speciale cirese
di Settimio Adriani
C’è una connessione fantastica, mai sostanziata, tra l’antropologo Alberto Mario Cirese e il borgo di Fiamignano (RI). I pilastri del ponte che sorreggono il collegamento virtuale sono rappresentati da due riti di antica memoria, per alcuni aspetti molto simili e quasi sovrapponibili tra loro, per altri distinti e singolari.
Uno è la Pagliara maje maje, studiata da Cirese nell’area di Fossalto (CB) e resa nota intorno alla metà del secolo scorso (Cirese 1955; 1991); l’altro è il Saìnu (Adriani & Morelli 2018: 216), rintracciato a Fiamignano e ancora non adeguatamente divulgato [1]. È sul confronto tra le forme e i canovacci delle due figure, ma soprattutto sulla descrizione della seconda, non intesa come banale replica ex situ dell’altra, che si vuole strutturare la campata del ponte mancante.
Le tracce residuali di prima mano del Saìnu sono state raccolte nel corso del tempo, e derivano dagli ultimi detentori della memoria che hanno vissuto l’esperienza diretta della rappresentazione. Non essendo pervenute immagini, la Pro Loco di Fiamignano, al fine di realizzare alcune tavole di Antropologia visiva didascalica, ha azzardato un’interpretazione grafica postuma del rito commissionando a Silvia Verzilli, giovane artista reatina, le raffigurazioni dei momenti salienti del canovaccio contestualizzati nelle forme e nei siti indicati dagli informatori.
Il Saìnu è un’antica figura allegorica della tradizione folcloristico/culturale fiamignanese che, analogamente alla Pagliara, si manifestava il primo maggio e introduceva la bella stagione. Per il mascheramento, a differenza di quest’ultima, veniva utilizzata esclusivamente la Ginestra odorosa di Spagna (Spartium junceum), in dialetto chiamata saìna, termine dal quale potrebbe avere origine il nome Saìnu. Secondo gli informatori [2], la totale copertura di ginestre conferiva al fantoccio una sagoma conica. Poiché testa, braccia e gambe del portatore erano occultati nel verde, la figura complessiva sembrava essere semovente.
«Le donne, dalle finestre – documentò Cirese (1955; 1991) anche per il rito molisano – gettavano acqua sul majo»; per il Saìnu, invece, si è accertato che utilizzassero una miscela di acqua e vino. Questa prima indicazione dimostra la similitudine, ma non la perfetta corrispondenza, tra il Saìnu e la Pagliara (ibidem). Secondo una recente testimonianza [3], il personaggio fiamignanese venne rappresentato con continuità fino alla metà del secolo scorso; Evandro Casella e Fabiano Pacilli sono ricordati come i portatori del 1950 e del 1951. In quel periodo il parroco don Esponio Ceccarelli (Adriani 2007: 77-109) iniziò a predicare con insistenza che quello del Saìnu fosse un rito pagano. Da allora, la tradizione andò via via scemando fino ad estinguersi.
Similmente a quanto accaduto alla Pagliara (Padiglione 1978: 107), la rappresentazione si è però protratta in modo assolutamente discontinuo fino ai primissimi anni ’70; fu Giovanni Evangelista l’ultimo a dare vita al personaggio [4]. Le più recenti acquisizioni indicano alcuni caratteri unici e salienti del Saìnu; le analogie e le differenze con la Pagliara emergono dal confronto dei canovacci.
Una prima differenza sostanziale è relativa ai materiali utilizzati nel mascheramento e nel loro reperimento. Se per la Pagliara Cirese (1955: 211) parla genericamente di «erbe e rami» ma nulla riporta sull’allestimento, forse ritenuto poco significativo, per il Saìnu si hanno maggiori dettagli. Oltre al già citato uso esclusivo della ginestra, emerge che il loro reperimento fosse rigorosamente affidato alle donne che raggiungevano in gruppo i siti di raccolta, selezionavano i fiori più lussureggianti e già precocemente sbocciati, li recidevano e li portavano in paese.
In un’area appartata sistemavano attentamente il materiale; con l’aiuto dei vimini, ciascun ramoscello veniva fissato alle circonferenze di raggio crescente di tralci o vitalba che componevano lo scheletro portante. L’allestimento era assai meticoloso perché se il risultato non fosse stato perfetto le operatrici sarebbero diventate oggetto di critiche e derisioni [5]. Alle donne era riservata anche la “vestizione”, ovverosia il posizionamento della sagoma conica sull’uomo che l’avrebbe portata in parata. Anche per questa operazione Cirese non riporta alcuna particolarità per la Pagliara.
