di Valeria Dell’Orzo
L’immagine della migrazione, che mediaticamente fa eco nelle menti, è quella di una diaspora dalla pelle scura e dagli occhi profondi d’Africa. Ma la realtà del fenomeno dell’esodo diffuso, nel suo insieme, è molto più ampia, regolata da meccanismi per molti aspetti diversi, da dinamiche differenti e nondimeno da un comune senso di intima impossibilità di permanere entro i propri ideologici confini socio statali.
Spostarsi, migrare, calpestare una terra nuova, camminare per nuove strade: il nomadismo è un fenomeno radicato e persistente, un tratto che endemicamente caratterizza l’essenza sociale dell’uomo e che al pari del suo muoversi si evolve e si riadatta diventando, oggi come in altri storici momenti chiave, un diffuso evento di mobilità transnazionale. Il fenomeno migratorio, nel quale per alcuni decenni avevamo smesso di essere massicciamente partecipi, è tornato a vederci attori in movimento su un vasto palco, un movimento capillare che da ogni angolo del nostro Paese parte per punteggiare le nuove mete della speranza.
I motivi, le ambizioni e le condizioni del migrare, sono cambiati nel corso dei tempi; si lasciava, negli anni della scoperta, la propria casa verso ignote realtà, magnificate dall’aspettativa e dai racconti di chi era già andato via; si tentava la fortuna lavorando in soffocanti miniere o in spasmodiche catene di montaggio. Oggi si parte portando con sé una collezione di certificati e attestati, di curricula tradotti in più lingue, di speranze e di quelle ambizioni che la realtà del proprio Paese ha negato dopo anni di frustranti promesse disilluse. Si parte, così, non con la necessità del sopravvivere, spesso tenacemente garantita da un sistema di assistenzialismo familiare storicamente consolidato, ma con la necessità, ugualmente umana, di affermare il sé e di concretizzare gli investimenti personali, di tentare di rendere effettivo il muoversi e il raggiungere la solidità entro il solco tracciato quale proprio percorso di vita, trasformato, dalla trasversale organizzazione statale, in un fantoccio mobile, bello e irraggiungibile. Si parte, allora, con la malinconica fame di superare il muro dell’impossibilità che sempre più alto si erge di fronte alle prospettive paventate all’inizio del tragitto; si vive lo scollamento dalla propria dimensione con il rammarico di una scelta che, pur non essendo inevitabile al pari della fuga da atroci, drammatiche realtà internazionali, si rende comunque sordamente necessitata, come atto di rispetto verso se stessi e di responsabilità verso il proprio nucleo.
Una migrazione di questo genere, la nostra migrazione interna, origina, dunque, fenomeni di inserimento, di permanenza e di ritorno difformi, sul piano pratico e su quello emotivo, rispetto a quelli più indagati della migrazione altra, meritando, al pari di questa, attenzione e ricerca. Lo studio della migrazione richiede, così, l’osservazione del suo dimorfismo interno, che nella realtà odierna vede al contempo due grossi movimenti, uno di esodo verso l’esterno, e uno di spostamento interno. Oggi, mentre lungo le coste europee i reporter testimoniano i fragorosi sbarchi, un movimento formicolante degli europei all’interno della stessa Europa sposta quei rocciosi confini immaginari, senza scalpore, pieno di amaro rammarico e soffocate speranze, piove silenzioso e autunnale un reticolo umano alla ricerca di salvifici appigli, di improbabili varchi.
Quale elemento vivo della natura umana, la migrazione muta seguendo le condizioni storiche, geografiche e socio-antropologiche; la diversità di motivazioni iniziali, le differenti prospettive e aspettative, portano a diverse frustrazioni di arrivo e a diverse dinamiche, collettive o personali, volte a esorcizzare il malessere che la migrazione, più o meno tacitamente, porta comunque in sé. Partire non è quindi solo il più discusso aggrapparsi a una possibilità di salvezza da avverse condizioni interne, ma è altresì l’arrampicarsi per non scivolare nel baratro della stagnante attesa che corrode e vanifica investimenti personali e illusioni universitarie. L’esodo dei poco goliardici cervelli in fuga continua a scorrere inesorabile e silente.
