di Sergio Todesco
Se volessimo definire la fotografia facendo ricorso a un’espressione scientificamente corretta, potremmo dire che essa è «una serie di metodiche atte ad ottenere immagini mediante l’azione della luce su determinate sostanze» (Scaramella). Tale definizione, ancorché utile sotto un profilo tecnico, non ci conduce in realtà molto lontano nella comprensione del documento fotografico; se dunque assumiamo tale prospettiva come mero punto di partenza valevole a farci sperimentare altri percorsi ermeneutici, la pratica fotografica ci si rivelerà essere, tra l’altro, l’esito di un’arte e di una tecnica volte a presentificare universi culturali da noi lontani nello spazio o nel tempo.
In forza di cos’altro se non appunto di tale strategia eminentemente umana, sottesa alle dinamiche del ricordo e della memoria, le fotografie antiche sprigionano un’aura che è sopravvissuta all’opacità degli sguardi moderni che ancora su di esse si dispiegano? Anche chi non coltivi particolari interessi derivanti da una pratica professionale o da esigenze di studio scientifico, raramente riesce a sottrarsi al fascino che promana da uno sguardo ingiallito che attraverso la carta e i sali giunge a noi, qui e ora, saltando a piè pari spazi e tempi insormontabili prima di tale invenzione. Sembra quasi che una magia, o un sortilegio, ancora attirino i nostri occhi di persone in carne e ossa a quegli occhi che già prefigurano, nelle screpolature del fragile supporto materico che li tiene in vita, l’effimero loro futuro.
La fotografia è infatti un sistema di segni utile a ritessere la trama di una cultura, antropologicamente intesa, della quale attraverso altri strumenti di indagine è dato a volte cogliere le mere emergenze, le sfrangiature, i massi erratici. I temi legati al territorio, alla storia e al divenire sono talmente consustanziali alla fotografia che potrebbe apparire una banalità o un truismo porvi un accento particolare. In realtà, la storiografia contemporanea ha da tempo (per lo meno a far data dall’esperienza delle Annales) messo in luce l’importanza dello studio della vita privata ai fini di una conoscenza meno superficiale, sottratta come tale ai luoghi comuni della histoire événementielle, delle dinamiche sociali. L’ambito domestico e quotidiano, in tal modo riscattato dalla condizione di esclusiva pertinenza dei romanzieri per assurgere a oggetto di indagine socio-antropologica, ha così dispiegato tutte le proprie potenzialità in ordine al rischiaramento delle zone d’ombra della storia (“Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? / Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. / Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?”, scriveva Bertolt Brecht).
Per rimanere a contesti a noi vicini, è indubbio che un’analisi della società siciliana, quale essa si è mantenuta fino alla soglia della perniciosa mutazione degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, non possa prescindere da un’accurata opera di scavo condotta sulle istituzioni e sui luoghi di elaborazione dei modelli culturali e dei valori che tale società esprimeva, nonché sul loro concreto funzionamento nella vita quotidiana. I documenta di questa storia sono nascosti all’interno di atti notarili, di memoriali, di diari, di epistolari, e di fonti siffatte si nutre ormai regolarmente l’indagine storica; solo oggi tuttavia iniziamo a prendere coscienza della forte pregnanza ermeneutica del documento fotografico.
A condizione che tale documento venga sottoposto agli opportuni procedimenti di filtraggio volti a diminuire la naturale distorsione dello sguardo, esso si rivela infatti strumento prezioso per misurare di una determinata cultura la dimensione sociologica e insieme le strutture profonde, il tempo storico e quello mitico, i soggetti e le loro strategie di oggettivazione. Proprio per lo speciale rapporto che esiste tra fotografia e immaginario, tale pratica, e i frutti storicamente determinati di essa, risultano essere in conclusione strumenti imprescindibili di lettura e decrittazione del reale.
Si potrebbe dunque provvisoriamente proporre per le fotografia la seguente definizione, non già contrapposta quanto piuttosto complementare a quella sopra riportata: Al pari dell’antropologia, la fotografia è lo sguardo che la modernità rivolge agli angoli di mondo.
