Gli obbiettivi della “riforma gregoriana” dell’XI secolo: lotta alla simonia (compravendita delle cariche ecclesiastiche), proibizione del concubinato di chierici e sacerdoti con donne e affermazione del potere pontificio con il Dictatus papae di Papa Gregorio VII (Pontefice dal 1073 al 1085), vennero raggiunti solo parzialmente. La Chiesa del 1200 rimaneva ancora per molti aspetti un’istituzione sotto scacco in crisi di consenso. Sono gli ordini mendicanti che oggi forse sarebbero definiti fondamentalisti: francescani (minori) e domenicani (predicatori), che riguadagnano alla fede le masse popolari, riuscendo a fare argine ai fermenti spirituali tesi alla ricerca dei fondamenti del cristianesimo e che spesso si trasformano in eresie, in aperto contrasto con la Gerarchia.
La Chiesa, con grande intuito, coglie favorevolmente la nascita di questi due ordini, affidandogli sempre più insistentemente la cura delle anime e la difesa della dottrina. Non è un caso se proprio in questi due ordini, sempre più istituzionalizzati, si formeranno accusatori ed inquisitori delle eresie dell’epoca. Ne sono un esempio Fra Salimbene de Adam (1221-1288), francescano-parmigiano, principale detrattore dell’eretico Gherardo Segarelli oltre a Bernardo Gui frate domenicano, inquisitore vero e proprio, autore tra l’altro di un Manuale sull’argomento, le sue procedure e profondo conoscitore del fenomeno apostolico-dolciniano.
In questo contributo mi voglio soffermare sulla figura e l’opera di Salimbene De Adam. Ognibene questo il suo nome di battesimo, nasce a Parma il 9 ottobre del 1221, da una famiglia della ricca borghesia, nelle case De Adam dove attualmente si trova il Palazzo Dalla Rosa Prati di lato al Battistero. Tra i suoi famigliari autorevoli cavalieri e cittadini legati alla giudicatura. Contro la volontà del padre e, seguendo l’esempio di uno dei fratelli, all’età di sedici anni entra nell’Ordine Francescano, dove viene ammesso il 4 febbraio del 1238. Nella sua veste di predicatore e continuando la sua attività di studioso, viaggia moltissimo come prevede la regola, risiedendo in un gran numero di conventi. In un primo tempo vive nelle Marche e in Toscana (Fano, Lucca, Siena, Pisa), nel 1247 ritorna in Emilia e si trova a Parma quando inizia l’assedio imperiale, soggiorna due volte in Francia. La sua ultima sede dove si spegne nel 1288 è il convento di Monfalcone, nei pressi di Reggio Emilia.
Salimbene De Adam, più noto forse come fra’ Salimbene da Parma, è stato per molto tempo una personalità poco nota al di fuori della cerchia degli studiosi. È invece una figura fondamentale per conoscere la storia medievale a cavallo tra il XII ed il XIII secolo e non solo di Parma. Il suo sguardo e la sua acuta curiosità si spingono ben oltre i confini della nostra provincia. Egli è infatti un fine cronista che conosciamo attraverso la sua Cronica dove, accanto ad una personale biografia, fornisce un quadro analitico delle vicende storiche dell’epoca vissute personalmente o conosciute, tracciando inoltre ritratti di famiglie e di uomini che hanno svolto un ruolo di primo piano.
Soffermiamoci quindi su questa sua corposa opera “la Cronica”. È la sola opera che ci rimane di Salimbene. Nel suo stato attuale (mancano probabilmente la parte iniziale e quella finale), prende le mosse dal 1168 in relazione allo scontro tra Venezia e Costantinopoli. Assume un tono autenticamente personale solamente a partire dalla prima metà del XIII secolo, quando l’autore può avvalersi di testimoni diretti e di ricordi personali. Salimbene scrive un’opera da storico, citando e vagliando numerose fonti, ma con uno stile molto spesso giornalistico (non a caso il titolo da lui stesso coniato di Cronaca), che ricostruisce, attraverso una cronologia serrata, il succedersi degli avvenimenti di cui nel suo peregrinare di religioso viene a conoscenza incalzando, così ci piace credere, i suoi numerosi interlocutori.
