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Fermenti. La Medina di Tunisi e l’Arte contemporanea

        Fig.1. Istallazione dell’artista Yasser Jeradi.

Istallazione dell’artista Yasser Jeradi

di Giorgia Rubera                             

Stamattina ho finalmente riposato dopo mesi di tanto lavoro, la palma di fronte la mia stanza, compagna di questa permanenza tunisina, è illuminata dal sole. Ondeggia al canto del muezzin che profondo in questa terra risuona cinque volte al giorno ricordando il mistero della vita e riportando chi lo ascolta su un altro piano rispetto all’ordinario.

La Tunisia è sorprendente, contiene così tanti mondi! A Tunisi basta cambiare quartiere per essere catapultati altrove. La Medina, per esempio, vive la sua incessante esistenza sospesa in un tempo indefinito dove i secoli si sovrappongono incarnati in tutti noi strani personaggi che percorriamo le sue vie. Stamattina la Medina straripante di vita è invasa di turisti italiani e tedeschi, accanto ad anziane avvolte nei loro bianchi enormi mantelli, uomini in burnous [1], altri con chéchia [2], cappelli eredi di un passato ancora presente, trovi la curiosa turista francese dai biondissimi capelli, una dottoranda italiana che tutti credono sia algerina (che sarei io), la tunisina che sembra europea, il turista asiatico nella sua regale compostezza, un via vai di lavoratori e masse di fedeli che escono dalle moschee, tanta vita si anima per i suoi vicoli. Camminare tra le strette viuzze ha le sue regole, si sorpassa a piedi come si fosse in macchina in un gran via vai, si dà la precedenza ai lavoratori, si sorpassano i lenti turisti. Nel dedalo di vie della Medina si incontra una grande gentilezza, si aiutano gli anziani, si dà da mangiare ai gatti.

Seduta ad un bar a Bab Bhar [3] sono sulla porta d’accesso alla Medina, bevo un thè alla menta, un thāy bil-naʿnāʿ in tunisino, e osservo l’incessante brulicare attorno. È buffo vedere un gruppo di tedeschi in pantaloncini e vestitini scollati con le loro gambe bianchissime aggirarsi per la Medina. Alcuni turisti sono come degli extraterrestri con le loro macchine fotografiche e la completa mancanza di integrazione con la cultura locale. Ma quelle gambe bianche oggi mi fanno tanto sorridere, così stonate aggiungono un elemento ancora più bizzarro al bizzarro mondo che è Tunisi.

Tutte le città del mondo variano al variare dei loro quartieri, ma a Tunisi convivono antico e moderno, Oriente e Occidente, nord e sud in maniera singolare. Dopo una lunga passeggiata partendo dall’antico mondo della Medina, passando lungo avenue Bourguiba, poi per le vestigia fantasma dei palazzi coloniali, per esempio, si può arrivare alla Gallerie 32 Bis e trovare la mostra Le cheveu de Mu’awiya, una mostra collettiva che nulla ha da invidiare al grasso Occidente, e trovarsi in un altro mondo ancora.

L’esposizione Le cheveu de Mu’awiya, esplora le complessità del periodo attuale, indagando i modi in cui interpretiamo e affrontiamo le crisi e le turbolenze della nostra epoca. La mostra trae ispirazione dal termine arabo fitna, discordia, turbolenza, tumulto, crisi che trova le sue radici nella tradizione islamica. Si riferisce a crisi politiche e conflitti interni, ma, fitna rappresenta allo stesso tempo anche il tumulto emotivo dell’amore.

Base teorica per la mostra sono il libro La Grande Discorde (1989) dello storico tunisino Hichem Djaït, e in parallelo il trattato medievale sull’amore Il Collare della Colomba di Ibn Hazm, poeta del XI secolo, fonti d’ispirazione che tracciano le risonanze tra l’ordine-disordine politico e quello affettivo.

Le opere esposte sono il risultato di una collaborazione creativa tra circa venti artisti tunisini e internazionali, che riflettono su temi quali la crisi, l’identità e il disordine, offrendo nuove prospettive e narrazioni che collegano e intrecciano il passato con il presente. Giovani e fermento artistico sono tra i motori più evidenti della Tunisia contemporanea.