Si può assumere il territorio nella sua accezione di spazio fisico, e allora i rapporti tra fotografia e territorio saranno quelli che intercorrono tra un medium che consente la registrazione di una determinata realtà e la realtà stessa. Si può viceversa considerare il territorio come spazio culturale e mentale, e in questo caso i “territori” della fotografia saranno i molteplici linguaggi che la sua pratica è in grado di dispiegare, e ha storicamente dispiegato, in dipendenza delle diverse determinazioni di spazio, tempo e struttura sociale entro le quali essa si è trovata a operare, e delle correlative forme di cultura proprie di tali contesti.
La fotografia è l’esito più peculiare di quel passaggio epocale dalla prospettiva matematica e geometrica a quella psicologica della modernità, verificatosi a partire dalla prima metà del XIX secolo ma già anticipata da sperimentazioni ottiche che possono esser fatte risalire ad almeno due secoli prima (ad es., la lanterna magica di Athanasius Kircher). Lo studio delle illusioni ottiche e tutti gli studi sulle incongruenze dell’occhio rispetto alla presunta oggettività del reale demoliscono in pochi decenni l’idea del visibile come spazio omogeneo e immodificabile in dipendenza di chi lo percepisca, e sanciscono la visione quale atto irripetibile di un soggetto che produce le immagini che guarda.
Si giunge insomma a capire che la visione è qualcosa che nasce dentro il corpo umano, e non un prodotto della realtà esterna. La frattura intervenuta tra visione e percezione ha fatto sì che ogni prodotto della fotografia fosse non già una restituzione fedele e pedissequa della realtà esterna, bensì sempre – in qualche misura – l’elaborazione “interna” di uno stimolo esterno, che come tale per propria natura non può che essere culturalmente condizionata.
Come conseguenza di quanto si è detto, la distinzione sopra proposta appare problematica, in quanto ogni attività di messa in forma basata sulla creazione di immagini attraverso la luce è solo apparentemente “neutrale” (nel senso che l’operatore non farebbe altro che registrare una realtà di per sé esistente), posto che, come hanno da tempo accertato storici e sociologi della fotografia, le scelte del fotografo sono determinanti nella resa del prodotto finale, tanto sotto il profilo tecnologico (caratteristiche dell’apparecchio) quanto avuto riguardo alle opzioni sul soggetto, sull’inquadratura, sui tempi di posa, sull’apertura del diaframma etc., insomma alla complessiva organizzazione degli elementi che concorrono nella composizione dell’immagine fotografica. Anche la “fotografia del territorio” è un “territorio della fotografia”.
Il territorio della fotografia infatti è sempre, in qualche misura, immaginato e trasfigurato, non fosse altro che a motivo di un ulteriore scarto tra realtà e rappresentazione, già nel 1931 acutamente annotato da Walter Benjamin: «La natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente» (Benjamin 1966).
Le immagini di paesi, uomini e culture che i fotografi ci hanno trasmesso da centocinquant’anni a questa parte hanno pertanto una valenza che non pertiene esclusivamente l’ambito storico-documentario-testimoniale, né quello tecnologico-scientifico, né quello antropologico-culturale, ma tutti in qualche modo li riguarda tenendoli coesi. Attraverso la fotografia il territorio, le persone che lo abitano e le culture che lo attraversano, mostrano e tramandano i loro volti; volti che saranno sempre di nuovo ridisegnati in dipendenza degli sguardi che, in altri tempi e in altri contesti, su di essi potranno dispiegarsi. Alla base di gran parte della produzione fotografica concernente il territorio va dunque riconosciuta come preminente l’esigenza di uno sguardo antropologico rivolto alle forme di identità territoriale costruite nel corso dei secoli, agli angoli di mondo appunto.
Se questo è vero, lo è in grado eminente nel caso di quell’angolo di mondo che è Taormina, la cui identità si è sempre venuta delineando a partire dal suo rapporto con i diversi “sguardi” che su di essa si sono rivolti. Quali declinazioni hanno connotato gli sguardi altrui su Taormina? Due, sostanzialmente: la “storia” (i monumenti, le tracce del passato, le antichità, l’archeologia, il Grand Tour etc.) e la “natura” (il paesaggio, le bellezze naturali etc.). Forse un solo sguardo, quello di Wilhelm Von Gloeden, ha cercato di sintetizzare in un’ottica unitaria, attraverso l’icona dei nudi efebici e delle ambientazioni arcadiche, l’articolato palinsesto umano e territoriale espresso da Taormina nel corso della sua storia.