La Cronaca non è però soltanto un’opera storico-giornalistica, è anche una raccolta di insegnamenti supportati da testi sacri. Un insieme di cose viste, vissute o raccontate, compendiate da storie esemplari. Un insieme di storia e di trattato teologico-morale: con riferimenti continui al Vecchio e Nuovo Testamento. In molte parti i riferimenti biblici ed evangelici prendono il sopravvento legandosi a fatti e personaggi dell’epoca, secondo uno schema che vede in ogni avvenimento terreno un disegno divino: «lo spirito soffia dove vuole, né è in potere dell’uomo impedire lo spirito». Questo inframmezzarsi di sacro e profano, che parrebbe spezzare il trascorrere degli eventi narrati, rende a mio avviso l’opera interessante non solo sotto il profilo storico, ma anche sotto quello teologico, attraverso un lavoro esegetico che riporta l’insegnamento biblico-evangelico su di un piano conoscitivo alla portata del lettore, non necessariamente un fine studioso. A questo proposito numerosi i riferimenti a San Paolo, non a caso definito L’Apostolo delle Genti.
Nell’opera di Salimbene, come abbiamo accennato, vengono tracciati in modo non superficiale i profili di personalità di primo piano, insieme a comprimari meno noti, ma non per questo meno importanti nello svolgersi degli eventi medievali. Sfilano così Gioacchino da Fiore, il predicatore calabrese che preconizzava una sorte di apocalisse che sarebbe seguita alle due ere del Padre e del Figlio, con il sopraggiungere dell’era dello Spirito santo: l’era della purezza e del ritorno all’originario spirito cristiano, predicatore a cui Salimbene riserva la propria simpatia. Seguno poi Giovanni da Parma, generale dell’ordine francescano, il cui tribolato ministero fu sempre difeso dal “Nostro” in ogni circostanza. Gerardo da Borgo San Donnino che accusato di eresia finirà la sua esistenza segregato in modo crudele a pane e acqua. E ancora frate Elia, Ministro dell’Ordine, giudicato infedele e opportunista rappresentante della regola francescana.
Ed inoltre i diversi pontefici cui toccò l’ingrato compito di gestire le diverse eresie e i rapporti non sempre idilliaci con le autorità civili dei comuni, che sempre più tendevano ad erodere il potere civile esercitato dalla curia e il conflitto mai risolto con l’autorità imperiale. E di autorità imperiale il “Nostro Cronista” si occupa largamente attraverso la descrizione delle vicende, della personalità e delle azioni di Federico II di Svevia, il personaggio che più di ogni altro emerge prepotentemente dalle Cronache sul quale ci soffermiamo brevemente, e la cui sconfitta rappresenta un punto di orgoglio per la sua città. “Hostis turbetur quia parmam virgo tuetur” (“tremino i nemici perché la Vergine protegge Parma”); questa frase presente sul carroccio cittadino chiamato – crevacorem – che accompagnava un’immagine della beata vergine, apparve nel 1248 dopo il 12 febbraio. In quel giorno, infatti, i parmigiani sconfissero l’armata dell’Imperatore Federico II di Svevia che aveva assediato la città per 232 giorni, tempo durante il quale aveva edificato una nuova città antagonista (presumibilmente nell’attuale località Crocetta) alla quale diede per scherno il nome di Vittoria.
Federico II è presentato nelle prime pagine della Cronaca come figlio della Chiesa e pupillo di papa Innocenzo III: «Questi fece leggi ottime per la libertà della chiesa e contro gli eretici», ma poco più avanti il giudizio su Federico si fa severo: «Ipse vero Fridericus fuit homo pestifer e maledictus, scismaticus, hereticus et epycurus, corrumpens universam terram, quia in civitatibus Ytalie semen divisionis et discordie seminavit» [1]. Salimbene inoltre mette in dubbio la paternità regale di Federico riportando una voce, non si sa quanto fondata secondo la quale:
«Jesi è la città natale dove è nato l’imperatore Federico. E si divulgò la notizia che fosse figlio di un beccaio di Jesi: per il fatto che la donna Costanza imperatrice era molto anziana quando l’imperatore Enrico la sposò, e, come si dice, oltre questo non ebbe altro figlio o figlia. Per il quale motivo, si sparse la voce che, ricevutolo dal padre vero dopo aver simulato la gravidanza, se lo pose sotto le vesti per farlo credere partorito da lei».
Salimbene tratta della definitiva scomunica decretata da papa Innocenzo IV contro l’imperatore a conclusione del concilio di Lione, sottolineando il ruolo politico che lui stesso svolse presso la corte pontificia accolto nella ristretta cerchia dei consiglieri del pontefice:
«Mentre la mia città era assediata dall’imperatore deposto, uscii da Parma e andai a Lione. E saputolo, il papa mandò a cercarmi subito il giorno della festa di Ognissanti. Dal giorno, infatti, che io ero partito da Parma fino al giorno che ero arrivato a Lione, il papa non aveva avuto notizie da Parma: né notizie sicure né voci vaghe, ed era in attesa dell’esito della vicenda. E avendo io parlato in camera sua familiarmente con lui da solo a solo, mentre parlando ci dicemmo vicendevolmente molte cose, egli mi assolse di tutti i miei peccati».
