«Non intendo, qui, fare un elogio del brigantaggio, come pare che sia diventato di moda, da qualche tempo, da parte di letterati estetizzanti, o di politici in malafede. Giudicato da un punto di vista storico, nel complesso del Risorgimento italiano, il brigantaggio non può essere difeso. Da un punto di vista liberale e “progressista”, quello appare l’ultimo sussulto del passato, che andava spietatamente stroncato, un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile. E lo fu realmente, nella sua realtà di guerra fomentata e alimentata dai Borboni, dalla Spagna, e dal Papa, per i loro particolari motivi. Ma il brigantaggio dei contadini è un altro: a guardarlo da quel punto di vista non solo non si può giustificarlo, ma non si riesce nemmeno a intenderlo. Del resto, quando i contadini lo giudicano e lo difendono, e quando ne parlano con tanta passione, non se ne gloriano. I suoi motivi storici, e gli interessi dei Borboni e del papa e dei feudatari, essi non li conoscono. Anche per loro, quella è una storia triste, desolata e raccapricciante. Soltanto, sta ad essi nel cuore; fa parte della loro vita, è il fondo poetico della loro fantasia, è la loro cupa, disperata, nera epopea» [1].
Probabilmente questo giudizio, espresso non da uno storico ma da un letterato e un artista come Carlo Levi, costretto a vivere per qualche tempo, da confinato politico, in uno di quei territori che erano stati teatro delle vicende drammatiche del brigantaggio ottocentesco, rimane il più equilibrato e il più vicino alla realtà dei fatti storici, pur se formulato secondo un’ideologia legalitaria di stampo liberale e risorgimentale, mitigata dall’empatia verso una mitizzata “civiltà contadina”. Voler dare, infatti, un’unica connotazione ideologica ad un fenomeno causato da molteplici motivazioni, non ultime le miserabili condizioni di vita delle plebi ottocentesche dell’Italia meridionale, e caratterizzato da spontaneismo ed individualismo esasperati, da mancanza totale di qualsiasi prospettiva politica se non quella di sopravvivere a tutti i costi, significa attribuire a quelle insorgenze, a quelle ribellioni feroci e velleitarie un marchio che è frutto della nostra visione del mondo. Come scrive Levi, il fenomeno del brigantaggio non fu che la «cupa, disperata, nera epopea» delle plebi contadine meridionali che combatterono per un riscatto che era confuso e vago anche per loro.
Su quegli avvenimenti negli ultimi tempi si è acceso un dibattito piuttosto strano e surreale, svolto mediante argomentazioni che tengono conto non delle reali vicende storiche e delle tante motivazioni politiche ed economiche di allora, bensì delle nostre attuali e ideologiche simpatie o idiosincrasie, come si è potuto vedere dai libri pubblicati in occasione del 150° anniversario dell’Unificazione Nazionale e dai dibattiti che ne sono seguiti. Il fatto è che l’Unità d’Italia è avvenuta solo a livello formale, dopo di che le famose parole di Massimo D’Azeglio: «Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli Italiani» sono rimaste lettera morta, come uno stereotipo proverbiale che non è necessario realizzare. L’Unità nazionale non era, ovviamente, impresa facile da concretizzare in poco tempo, perché sarebbe occorso mettere insieme e rendere omogeneo un gruppo di piccoli stati aventi ordinamenti statutari e legislativi diversi, fare diventare popolo “un volgo disperso che nome non ha”, separato da usi linguistici e da costumanze esistenziali molto distanti fra loro, da differenti strutture economiche e sociali consolidate da secoli. Più semplice, fu per i vincitori di allora, usare la politica dell’annessione e dell’imposizione della propria legislazione e del proprio sistema economico, e poi quella della repressione violenta, con le leggi speciali, i tribunali militari e l’esercito a mantenere l’ordine e andare avanti con arresti di massa e sentenze giudiziarie molto sommarie. Insomma il processo di unificazione nazionale non fu un’eroica passeggiata romantica, come leggevamo nei testi scolastici di qualche decennio fa. Ma credo che ciò capiti sotto ogni latitudine e in ogni tempo: quando gli interessi economici prevalgono su tutto, si può tentare di resistere ma non di vincere, se non ci sono idee di sistemi politici e sociali alternativi.