L’antropologia delle migrazioni diventa quindi anche antropologia del noi, rendendo necessaria la ricerca di nuovi strumenti di analisi e di nuovi modelli interpretativi che orientino correttamente le tradizionali traiettorie dello sguardo e ne potenzino le virtualità euristiche. «Non è certo facile realizzare un programma di antropologizzazione della nostra società. E questo non soltanto per le difficoltà di superare in qualche modo il fiume storico della modernizzazione, ma anche perché quella società siamo noi» (Remotti 1999: 97).
Coloro che cercano di salvarsi dal fagocitante oblio della propria realtà socio-statale siamo anche noi, attori del nomadismo contemporaneo, indotti quindi, nello studio del fenomeno, a adottare uno sguardo introspettivo e una narrazione autobiografica. Noi è, però, «il soggetto più riluttante e recalcitrante nei confronti dell’antropologia. Noi facciamo antropologia degli altri, passando attraverso gli altri ma arretriamo di fronte all’avanzare verso “noi” dell’antropologia, opponendo ostacoli e producendo forme di opacità che ci salvaguardino. L’antropologia del “noi” è uno svuotamento del “noi”, in quanto trasforma “noi” in “altri” (ibidem), e questo crea disagio in chi ricerca e in chi, appartenendo a quello stesso noi, vede indagate la propria realtà. L’antropologia del noi fa paura, impone di vedere e permette agli altri di vederci, ci spoglia, indaga nell’intimo che non vuole essere svelato.
Di fronte a quella che istintivamente viene percepita come una violazione della sfera privata del sentire, le reazioni di difesa del sé tendono a differenziarsi in due grandi gruppi a secondo della cangiante e polimorfica varietà interna di espressione: c’è la negazione che può essere un mero voltare lo sguardo, il non vedere che si chiude alla paura di riconoscersi, o un palesato dissentire che porta spesso sfumature personali a vessillo di una realtà più grande e articolata nella quale si è immersi, e poi c’è l’aggressione che ancor di più dichiara il grado di profondità dell’indagine dentro il noi, che in maniera più manifesta svela quei nodi dolorosi che ciascuno tende a tenere serrati in profondità e celati al mondo esterno.
L’antropologia del noi ci costringe a fare ricorso a quei baluardi di difesa che ciascuno costruisce nei confronti della propria realtà personale, con maggiore solida inviolabilità verso ciò che ci è più doloroso. L’indagine riflessiva della migrazione, non altrui dunque ma personale, diventa così una leva che preme per tirar fuori quello che si tenta di sopportare attraverso una costruzione altra della realtà. Una realtà che si concretizza in un pur sempre amaro migrare dalla propria dimensione socioculturale, per scelta indotta e per coerenza col proprio percorso di impegno e speranza, riformulandosi come abitante di una terra nuova. Lo strumento antropologico che volge il suo occhio verso la nostra più appartata intimità, ci spoglia dell’armatura immaginifica e ci consegna nudi al nostro stesso sguardo, mostrandoci quelle asperità che volevamo tacerci. Si aprono delle crepe lungo il bozzolo protettivo che l’invenzione della propria dimensione e il racconto eletto a nostra realtà rappresentano, lasciandoci intravedere quanto vi abbiamo chiuso all’interno, lontano dall’osservazione propria e altrui. Così, se l’invenzione del noi ci rassicura portandoci a un sopito stato di Cosmos, l’antropologia del noi intacca questo esoscheletro, trascinandoci in fragili e inquietanti momenti di Caos. È compito dunque della comunità antropologica trovare il modo di rendere meno dolorosa, anche per se stessa, la pratica antropologica che ci indaga e ci scava internamente, senza per questo allontanarsi dal compito oggettivo di conoscere e di studiare le evoluzioni contemporanee, così ricche e così dense.