E proprio dell’assedio di Parma e della sconfitta delle truppe imperiali, Salimbene parla con trasporto e con orgoglio campanilistico, non nascondendo il suo schierarsi dalla parte guelfa:
«Nell’anno del Signore 1247 il già deposto imperatore Federico perdette Parma sul finire di giugno (passata alla parte guelfa). Questa è la mia città, della quale cioè sono oriundo; e l’assediò dal mese di giugno al mese di febbraio. E l’imperatore aveva stabilito di distruggere fin dalle fondamenta la città di Parma e di trasferirla nella città di Vittoria che aveva costruito; ed anche di seminare in segno di perpetuo annientamento il sale su Parma rasa al suolo».
Questo richiamo ad una nuova “Delenda Carthago”, unitamente alle rappresaglie di parte imperiale servirono ad alimentare l’eroismo della comunità dei fedeli, o perlomeno ad ingigantirlo nell’intento di chi le riportava come certe.
Ritengo doveroso infine sottolineare alcuni aspetti, apparentemente contraddittori della personalità di Salimbene che emergono dalla sua opera storico-autobiografica. E mi riferisco alle sue posizioni politiche e spirituali. Parma insieme a Cremona era città saldamente legata al campo filoimperiale sino al 1247 quando passò alla parte guelfa. Il padre aveva autorevoli entrature negli ambienti imperiali, tanto è vero che si rivolse direttamente a Federico II affinché intercedesse (senza successo) presso l’ordine minorile per dissuadere il figlio Ognibene dall’ intraprendere la carriera monastica.
Ma nonostante le amicizie familiari Salimbene dimostrò sempre di essere un fervente e convinto cattolico osservante, desideroso di difendere gli interessi della Chiesa, pur consapevole dei limiti che caratterizzavano la politica della Curia Romana più attenta alle vicende politiche che a quelle spirituali. Sul piano religioso e spirituale Il Nostro non nasconde il suo essere stato gioachimita (essere stato, non essere) almeno al momento in cui gli giunse notizia della morte dell’imperatore Federico.
La concezione gioachimita ebbe presa su di lui come su molti suoi giovani confratelli, intravedendo nei due nuovi ordini mendicanti e soprattutto nella figura del Santo di Assisi gli iniziatori di qualcosa che molto somigliava all’era dello Spirito santo profetizzata da Gioachino da Fiore. Ed in effetti la sua posizione fu tutto sommato mediana tra le due concezioni del francescanesimo, una favorevole ad attenuare i rigori della regola voluta da Francesco (fraternità di eguali), strutturando l’ordine in ragione della sua missione apostolica, l’altra con una visione più spirituale ed ascetica al limite dell’eresia vicina alle convinzioni gioachimite e sicuramente più critica verso certi costumi della gerarchia ecclesiastica.
Ma quando alcune posizioni, pur lodevoli nello spirito, scivolavano verso un aperto contrasto con la Chiesa divenendo minoranza organizzata e quindi eresia, Salimbene si schierò senza indugi dalla parte della tradizione, come nel caso trattato dal bellissimo testo di Don Umberto Cocconi (La lebbra dell’anima, edito da M.U.P. Parma, 2018), sullo sfortunato eretico parmigiano Gherardo Segarelli finito sul rogo nell’estate del 1300; precursore del ben più noto Fra’ Dolcino (ma questa dei due eretici è altra storia di cui tratteremo in altra occasione). Fu opportunismo politico, conformismo? Io sono convinto del contrario. Salimbene non rinunciò mai alla sua autonomia di giudizio, dovuta alla sua grandissima cultura oltre che alla coerenza, non dimentichiamo la sua rinuncia agli agi di una vita secolare che il suo lignaggio gli avrebbe garantito. Non ebbe mai il timore di esprimere la sua opinione su fatti e personaggi e lo fece nei suoi scritti, di cui l’unico a noi pervenuto è la sua Cronaca, in un’epoca in cui il non conformismo poteva costare le catene quando non il boia o il rogo.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] Le parti virgolettate sono tratte unicamente dall’opera di Salimbene Cronica, Casa editrice M.U.P. Parma 2007: Opera in due volumi, testo in latino a cura di Giuseppe Scalia, traduzione di Berardo Rossi.
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Francesco Gianola Bazzini, dottore in Giurisprudenza e in Relazioni Internazionali, mediatore in ambito giuridico, consigliere del Centro Interdipartimentale Ricerca Sociale dell’Università di Parma, studioso di Sociologia delle Religioni e dell’Islam politico moderno, ha svolto seminari didattici presso due corsi di studio della stessa Università e attività divulgativa presso diverse realtà politico-culturali.
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