Oltretutto, se non si conoscono o non si vogliono conoscere i meccanismi ed i mezzi con cui l’interesse economico procede, poi è quasi necessario inventarsi teorie strane per spiegarsi l’accaduto. Così, approfittando dell’ignoranza storica diffusa e della disinformazione, in Italia c’è chi progetta secessioni territoriali, chi autonomie regionali differenziate, c’è chi nostalgicamente vagheggia il regime borbonico idealizzandolo, c’è chi crea solo confusione perché non sa come rispondere al disagio politico e sociale dell’ultimo quarantennio. Il risultato di questo chiacchiericcio è l’arroccarsi di tutte le parti in questione sulle proprie posizioni ideologiche di partenza, spesso frutto di disinformazione e pregiudizi, senza riuscire a trovare la possibilità di dialogare, confrontarsi e svolgere una lettura pacata e obiettiva del passato storico. Dopodiché diventa ovvio che i governi, essendo frutto di questa diffusa mentalità qualunquistica, si dimostrino incapaci di capire la situazione generale del paese e annaspino legiferando in modo incoerente e sconclusionato.
Ci sono, tuttavia, strumenti adeguati di informazione storica che chiariscono molte cose su quello che è avvenuto dal 1860 in poi, dal vecchio libro-pamphlet di Del Carria, Proletari senza rivoluzione, a quelli più documentati e storicamente fondati, di Molfese e De Jaco [2], ma pare che le letture impegnative non siano gradite, perché è più facile digitare sul telefonino la prima sciocchezza che ci viene in mente e diffonderla sapendo che qualcuno abboccherà.
Qualcosa di nuovo, tuttavia, recentemente è accaduto, perché è stato pubblicato dallo storico Andrea Mammone, un libro che sfata tutte le dicerie e le finte notizie che intorno al Risorgimento e all’unificazione dello Stato italiano sono state diffuse a Nord e a Sud della penisola [3]; di qualche mese prima, inoltre, è la pubblicazione del libro di Valentino Romano (Filomena. La regina delle selve, Carocci, Roma 2024), che affronta il tema del brigantaggio meridionale della seconda metà dell’Ottocento, uno degli aspetti più divisivi della storia recente italiana. Mentre Mammone ricostruisce la storia economica e sociale degli Stati pre-unitari, Romano cerca di fare chiarezza raccontando i fatti accaduti tra il 1861 e il 1880 senza la retorica trionfalistica dei vincitori di allora e senza gli atteggiamenti vittimistici di chi si sente essere stato colonizzato e depredato, cerca di ricostruire, attraverso una paziente indagine archivistica, la vita quotidiana di quelle donne che parteciparono alle imprese del brigantaggio. In questo modo riesce anche a darci un’idea della tragicità che caratterizzò quegli avvenimenti caotici, in cui sembrava che l’unico rimedio fosse quello della ferocia di chi usava gli strumenti della repressione, da una parte, e quella di chi si difendeva dall’altra.
Il libro è imperniato sul personaggio di Filomena Pennacchio, una delle più famose donne dei briganti, e sulle sue vicende biografiche; intorno a queste ruotano, basandosi, per altro, su notizie frammentarie e su deduzioni suggerite dai pochi documenti che ci restano, le vicissitudini di altre decine di giovani donne che condivisero la propria vita con quella dei loro compagni ribelli. Esse non furono molte, ma nemmeno poche, se consideriamo il momento storico; secondo i calcoli di Romano esse furono «oltre centocinquanta in armi, più del doppio alla macchia e almeno cinquemila, a vario titolo, fiancheggiatrici della rivolta»: ovverosia le madri, le mogli, le sorelle, rimaste a casa ma sempre in contatto con i parenti latitanti.
La biografia di Filomena contiene, in modo emblematico tutte le operazioni storiche e letterarie costruite fantasiosamente intorno ai personaggi femminili implicati in quelle vicende. In una società patriarcale e misogina come quella italiana di allora (la cui mentalità in buona parte abbiamo ereditato) era impensabile e forse insopportabile sapere che giovani donne potessero convivere in promiscuità con delinquenti, veri o presunti, avendo come dimora abituale i rifugi offerti dal bosco, e condurre una vita da selvaggi.