Il fervore delle piazze durante la Rivoluzione dei Gelsomini continua a essere riflesso nell’arte che, vivace, svolge un ruolo centrale nell’esprimere le aspirazioni legate alle Primavere arabe. L’analisi del panorama artistico a Tunisi rivela chiare spinte verso la trasformazione sociale in corso. Numerosi sono i giovani artisti e le proposte nella città: festival, mostre, musica, teatro e danza. I giovani sono in fermento, moltissimi in grado di comunicare fluentemente in arabo, francese, inglese, e spesso anche in spagnolo e italiano. Il contributo delle arti e della cultura al processo di trasformazione sociale del Paese è evidente. Vari sono gli spazi dedicati alle arti, molte le  gallerie, e i festival come Le Journées d’Art Contemporain de Carthage JACC, il Festival des Arts de la Méditerranée,  FAM.

 Fig.2. Bab Bhar e l’istallazione Floe, opera scenografica dell’artista Vincent Lamouroux.

Bab Bhar e l’istallazione Floe, opera scenografica dell’artista Vincent Lamouroux

Ma tra la Medina e l’arte contemporanea avviene una fusione totale durante il festival multidisciplinare d’arte contemporanea Dream City che si svolge ogni anno. Dream City nasce nel 2007 da un progetto dei ballerini e coreografi tunisini Sofiane e Selma Ouissi, a cui successivamente si sono affiancati i direttori artistici Hoor Al Qasimi e Jan Goossens. Oggi è diventato un evento artistico molto importante, di grandissima vitalità.

Il festival Dream City, promosso dall’associazione L’Art Rue, trasforma la Medina di Tunisi in un enorme centro artistico per quindici giorni, tra fine settembre e i primi di ottobre. Durante questo periodo, la Medina diviene contenitore d’arte: pittura, video-installazioni, danza, documentari, concerti. Tunisi apre le porte di edifici normalmente chiusi al pubblico, destinandoli all’arte. Durante il festival, la Medina è invasa da artisti visivi, musicisti, attori, ballerini, scenografi, coreografi, fotografi, registi, filosofi e scrittori.

Nel 2023, 40 artisti hanno presentato 44 esibizioni all’interno della Medina di Tunisi, che, già di per sé viva e labirintica, si è trasformata in una Medina – opera d’arte portando i visitatori alla scoperta di  un dedalo di vie solitamente inesplorate. Durante quest’evento forniti di mappe e indicazioni dei commercianti, ci si avventura alla scoperta di questa straordinaria esposizione artistica, una caccia al tesoro d’arte.

Oltre alla qualità dell’offerta artistica, è l’interazione dinamica tra arte e città, persone e luoghi a essere protagonista. Durante Dream City, i cittadini si riappropriano degli spazi, creando nuove modalità di interazione. Si instaura così un dialogo tra le espressioni artistiche e l’ambiente urbano, generando un’esperienza che va oltre la semplice fruizione dell’arte, coinvolgendo attivamente la comunità. Jean-Baptiste André in Floe, performance coreografica su un’opera scenografica dell’artista visivo Vincent Lamouroux, mette in scena un dialogo tra il corpo e lo spazio. Un uomo si trova di fronte a un paesaggio scultoreo, che deve attraversare. I suoi movimenti si fanno narrazione: l’uomo emerge e svanisce, fondendosi con le superfici della scultura come in un gioco di apparizioni e dissolvenze. Da questa danza visiva scaturisce una poetica in cui lo spazio è sospeso, non segue la gravità terreste.

Fig. 3-4. Istallazione Floe.

Istallazione Floe

Uno dei punti centrali del progetto Dream City è la riattivazione della Caserne El Attarine, un edificio storico al centro della Medina che un tempo era un centro di pensiero e cultura tunisina. Costruito proprio di fronte la Moschea al-Zaytuna nel 1813 come caserma militare sotto il regno di Hammouda Pacha, l’edificio venne trasformato in biblioteca durante il periodo del protettorato francese. Successivamente, divenne la sede dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Arte. Per l’edizione di Dream City 2023, la Caserne è stata riconfigurata come uno spazio multidisciplinare aperto al pubblico, con aree dedicate alla riflessione e al confronto sulla situazione sociale e politica contemporanea.

Dream City è un motore straordinario, spazio simbolico per progettare il futuro, dove l’artista, assimilato all’antropologo come descritto da Hal Foster opera un incontro tra etnografia e arte. Nel suo saggio L’artista come etnografo (1996), Hal Foster ci mostra infatti l’esistenza di un cambiamento significativo nell’arte contemporanea, caratterizzato da una forte inclinazione etnografica. L’arte moderna e i suoi sviluppi successivi hanno adottato la funzione di critica sociale. Arte e antropologia si incrociano dunque nella capacità di interpretare e rappresentare la vita sociale, di descriverla e di tradurla criticamente.