La sagoma conica e la sfilata sono ulteriori elementi comuni ai riti del Saìnu e della Pagliara. Riguardo alla seconda Cirese (idem:207) scrive: «[la parata] consiste nel giro cerimoniale di auguri e di questua compiuto [dal portatore circondato] da un corteggio di cantori e suonatori». Nella parata fiamignanese non erano contemplati cantori e suonatori, mentre il corteggio era composto da una frotta di bambini questuanti (vd. oltre). Ad Acquaviva di Collecroce, nel Molise «le donne, dalle finestre, annaffiavano il majo» (idem: 211), rito che nel caso nostrano non si eseguiva «con acqua» ma con una miscela di acqua e vino.
Un’altra differenza si rileva nell’atteggiamento di rispetto verso l’atto di aspersione. Mentre la Pagliara «fuggendo con i suoi accompagnatori, cercava di sottrarsi al getto» (ibidem), il Saìnu non lo eludeva, anzi, restava in posizione continuando a ripetere la sua filastrocca («canto del maggio» nella Pagliara).
Sono state recuperate alcune nenie di memoria orale che forniscono ulteriori indicazioni più o meno esplicite sul Saìnu. Per brevità espositiva se ne analizzano due, selezionate per la significatività e la parziale analogia con il rito della Pagliara. Prendendo in prestito da Alberto Mario Cirese (idem: 207-224) l’introduzione al canto della Pagliara, riporto la cantilena dei bambini questuanti col Saìnu in parata, «ecco ora il testo [della filastrocca] quale ho potuto raccoglierlo da vari informatori:
Ranatélli, ranatélli
pé’ li róssi e li monélli
sémo tanti e sémo bélli
ranatélli, ranatélli»
Il termine ranatélli sintetizza l’usanza fiamignanese di lessare il granturco (talvolta insieme ai legumi) per distribuirlo ai bambini questuanti di casa in casa, originariamente proprio durante la parata del Saìnu. Per qualche tempo, la tradizione dei primi è sopravvissuta al secondo, rendendosi progressivamente autonoma e protraendosi in tal modo fino alla fine degli anni Settanta.
Anche il majo di Montelongo è «legato al corteo di una “reginetta” di maggio» (idem: 215). Durante tale rito i «figliuoli» chiedono che venga loro gettato qualcosa da mangiare; a Fiamignano, invece, i bambini non attendono all’esterno ma entrano nelle case e questuano i ranatélli. La seguente strofa in consonanza [6] è il refrain cantilenato dal portatore dinnanzi all’uscio delle abitazioni raggiunte dalla parata:
Mó che ‘u sòle vence ‘e stelle
latte a fiumi dalle stalle
scia tant’erba nelle crasce
fa alle térri ‘ó ranu cresce
c’è chi còa tra le fratti
e ‘gni ventre mostra i frutti
fòre ‘e léna dalle macchie
l’ora è guàsci delle mùcchie
San Fabiànu ‘ó séo l’ha fattu [7]
questa è l’ora ‘é stasse fittu
accommànno a quella ‘é Póggiu: [8]
‘a recòta mai più a péggiu
I primi dieci versi decantano gli aspetti più attesi della primavera: la luce prevalente sul buio, l’auspicio di abbondanza e perpetuazione dello alimento per gli animali e gli uomini, la fine del brutto tempo. L’elemento apotropaico della filastrocca, ovverosia l’affidamento degli auspici alla Madonna del Poggio, è riunito negli ultimi due versi.
La strofa è stata ricomposta, nel tempo e con difficoltà, col contributo talvolta frammentario di più informatori che non sempre concordavano sui testi. L’ultimo verso benaugurale, ad esempio, è stato ulteriormente riferito come rivolto non alla raccolta bensì alle famiglie:
a ‘sta casa mai più ‘ó péggiu
In ogni caso, «‘a recòta» o «a ‘sta casa» che sia, appare evidente l’augurio di una buona sorte. Ad Acquaviva e San Felice il majo riceveva la benedizione del parroco, ma non era ammesso in chiesa (idem: 213); a Fiamignano i rapporti del clero col Saìnu erano di aperta avversione e mistificazione. La partecipazione delle autorità politiche, ecclesiastiche e delle forze dell’ordine ai riti religiosi era ed è ancora assolutamente dominante. Nelle processioni è riservata loro una posizione centrale, prossima ai simulacri, in bella vista. Nessuna di queste figure istituzionali partecipava al rito del Saìnu.