Se quella del brigante maschio era per la società di allora una figura accettata a livello culturale, le cose cambiavano notevolmente se a vivere la vita alla macchia fossero le donne. La loro straordinaria esperienza di vita scatena la fantasia degli scrittori, degli artisti e soprattutto dei giornalisti. Di loro le rappresentazioni più diffuse sono quella pruriginosa e misogina dei benpensanti che le immaginano come donne dissolute, protagoniste di vicende libertine e pronte anche ad atti di ferocia e di crudeltà; oppure quella con cui furono idealizzate e rappresentate, nei feuilleton e nelle tele pittoriche di allora, come belle e giovani donne romantiche che imbracciano il fucile. Valentino Romano, affidandosi alla documentazione, dimostra che ambedue le immagini sono false, costruite artificiosamente e fantasiosamente per tre motivi precisi: il primo per denigrare il fenomeno che avrebbe potuto coinvolgere le masse contadine del Meridione; il secondo, conseguente al primo, per giustificare la ferocia della repressione; la terza, infine, a scopo di guadagno, per sfruttare editorialmente il fenomeno per i suoi aspetti pittoreschi e sensazionali.
Nel corso dell’Ottocento, il secolo delle “libertà” per antonomasia, molte donne, forse per un anelito spontaneo di autonomia, forse per una ancora confusa presa di coscienza contro la loro secolare subalternità di moglie e figlie al potere di padri, mariti e fratelli, dimostrarono di voler competere con gli uomini e di volerli eguagliare. Cominciarono le nobili e le borghesi cresciute nel clima dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, come Cristina di Belgioioso e Giulia Beccaria, ma poi, durante gli anni del Risorgimento, molte popolane salirono sulle barricate, prepararono coccarde e indumenti per i combattenti, svolsero lavori di cuoche e di infermiere per le truppe impegnate nei campi di battaglia. Ovviamente, esse non occuparono mai posizioni di comando, svolgendo solo un ruolo gregario, ma senza quelle esperienze non avrebbero potuto nemmeno intuire che per loro c’era la possibilità di avviare un cammino verso l’uguaglianza. E infine ci furono loro, le giovani contadine, che abbandonarono la famiglia e il paese forse per ribellarsi alle miserevoli condizioni di vita e forse con la speranza di un riscatto qualsiasi. Romano, alla domanda se la loro fu una libera scelta, non ha una risposta precisa, ma il comportamento delle giovani donne non può essere attribuito, come fanno i neo-borbonici, solo all’attaccamento alla dinastia napoletana e all’avversione contro i Savoia (aspetti che pure furono presenti nel fenomeno brigantesco). Per sapere cosa pensassero queste donne, occorre leggere i verbali dei processi, che sono l’unica testimonianza della loro voce; ma anche qui ci vuole prudenza, perché negli interrogatori, per evitare condanne pesantissime (come molti anni di lavori forzati o addirittura la pena capitale), le donne, su probabile suggerimento degli avvocati, dichiaravano di aver vissuto alla macchia non per scelta ma perché costrette con la violenza.
Romano, tuttavia, leggendo tra le righe dei verbali, arriva alla conclusione che in quelle vicende c’è anche un ruolo autonomo delle donne: «Era un ruolo assolutamente inedito che trovava i suoi naturali presupposti nella pulsione ad agire all’esterno [e nel]l’odio di classe e di condizione maturato all’interno del focolare domestico e della situazione esistenziale delle classi subalterne … insomma nell’identificazione con il pensiero contadino ribelle». Tanto è vero che le cronache narrano che spesso furono le donne a provocare le ribellioni e a scendere in piazza per prime, specie se alla base della protesta c’erano motivazioni economiche e sociali. Così diventa chiaro il perché alle donne dei briganti si addossò, oltre a quella del libertinaggio, la colpa di violenze e di brutalità: queste dicerie servivano a denigrare quelle donne che avevano infranto una vecchia mentalità patriarcale.
