata, in tal senso, oggi più mai a ripensare i paradigmi e le metodologie con cui si avvicina ai campi e alle domande, a ripensare i limiti e il potenziale delle culture umane e a misurarsi con l’impossibilità ormai definitiva di pensare la vita delle comunità umane nelle loro molte sezioni e diversità fuori da una relazione profonda e immersiva con le altre specie viventi, dalla considerazione delle conseguenze sempre più evidenti del cambio climatico e dell’abuso delle risorse naturali. L’antropologia contemporanea non può fare a meno di riconsiderare radicalmente i limiti dell’antropocene e dell’etnocentrismo, del fardello di diseguaglianze che continuano a gravare come carico di ciambelle e palloncini su quel mulo storto che è un uomo.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Letizia Bindi, docente di discipline demoetnoantropologiche e direttore del Centro di ricerca ‘BIOCULT’ presso lo stesso Ateneo molisano. Presidente dell’Associazione “DiCultHer – FARO Molise” per la piena attuazione della Convenzione di Faro nel territorio regionale molisano. Si occupa di storia delle discipline demoetnoantropologiche, di rapporto tra culture locali e immagini della Nazione nella storia italiana recente e sulla relazione più recente tra rappresentazione del patrimonio bio-culturale e le forme di espressione digitale. Su un fronte più strettamente etnografico ha studiato negli scorsi anni i percorsi di integrazione dei migranti, alcuni sistemi festivi e cerimoniali, la relazione uomo-animale nelle pratiche culturali delle comunità rurali e pastorali, la transumanza dinanzi alle sfide della tarda modernità e della patrimonializzazione UNESCO. Visiting Professor in varie Università europee, coordina alcuni progetti internazionali sui temi dello sviluppo territoriale sostenibile e i patrimoni bio-culturali (EARTH – Erasmus + CBHE Project con Università Europee e LatinoAmericane) e il Progetto ‘TraPP (Trashumancia y Pastoralismo como elementos del Patrimonio Bio-Cultural) in collaborazione con le Università della Patagonia argentina.
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