L’accostamento dialettico di tali elementi ha determinato nel corso del XX secolo l’insorgere di un particolare fenomeno, quello del turismo culturale, che inizia storicamente come forma di fruizione estetica (o, in alcuni casi, estetizzante) ma che ben presto degenera nella seconda metà del XX secolo, in concomitanza con l’avvento della cultura di massa, sortendo forme di “reazione” locale basate sulla “messa in vetrina”. All’onesta esibizione delle reciproche identità (che sta alla base di ogni corretto incontro tra culture) si è così venuta progressivamente sostituendo una fruizione onnivora e frettolosa, opera di un turismo annoiato e distratto che non riesce più a vedere l’altro ma si specchia nelle sue proiezioni fantasmatiche. Per approfondire tali questioni risultano estremamente stimolanti i saggi di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) e di Giorgio Agamben sulla “perdita” moderna dell’esperienza (Infanzia e storia).
Il dilemma in cui si trova oggi impegnata la comunità taorminese risulta in pratica essere il seguente: 1) riscoprire il proprio Genius Loci attraverso un’educazione permanente alle patrie culturali, ovvero 2) consegnarsi definitivamente ai processi di mercificazione che sempre più connotano la società globalizzata. Si tratta in ogni caso di scelte non indolori né prive di conseguenze per il futuro di questo luogo e per la sua “qualità”.
Nel comune sentire del nostro tempo si registra infatti, a tutti i livelli, un oscuro desiderio di recidere ogni legame con un passato avvertito come miserevole e vergognoso, o ancora più spesso la disinvolta assenza di qualunque sentimento del tempo. Il problema di declinare una qualche identità, per una società che ha espresso in passato forme tradizionali di cultura, comporta viceversa il tentativo di recuperare quelle forme non già in maniera rozza e immediata (quale, ad esempio, suggerisce il modello leghista, propugnatore di una chiusura egoistica e ottusa nel recinto della “piccola patria”) bensì attraverso una lucida e al contempo appassionata operazione di filtraggio consapevole di “ciò che è vivo e ciò che è morto” in ogni aspetto della vita associata del luogo.
Questa lunga premessa giova a render conto della proposta sull’opportunità di una congrua destinazione d’uso per il prestigioso Palazzo Ciampoli di Taormina, cui un finanziamento PO-FESR 2007-2013 ha assicurato, dopo decenni di colpevole abbandono, il completamento dei restauri parziali fino ad allora condotti e una piena funzionalità atta a trasformarlo in sede museale destinata, secondo le previsioni già espresse in un’antica delibera di Giunta, a museo civico etno-antropologico.
Esistono tutt’oggi a Taormina due pregnanti indicatori culturali, marcatori a vario titolo di un’identità che, pur costruita, ha finito col connotare questa cittadina e la percezione che di essa hanno avuto tanto i suoi visitatori quanto coloro che l’hanno abitata. Il primo di essi è costituito dalla nutrita serie di fotografie che Wilhelm Von Gloeden ha scattato a Taormina durante la sua lunga permanenza. Si tratta di foto di paesaggi, di persone, soprattutto di giovani efebi ritratti nudi o paludati in fogge classiche, al fine di ricostruire una sorta di Arcadia mitica che per il barone fotografo costituiva evidentemente un orizzonte culturale gratificante e pregno di valori simbolici.