Ma, a parte questa considerazione, dai racconti e dalle testimonianze di queste giovani donne brigantesse trasuda una loro volontà di autonomia, una loro vocazione alla libertà e alla parità di condizioni col genere maschile che la normale vita quotidiana di allora certamente non avrebbe consentito loro.
E per qualcuna ci furono momenti in cui le sue capacità, il suo coraggio, forse anche un eccesso di spavalderia, le permisero, se non di superarlo, di eguagliare l’uomo. D’altra parte, pur se l’essere la donna (o la druda come si legge nei verbali della polizia o negli atti dei processi) del capo della banda le dava una certa protezione, dobbiamo pensare che quelle giovani donne erano costrette a vivere in promiscuità con un gruppo di uomini che certamente non erano ben educati, né tanto meno così emancipati da considerare la donna come persona, in quanto il concetto di subalternità femminile faceva parte di una cultura generale condivisa da tutte le classi sociali. Insomma, una certa coscienza di poter svolgere un ruolo non gregario nelle comunità in cui vivevano ce la dovevano avere.
Paradossalmente, però, lo scopo che le giovani ribelli si ripromettevano di raggiungere non era quello della gloria guerriera o della notorietà mondana: finita l’epopea brigantesca, scontate le pene più o meno lunghe, quasi tutte finirono per sposarsi e ad avere una vita tranquilla, per alcune misera per altre un po’ più agiata, fino agli ultimi loro giorni. Non era stato dunque il desiderio di imprese epiche a farle correre alla macchia ma quello di una vita domestica dignitosa e priva di stenti. Questa ipotesi è avanzata palesemente da Romano che apre il primo capitolo del suo libro parlando del funerale di una anziana signora, vedova del signor Valperga, «un agiato commerciante borghese» di Torino, che altri non era che la famosa Filomena Pennacchio, nota alle cronache come “la regina delle selve”, ovvero una ex brigantessa meridionale.
L’intento di Romano non è quello di voler raccontare le imprese delle bande ribelli, la sua attenzione, invece, è attratta dal tipo di vita quotidiana che quelle donne furono costrette a trascorrere alla macchia una volta deciso di intraprendere la via della ribellione; lavorando con pazienza certosina sui verbali degli arresti e degli interrogatori e sulle carte processuali riesce a ricostruire le difficoltà, decuplicate rispetto a quelle degli uomini, che le donne dovettero superare. Per averne un‘idea basta leggere le considerazioni di Raffaele Nigro che Romano riporta a p. 43 del suo libro: «Penso talvolta alle difficoltà che incontravano ad ogni giro di luna, quando una donna ha bisogno di riposare, di lavarsi, di appartarsi per rispondere ai richiami del corpo. Penso agli squilli di tromba della forza che si appalesa da qualche parte della montagna, la necessità di saltare a cavallo e dileguarsi o reagire».
C’erano, purtroppo, anche situazioni più drammatiche, quali quelle di affrontare una gravidanza vivendo alla macchia, partorire in luoghi insicuri, come una grotta, oppure affidandosi a famiglie e a donne di paese che prestavano la loro opera per denaro ed erano pronte a tradirle, tanto che qualcuna, come Maddalena Cioffi, per partorire in condizioni meno precarie, preferì fuggire dalla banda e costituirsi alla giustizia. E poi c’era il problema dei figli, non solo dei neonati, ma anche dei bambini, spesso portati “alla ruota” o nei brefotrofi o addirittura abbandonati; qualcuno, rimasto nella banda, dopo una retata, finì anche in carcere, “per reato di parentela”, scrive Romano. Di quest’ultimi, molti furono affidati a istituti appositi o a famiglie; ma di essi non è rimasta traccia perché volutamente, dobbiamo pensare, la loro esistenza si svolse nel più profondo anonimato, una condizione che permise loro di alleviare le difficoltà delle proprie esistenze.