Anche la sorte del fantoccio, alla fine del rito, accentua la diversità tra le due tradizioni. Mentre la Pagliara veniva bruciata, il Saìnu poteva essere conservato, sistemato e riutilizzato l’anno successivo, anziché andare incontro alla medesima sorte dell’altra, in virtù del grado di realizzazione delle “promesse augurali” fatte alla popolazione durante la parata.
Altra singolarità del Saìnu, non riscontrata nella Pagliara, è data dall’inversione dei ruoli di genere che ricordano il carnevalesco “mondo alla rovescia” (Sanga 1982: 5): le donne preparano il fantoccio (allegoria dell’inseminazione) e gli uomini lo portano (allegoria della gravidanza).
Molti degli elementi accennati meriterebbero di essere integrati e approfonditi. Resta il rammarico che Cirese, pur risiedendo per lungo tempo a pochi chilometri, non si sia occupato delle tradizioni cicolane. Al suo tempo, il rito del Saìnu era ancora parzialmente in vita; se lo avesse studiato e valorizzato, come ha fatto con la Pagliara di Fossalto, probabilmente si sarebbe potuto perpetuare. Chissà quanti e quali meravigliosi risvolti avrebbe narrato la campata che non c’è, se le conoscenze su entrambi i pilastri del ponte tra Fossalto e Fiamignano le avesse avute Alberto Mario Cirese.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] Elementi preliminari sono stati pubblicati nel 2018, quando le indagini non erano ancora concluse.
[2] Fausto Adriani, operaio e casaro (1924-2017); Umberto Marcellini, daziere (1915-2004) e Adriano Adriani, commerciante (1922-2021).
[3] Vittorio Capparella, istitutore (1948).
[4] Franco Di Giampasquale, tecnico aeronautico (1947). Analoga sorte ha vissuto la Pagliara molisana. Già nel 1978 Vincenzo Padiglione scriveva: «[Nei paesi] Acquaviva, Collecroce, Montemitro, San Felice del Molise, tutti nella provincia di Campobasso [...], l’usanza è stata ormai abbandonata da più di 60 anni».
[5] Paolina Di Pascasio, contadina e casalinga (1910-1998); Maria Casella, casalinga e bidella (1922-2006) e Annamaria Marcellini, contadina e operaia (1931-2005).
[6] Adriano Adriani, famiglia Bagarìnu, commerciante (1922-2021); Francesco Calabrese, famiglia ‘é Peciàra, contadino e casaro (1933-1988); Adelmo Di Giampasquale, impiegato (1920-2003) e Umberto Marcellini, daziere (1915-2004).
[7] San Fabiano e San Sebastiano sono i patroni di Fiamignano, si festeggiano il 20 gennaio e qui rappresentano l’inverno.
[8] La Madonna del Poggio è la principale festa religiosa del paese, si festeggia il 2 luglio e qui rappresenta l’estate.
Riferimenti bibliografici
Cirese A.M., La ‘pagliara’ del primo maggio nei paesi slavo-molisani, «Slovenski Etnograf», 8, 1955.
Cirese A. M., La pagliara maie maie, La Lapa, III, 1-2, 1955: 33-36, in Cirese E. (a cura di), La Lapa. Argomenti di storia e letteratura popolare (1953-1955), Isernia, Marinelli, 1991.
Adriani S., Morelli E., A cócchiu de ciammòtta. Documenti e ipotesi sulla storia e la tradizione di un’eccellenza gastronomica del comune di Fiamignano, Rieti, La Tipografica Artigiana, 2018.
Adriani S., Dal pulpito e dai pascoli. Cenni di storia recente e cronache paesane tra il 1917 ed il 1966, con il commento delle comari, Rieti, La Tipografica Artigiana, 2007.
Padiglione V., Al di là del folklore, Bergamo-Bari-Firenze-Messina-Milano-Roma, Minerva Italica, 1978.
Sanga G., Personata libido, «La Ricerca Folklorica», 6, 1982.
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Settimio Adriani, laureato in Scienze Naturali e Scienze Forestali, si è specializzato in Ecologia e ha completato la formazione con un Dottorato di ricerca sulla Gestione delle risorse faunistiche, disciplina che insegna a contratto presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo (facoltà di Scienze della Montagna, sede di Rieti) e ha insegnato presso le Università degli Studi “La Sapienza” di Roma (facoltà di Architettura Valle Giulia) e dell’Aquila (Dipartimento MESVA). Per passione studia la cultura del Cicolano, sulla quale ha pubblicato numerosi saggi.
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