Le tematiche delle opere affrontano temi di grande rilevanza, come la migrazione, la democrazia, la cittadinanza e i diritti umani, la guerra nonché questioni legate ai crimini ambientali e alla memoria collettiva. In un contesto globale fragile, in cui le politiche contro i migranti e la crisi ambientale si impongono nella loro emergenza, il festival diventa un luogo di riflessione e azione creativa per promuovere il cambiamento.

Tra le opere in mostra, Conversation Piece di Gabriela Golder presenta due giovani che leggono il manifesto comunista con la loro nonna. In questa opera, la nonna rappresenta una figura storica di lotta politica, essendo stata militante nel Partito Comunista Argentino. Così l’artista Gabriela Golder invita lo spettatore alla riflessione:

 «-Que es una revolucion?
-Revolucion viene da revuelto, de revolver, es cierto, uno cuando revueve que es lo que pasa? Pasa que se da vuelta a todo, todo lo que tenia de una forma se vuelve como de otra».

Tutte le opere, pur meritevoli di attenzione, non possono essere esaminate in dettaglio in questa sede, tuttavia vale la pena di sottolineare i film di Manthia Diawara, regista e storica dell’arte il cui lavoro si concentra nel campo degli studi culturali della diaspora nera e africana. La sua pratica accademica e creativa affronta le politiche del postcolonialismo, della decolonizzazione, della migrazione e della globalizzazione. Le opere presentate sono state: Angela Davis: A World of Greater Freedom (2023), Edouard Glissant: One World in Relation (2010) e Negritude: A Dialogue Between Wole Soyinka and Senghor (2015).

Stigma di Jalila Baccar è un’opera teatrale potente e intensa, messa in scena nella suggestiva cornice della chiesa del Sacré-Cœur. L’opera affronta il dramma della condizione palestinese attraverso una narrazione coinvolgente e profonda. La regista stessa spiega il motivo di questa scelta tematica con parole incisive: «Parlare della Palestina oggi? Perché? Per opporsi all’oblio, all’amnesia, alla cancellazione e alla falsificazione della Storia» [4].

A seguire un estratto dal testo teatrale:

«Nabiha:
La prima volta che l’ho vista, era in ospedale il 1° ottobre 1985, il giorno in cui i sionisti bombardavano i palestinesi a Hammam Chott.
Era un martedì, me lo ricordo…
Io e mio padre siamo arrivati nello stesso momento dei primi feriti.
I morti sono stati portati all’ospedale Charles Nicole.
Io sono un’ausiliaria, lavoro dal 1969 e conosco bene il mio mestiere.
Ero abituata alle ferite, al sangue, alla sofferenza dei pazienti, ai loro lamenti…
Ma quel giorno è stato un totale sconvolgimento.
L’ho visto seduto su una sedia a rotelle, l’avambraccio sinistro immobilizzato, il viso pulito e i lineamenti visibili.
Mi sorride e mi dice: […]
«Come stai, Nabiha?»
«Io, sto bene! E tu?»
Mi mostra il suo braccio amputato:
«Un popolo disperso… una famiglia dispersa… e un corpo disperso…
Questo è il mio destino, un corpo disperso tra i paesi:
L’indice a Amman…
Il medio a Beirut…
E l’avambraccio a Tunisi»
Mi sono messa a piangere» [5].

L’istallazione video e espositiva di Marwa Arsanios, intitolata Who is Afraid of Ideology? , è un altro contributo importante del Festival. Attraverso un approccio interdisciplinare, l’artista mette in discussione i sistemi politici ed economici oppressivi, proponendo modi alternativi di vita basati su esperienze collettive. Ogni capitolo si concentra sulle iniziative delle donne in Paesi colpiti da crisi come Iraq, Siria, Colombia e Libano. Queste donne combattono per l’uso collettivo della terra, la democrazia partecipativa e la loro sicurezza, oltre al diritto all’autodeterminazione.

 Who Is Afraid of Ideology?

Who Is Afraid of Ideology?

Il collettivo The Living and the Dead Ensemble ha presentato il progetto The Wake (2021), «Fuoco di lotte e dolore, rinascita e caos. Tra le fiamme, una comunità errante sogna di volare, viaggiare e stringere alleanze tra le diaspore del mondo. […] risuonando le voci del movimento Black Lives Matter»[6].