La guerra, perché di una forma di guerra civile si trattava, tra lo Stato e le bande fu dunque feroce. Oggi ci si divide nell’attribuire la responsabilità delle azioni più disumane agli uni o agli altri; ci si dimentica, però, che da una parte c’erano l’esercito e i tribunali speciali, c’era l’organizzazione logistica dei militari; dall’altra parte si trovavano gruppi di sbandati che vivevano in condizioni precarie e che, ovunque braccati, si spostavano da un luogo all’altro per sfuggire allo scontro armato o all’arresto. Quello Stato che avrebbe dovuto accoglierli e farli diventare suoi cittadini li trattava da nemici. E non solo con la repressione militare e le fucilazioni nelle piazze come monito per gli altri, ma anche con l’oltraggio e il dileggio dei loro corpi, grazie anche alle prime esperienze fotografiche che li riproducevano, già cadaveri, come fossero ancora vivi, badando, prima del ritratto a rivestirli con abiti non propri, ma di borghesi, per delegittimare qualsiasi motivazione sociale del loro ribellismo contadino, con un uso pornografico, scrive Romano, sia della loro vita che della loro morte: essi erano fotografati «se vivi, dentro ad una gabbia come animali da zoo, se morti come trofei di una caccia spietata».
Ciononostante, le loro gesta, a torto o a ragione, sono diventate l’epopea delle classi subalterne grazie alle «narrazioni popolari, veicolate da racconti orali paesani e dai cartelloni dei cantastorie, [che] avevano finito per collocarle nel mito … che resiste anche all’ingiuria del tempo». Tanto che alcuni sedicenti meridionalisti, credendo che i fatti di quelle narrazioni fantasiose siano storicamente avvenuti, parlano dei briganti come antesignani del Che Guevara [3].
Che le cose andassero diversamente da quello che poi hanno raccontato gli storici ufficiali e i poveri versi dei cantastorie, se ne accorsero anche alcuni che furono a capo della repressione. Antonio Vismara da Vergiate, che aveva fatto parte dei tribunali militari creati per reprimere il fenomeno del brigantaggio, così scrive in un suo libro:
«Che criterio potrà ora la plebe formarsi del governo, se vede i suoi funzionari violare impunemente la legge, maltrattare le popolazioni, usare il bastone o lasciandosi trascinare da vituperevoli appetiti di vendetta o di libidine? […] Io penso che la moralizzazione della plebe abbia un’influenza maggiore a diminuire i reati e specialmente di brigantaggio, ma la moralizzazione non può camminare che parallelamente alle riforme sociali. I rimedi eroici non valgono per tutte le malattie. Il sangue non soffoca il sangue: con mezzi illegali non si calpesta l’illegalità» [4].
Le malinconiche considerazioni del Vismara, tuttavia, non trovarono ascolto nella politica post-unitaria, nonostante molti capi di governo e ministri, provenendo dalle province meridionali, fossero a conoscenza delle condizioni di vita di chi abitava in quei territori: seguendo le linee di uno sviluppo basato essenzialmente sull’economia di mercato, da nessuno contrastate fino alla conclusione della Seconda guerra mondiale, tutti i governi succedutisi dal 1861 al 1948 hanno lasciato che il Meridione si trascinasse faticosamente dietro le regioni più prospere, fornendo a queste la manodopera necessaria alla crescita economica. Col beneplacito di tutte le classi dirigenti meridionali. C’è da aggiungere, purtroppo, che anche dopo il 1948 le situazioni non sono gran che mutate: occorre che tutto cambi perché tutto resti come prima.