Sul senso dell’avventura taorminese di Von Gloeden hanno scritto in tanti, e soprattutto, in una peculiare ottica antropologica, Francesco Faeta (1988) e Mario Bolognari (2013). In questa sede si rileva che negli anni ’90, durante il lungo periodo di direzione della Sezione per i Beni Etno-antropologici della Soprintendenza di Messina, chi scrive ha provveduto a sottoporre a vincolo l’apparecchio fotografico ottocentesco utilizzato da Von Gloeden, al fine di poterne assicurare la tutela e la successiva auspicabile pubblica fruizione. Il proprietario del manufatto, il taorminese Nino Malambrì, in quell’occasione si oppose a che il vincolo fosse esteso alla collezione – pure da lui posseduta – di foto autentiche di grande formato dello stesso Von Gloeden (circa trecento, timbrate a secco e firmate, oltre a un certo numero di lastre). Tale patrimonio si trova ancora a Taormina, nelle mani degli eredi del proprietario, nel frattempo deceduto.
Il secondo “marcatore d’identità” è rappresentato dalla collezione di oggetti di arte popolare siciliana appartenuta all’antiquario Giovanni Panarello e successivamente ceduta al Comune di Taormina. La collezione, già sottoposta a vincolo da chi scrive, costituisce una straordinaria famiglia di oggetti di eccezionale pregnanza artistica, estremamente preziosa ai fini di una ricostruzione dello svolgimento della cultura figurativa popolare in Sicilia. I materiali, dapprima esposti presso il prestigioso palazzo Corvaja a formare il “Museo Siciliano di Arte e Tradizioni Popolari” e successivamente all’interno della ex chiesa San Francesco di Paola, rivestono inoltre un valore testimoniale ai fini della conoscenza della particolare temperie culturale storicamente registratasi in un ambito antiquariale “privilegiato” quale quello taorminese dei primi settant’anni del secolo scorso, nella Taormina cioè di Wilhelm Von Gloeden e di Roger Peyrefitte, di D.H. Lawrence e dei gerarchi nazisti, ma anche di Luchino Visconti e dei divi hollywoodiani, che fu al contempo la Taormina per la quale transitava nel corso degli anni ’60 quell’infaticabile ricercatore di oggetti del mondo popolare siciliano che fu Antonino Uccello, il quale spesso riceveva in dono da Panarello manufatti di arte popolare che le sue scarse finanze non gli consentivano di acquistare.
L’iniziativa che nella seconda metà degli anni ’90 portò alla valorizzazione e pubblica fruizione di tale patrimonio ha consentito di conservare la concreta memoria storica di un passato importante per la storia civile e culturale del centro ionico e, più in generale, dell’intera Sicilia. Ciò non sarebbe potuto avvenire senza la disponibilità del proprietario delle raccolte, l’antiquario-collezionista Giovanni Panarello (figlio di un puparo girovago, Antonio Panarello) divenuto negli anni ’40 fine mercante di cose antiche, figura singolare di mecenate, anfitrione ed esteta (nella sua casa hanno transitato Henry Faulkner, Truman Capote, William Somerset Maugham, Jean Cocteau, Jean Marais, Andrè Gide, Bertrand Russell, Greta Garbo) che ha costituito per molti studiosi, fino alla sua morte avvenuta nel 2006, uno dei principali punti di riferimento per la conoscenza della vita e della cultura taorminesi negli ultimi tre quarti del XX secolo. Panarello, uomo di innato gusto estetico, aveva avuto la ventura di venire a contatto con gli oggetti di arte popolare quando questi erano ancora in qualche modo organicamente inseriti nell’universo culturale che li aveva storicamente prodotti. La sua lungimiranza è dunque consistita nell’intravedere assai anzitempo il valore figurativo e documentario che tale patrimonio avrebbe in seguito assunto.
La collezione comprende pregevoli raccolte di rilevante interesse etno-antropologico, con reperti di notevole rarità e bellezza relativi alle svariate forme assunte negli ultimi tre secoli dall’arte figurativa popolare siciliana. Si va dagli ex voto anatomici e dipinti (questi ultimi sono dei falsi realizzati negli anni ’50 dal pittore di carretti Domenico Di Mauro, ma di grande fascino naive) alle pitture su vetro, dalla statuaria devozionale (santi, Bambin Gesù e Madonne in legno, cartapesta, alabastro, cera, materiali misti) alla ceramica popolare (grandi piatti decorati, acquasantiere, lucerne sette-ottocentesche a figura umana), a una singolare galleria di grandi ritratti a olio di persone e gruppi di famiglia tipicamente isolani, dai ricami artigianali all’arte dei pastori (barilotti e borracce, conocchie e navette da telaio, stecche da busto e collari in legno inciso, bicchieri di corno etc.), ai pupi e ai carretti, alla ceroplastica, ai presepi (in cera, terracotta, avorio, madreperla, materiali misti). Tra le curiosità si segnalano per la loro arcaica bellezza un ex voto ligneo (Madonna con Bambino) e numerosi modellini in scala di varette processionali con i relativi santi, tutte opere otto-novecentesche di pastori del versante nord-orientale dell’Isola, nonché uno splendido diorama secentesco in ceroplastica dallo stesso Panarello attribuito alla moglie di Gaetano Giulio Zummo.