Tra i tanti artisti coinvolgente il concerto di Tarek Atoui che ha presentato il progetto di ricerca e performance Al Qabali in cui, come un musicista sciamano, sovrappone e evoca suoni seguendo il Tarab, una tradizione musicale araba in grado di indurre trance, fondandosi su una collezione di registrazioni musicali di tradizioni rurali provenienti da tribù e villaggi che si estendono dall’Atlas al Golfo Persico, seguendo il cammino del popolo tuareg.

Due location nel centro della Medina ospitano le opere di Bouchra Khalili e Remi Kuforiji. L’installazione video di Khalili, The Circle (2023), esamina e riattiva l’eredità del Movimento dei Lavoratori Arabi in Francia e dei loro gruppi teatrali Al Assifa e Al Halaka negli anni ‘70. 

Water No Get Enemy: Counter-Cartographies of di Remi Kuforiji è un progetto di ricerca multiforme che sviluppa un nuovo modello di resistenza all’estrazione neocoloniale di petrolio e alle pratiche di ecocidio nel Delta del Niger. Nil Yalter riflette sulla situazione del migrante e cita nel titolo della sua opera Nazim Hikmet, lui stesso in esilio, dipingendo le parole Exile is a Hard Job in varie lingue in più spazi. Per finire ricordiamo l’installazione di Mounira Al Solh, intitolata A Day is as Long as a Year, documenta le esperienze di coloro che sono stati costretti a lasciare le proprie case.

Quest’anno il festival Dream City si è trasferito ad Aubervilliers in Francia su invito congiunto del Festival d’Automne e di La Commune.

Ad Aubervilliers, le proposte artistiche si appropriano di luoghi in tutta la città, fino alle porte di Parigi, per disegnare una mappa vivente. Il programma di questa città dei sogni, Dream City appunto, o di questo sogno di città, include teatro, danza, performance, musica, incontri, arti visive, un percorso sonoro.

Presente già nell’edizione del 2023 a Tunisi lo spettacolo di danza BIRD, curato da Sofianne Ouissi e interpretato da Selma Ouissi, è un invito a sentire e ripensare la nostra relazione con il mondo vivente, attraverso una danza eseguita insieme ad un uccello. Sofiane Ouissi senza cercare di addomesticare l’uccello, si lascia guidare in una danza poetica, un’armonia tra tutte le parti.  «BIRD è uno spazio multi-specie in cui l’essere umano non è più centrale, aprendo nuove relazioni con gli animali che sono contingenti, fragili e incerte» [7]. 

the Bird

Bird

Altra opera presente è Libya, il terzo pezzo del coreografo marocchino Radouan Mriziga presentato al Festival d’Automne in cui viene celebrato il patrimonio Amazigh del Maghreb, attraverso la lingua, le storie, la danza e il canto. Radouan Mriziga ha concepito questo spettacolo come un paesaggio contemplativo, amplificato dalla musica tarab. Tra performance e movimento, il coreografo trasforma la danza in uno spazio narrativo, dove ogni gesto diventa una storia, ogni canto un frammento di memoria.

A Tunisi l’arte non è imprigionata in un museo, ma scorre tumultuosa tra le vie, nei palazzi storici, nei muri delle moschee. Gli artisti tunisini contemporanei sono coinvolti in contesti globali sempre più dinamici, la complessità della loro espressione artistica, integra il locale e il globale evidenziando la fluidità delle influenze culturali e il trascendere delle frontiere geografiche. Attraverso la pratica artistica, si opera quella DissemiNazione di cui ci parla Homi Bhabha riprendendo un concetto di Jacques Derrida, che rende l’artista indipendente dal concetto stesso di nazione, consentendogli di muoversi liberamente nel luogo intermedio del confine, all’interno di quello che può essere definito il Terzo Spazio  (Bhabha 2020). L’artista è al confine tra diversi mondi. E l’opera d’arte stessa si situa in un terzo spazio tra l’artista e il mondo-spettatore (Bhabha 1996). Questo terzo spazio non è solo un punto di intersezione, ma un luogo di transizione dinamico, dove avviene un continuo spostamento dei codici culturali e comunicativi. In cui i diversi sistemi di significazione si rimescolano, anche all’interno dello stesso sistema (Bhabha 2020) .