Carlo Levi dice correttamente che il brigantaggio, se si accetta l’ideologia liberale del Risorgimento, non può essere difeso: quell’ideologia aveva un disegno importante da attuare, quello di costruire uno Stato moderno, capace di competere a livello economico con gli altri Stati europei formatisi già nei secoli precedenti. Il processo, però, sarebbe stato effettivamente unitario e “nazionale” se fosse stato fatto un tentativo serio di affrontare fino in fondo, proprio in nome di quel liberalismo che voleva essere democratico e progressista, gli aspetti di quella che sarebbe stata chiamata la “questione meridionale”. Abituate alla pigrizia bigotta del regime borbonico, le genti del Sud reagirono come poterono davanti alla legge che impediva loro di esercitare le consuetudini che per secoli avevano permesso loro di sopravvivere pur nella più squallida miseria materiale e culturale. Briganti non si nasce, ma si diventa se non si hanno risposte positive ai bisogni primari e non sono praticabili altre vie. Non credo che i politici del Nord e del Sud non comprendessero i problemi drammatici del Meridione, causati e rappresentati dalla resistenza del latifondo che procurava redditi solo per chi lo possedeva, da una classe dominante restia a procedere a riforme economiche e sociali, dalla mancanza quasi totale di strutture sanitarie e igieniche, dall’assenza di qualsiasi istituzione scolastica elementare, da un’ impossibilità di muoversi nel territorio perché non c’erano strade e tantomeno ferrovie. Le inchieste promosse dal Parlamento italiano, come quella più importante diretta da Stefano Jacini, ci testimoniano che la conoscenza dei problemi c’era ma ad essa non corrispondeva la volontà politica di risolverli. Per non parlare dei meridionalisti, di quei politici, cioè, sociologi e intellettuali che spesero le loro energie a illustrare i problemi di quelle regioni e ad indicarne le soluzioni, ma che non furono mai ascoltati.
Fu invece presa la strada più semplice ma anche la più disastrosa perché non offriva prospettive di uno Stato futuro capace di costruire una società in cui tutti i cittadini, dal Nord al Sud, avessero uguali diritti e doveri: con la sola repressione, scriveva il Vismara, non si risolvono le questioni sociali. E dopo più di centosessanta anni molte di quelle questioni ce le ritroviamo come eredità, ancora aperte e purtroppo, come certe piaghe, incancrenite e imputridite tanto da renderne difficile qualsiasi tentativo di guarigione.
Il libro di Romano, non parla di questi aspetti politici generali, ma mette in mostra una messe copiosa di notizie, a volte così piccole da essere invisibili a chi crede che la storia sia fatta solo di grandi avvenimenti e non anche delle minuzie quotidiane. Le informazioni che con la sua ampia e puntuale indagine Romano raccoglie sulle vicende di qualche centinaio di ragazze meridionali, protagoniste di una straordinaria trasgressione, ci consentono di mettere in chiaro le varie posizioni in campo: da una parte il Piemonte liberale che impone la sua egemonia senza badare ai danni culturali e politici che la sua azione avrebbe procurato; dall’altra le “vittime” che non trovano di meglio di contrapporre all’ideologia liberale ottocentesca, concezioni e sistemi politici definitivamente spazzati via dalla Rivoluzione francese. Nello stesso tempo, ricostruendo minutamente la vita quotidiana delle brigantesse e dei loro compagni, Romano ci dimostra che, anche se qualcuno di loro innalzava le insegne che erano state del movimento sanfedista, il fenomeno del brigantaggio non fu che la disperata lotta di chi in fondo anelava a sconfiggere la fame endemica e ad acquisire una vita dignitosa.
In questo modo, l’Autore del libro, partendo dal livello più basso della storia, aiuta i lettori sia a ricostruire il quadro sociale politico e culturale dentro il quale si svolse la vicenda del brigantaggio, sia a riconoscere tutte le contraddizioni presenti nel processo politico con cui si attuò l’unificazione della Nazione italiana.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1963: 129-130.
[2] E. Del Carria, Proletari senza Rivoluzione. Storia delle classi subalterne in Italia, Savelli, Roma 1975; F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1974; A. De Jaco, Brigantaggio meridionale, Editori Riuniti, Roma 1979.
[3] A. Mammone, Il mito dei Borbone. Il Regno delle Due Sicilie tra realtà e invenzione, Mondadori, Milano 2024.
[4] Sul ribellismo e sul banditismo come forme primitive di rivolte sociali e sulla visione che di essi hanno le classi popolari molto ci ha insegnato Eric Hobsbawm con I banditi (Einaudi, Torino 1971) e I ribelli (Einaudi, Torino 1974). Naturalmente i briganti di cui ci parlano gli scritti dei neo-borbonici appartengono ai sogni e ai deliri di chi si posiziona al di fuori della realtà storica.
[5] Il brano è riportato dal Romano a p. 67; esso è tratto dall’opera di A. Vismara de Vergiate, Cipriano e Giona La Gala o i misteri del brigantaggio, Napoli 1865.
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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. É stato edito nel 2023 dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.
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