La proposta che è parso utile a chi scrive avanzare è quella di concentrare a Palazzo Ciampoli tanto il fondo Von Gloeden (apparecchio fotografico compreso) quanto la collezione Panarello, ormai esposta in un contesto alquanto incongruo. Si esplicitano in questa sede le ragioni di una tale auspicabile iniziativa.
Sotto il profilo della consapevolezza del proprio patrimonio culturale, Taormina ha registrato nel corso dell’ultimo sessantennio – forse in misura maggiore di quanto avvenuto nel caso di altre località turistiche – il traumatico passaggio da un turismo di élite, all’interno dei cui quadri concettuali l’intero territorio veniva percepito come “pittoresco” scenario naturale, a un turismo di massa, confuso e frettoloso, la cui cifra dominante, quella della fagocitazione onnivora delle merci (e tali vengono comunemente considerati anche il paesaggio e i beni culturali), ottunde di fatto qualunque comprensione del genius loci taorminese.
Anche a seguito di tale contraddittorio processo, Taormina stenta oggi a trovare una sua specifica identità, proprio perché non riesce a contemperare le giuste esigenze del mutamento con quelle, altrettanto sacrosante, della persistenza. Eppure, all’interno delle due collezioni sopra richiamate potrebbero essere conservate schegge di cultura in grado di fornire, in un futuro che si auspica non lontano, elementi di conoscenza e di emozione utili alla costruzione di un’identità possibile.
Si potrebbe affermare che finora Taormina è stata pensata, rappresentata e disegnata dai suoi viaggiatori. Forse è giunto il momento che i taorminesi stessi inizino a ri-pensarla, a rappresentarla, a ri-disegnarla. Se la comunità locale e i suoi amministratori sapranno attingere consapevolmente a tali giacimenti di memorie, allora forse si potrà pensare a una nuova primavera per questa città.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Riferimenti bibliografici
Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, 1979.
Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966.
Mario Bolognari, I ragazzi di von Gloeden. Poetiche omosessuali e rappresentazioni dell’erotismo siciliano tra Ottocento e Novecento, Reggio Calabria, Città del Sole, 2013.
Fernand Braudel (a cura di), La storia e le altre scienze sociali, Bari, Laterza, 1982.
Bertolt Brecht, Poesie e canzoni, Torino, Einaudi, 1961.
Hurbert Caspers, Taormina, la Sicilia e i tedeschi, in “Sicilia” n. 22, 1959: 17-27.
Giovanni Dall’Orto (a cura di), Von Gloeden ieri e oggi, Milano, Babilonia, 1993 (sulla collezione Malambrì di Taormina).
Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden. Per una lettura antropologica delle immagini, “Fotologia”, Firenze, Alinari, vol. 9, 1988: 88-104.
Jacques Le Goff (a cura di), La Nuova storia, Milano, Mondadori, 1980.
Vincenzo Mirisola, Giuseppe Vanzella, Sicilia Mitica Arcadia. Von Gloeden e la «scuola» di Taormina, Palermo, Gente di Fotografia, 2004.
Diego Mormorio, Una invenzione fatale. Breve genealogia della fotografia, Palermo, Sellerio, 1985.
Franz Riccobono, Il Museo Siciliano di Arti e Tradizioni popolari. Taormina. Palazzo Corvaja, Taormina, Siciliae Edizioni, 2002.
Lorenzo Scaramella, Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici, Roma, De Luca, 1999.
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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