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
 Note
[1] Il burnous è un indumento diffuso nei paesi del Maghreb. Si tratta di un lungo mantello, con un cappuccio, realizzato in lana o in tessuti pesanti per proteggere dal freddo. 
[2] La chéchia è il tipico cappello tradizionale tunisino. Si tratta di un berretto, realizzato in lana, solitamente di colore rosso scuro o bordeaux. La chechia, indossata principalmente dagli uomini, è un simbolo dell’identità culturale tunisina, e, sebbene l’uso quotidiano sia diminuito nel corso del tempo, rimane popolare durante le festività, le celebrazioni religiose e altre occasioni. Tradizionalmente, le chéchia sono prodotte artigianalmente nella Medina di Tunisi, in particolare nel quartiere noto come Souk Ech-Chaouachine, dove ancora oggi si lavorano questi caratteristici copricapi. 
[3] Bab Bahr, “Porta del Mare”, è uno degli ingressi storici della medina di Tunisi. Chiamato Porte de France durante il periodo coloniale francese, Bab Bahr segnava l’accesso alla città antica e il passaggio tra la medina e la parte nuova della città, realizzata durante il dominio coloniale. Bab Bahr è diventata un simbolo storico e culturale della città, segna il confine la vivace vita della Medina, con i suoi mercati e stradine tortuose, e la moderna Tunisi, rappresentata dall’Avenue Habib Bourguiba, la principale arteria della città. 
[4] https://lartrue.org/fr/festival-dream-city/le-festival/editions-precedentes-dream-city/dream-city-2023-fr/programme-9eme-edition/stigma-dreamcity-23 
[5] https://zat.lartrue.org/fr/fr-stigma-un-excerpt 
[6] https://lartrue.org/en/festival-dream-city/the-festival/previous-editions-of-dream-city/dream-city-2023-eng/programme-9th-edition/the-wake-dreamcity-2023-eng 
[7] https://lartrue.org/en/festival-dream-city/the-festival/previous-editions-of-dream-city/dream-city-2023-eng/programme-9th-edition/bird-dreamcity-2023-eng
Riferimenti bibliografici
Bhabha, Homi K. 1996, «Aura and Agora: On Negotiating Rapture and Speaking Between », in Negotiating Rapture: The Power of Art to Transform Lives, di Francis Richard. Chicago : Museum Of Contemporary Art.
—. 2020, Nazione e Narrazione, Milano: Meltemi.
Braidotti Rosa, 2002, Nuovi soggetti nomadi, Roma: Luca Sossella. 
Bargna, Ivan, 2010, «Arte e diaspora: transiti di esperienze, immagini e oggetti», in De Cecco, E. (a cura di), Arte-mondo. Storia dell’arte, storie dell’arte, Milano, Postmedia.
Clifford, James, 1993, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino: Bollati Boringhieri.
Derrida, Jacques, 1989, La disseminazione, Milano: Jaca book.
Djaït, Hichem, 2008, La Grande Discorde: Religion et politique dans l’Islam des origines, Editions Gallimard.
Foster, Hal,  2006, “L’artista come etnografo”, in Foster H. (a cura di), Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Milano, Postmedia.
Ibn Hazm, 2013,  Il collare della colomba, Milano: ES.
Louati, Ali, 1997, L’aventure de l’art Moderne en Tunisie, SIMPACT.
Marcus, George, 1995, «Ethnography in/of the World System: the Emergence of Multi-sited Ethnography», Annual Review of Anthropology, 24.
Nakhli, Alia, 2023, Arts Visuels en Tunisie, Nirvana.
Ruocco, Monica, 2010,  Storia del teatro arabo. Dalla nahdah a oggi, Roma: Carocci.
Triki Rachida, 2010, Tunisia’s Art Scene,by Pat Binder & Gerhard Haupt, June 2010. https://universes.art/en/nafas/articles/2010/tunisia-art-scene 
L’Art Rue https://lartrue.org/ 
A questo link il video ufficiale dell’edizione 2023 di Dream Cityhttps://youtu.be/T1BSzHCHg3Q?si=wKpGxc6QbEWVrSea 
A questi link i video ufficiali dell’edizione 2024 di Dream City:
https://youtu.be/OpeNNF8e_Xc?si=TOdjdhWAc5tNr3Sk
https://youtu.be/SpAqwBiCd3E?si=4bqnm2fkxZAZ3wcr

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Giorgia Rubera, dipendente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale, PhD (in attesa di discutere la tesi) presso l’Universidad de Granada, direzione Prof. José Antonio González Alcantud con un progetto di ricerca di antropologia sull’arte sufi contemporanea nel Mediterraneo. Collabora con: l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli al progetto “La Tela del Mediterraneo e alla Carta delle Donne nel Mediterraneo”, promosso dall’Associazione Eleonora Pimentel; e con l’Université de Sfax in Tunisia. È membro dell’Asociación para la Investigación en Ciencias de las Religiones (AICR).

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