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Gaza, lo sterminio di un popolo e le responsabilità dell’Occidente

gazadi Sergio Todesco

L’attuale dramma umanitario che si svolge, sotto gli occhi di un Occidente distratto, a Gaza e nel Libano sollecita alcune riflessioni, che possono a mio parere articolarsi secondo due principali tematiche: la questione israelo-palestinese vera e propria; lo sguardo esterno e le svariate narrazioni che intorno a tale questione si sono storicamente dispiegate.

Ernesto de Martino ebbe a osservare, ormai più di sessant’anni fa, che questo nostro pianeta è divenuto troppo angusto – tanto velocemente ormai lo si attraversa! – per poter tollerare semplici coesistenze. Ciò comportava, secondo l’etnologo napoletano, che nel panorama caratterizzante le nostre giornate storiche fosse necessario il riconoscimento reciproco e condiviso di una comune condizione umana, piuttosto che delle asettiche e indifferenti “tolleranze”. Sarebbero dunque occorse la conoscenza reciproca, il rispetto reciproco, il reciproco ascolto. In una parola il dialogo.

La storia dell’intero secolo breve e degli anni che hanno segnato questo scorcio di nuovo millennio ci ha mostrato una tendenza opposta a quella auspicata da de Martino. Se guardassimo senza paraocchi ideologici quello che avviene in queste ore – e ormai da un tempo che pare infinito – nella Striscia di Gaza, ci accorgeremmo di come i cadaveri dei civili, adulti e bambini, uccisi dalle bombe israeliane siano ormai ridotti al ruolo di messaggi corporei, di urla del silenzio scagliate in faccia a un Occidente cinico e opulento che nasconde la testa sotto la sabbia per non vedere che là si consuma l’Olocausto del ventunesimo secolo. Un olocausto destinato a perpetuare odio e integralismi reciproci per un paio di generazioni.

La gran parte dei commentatori si limita a valutare ciò che la politica di Benjamin Netanyahu e del suo governo sionista conduce da anni in Medio Oriente come l’esito di un accerchiamento cui il popolo ebraico sarebbe sottoposto a opera delle nazioni arabe a esso limitrofe, e per ciò che riguarda l’attuale conflitto come la naturale e ovvia reazione alla feroce offensiva militare lanciata il 7 ottobre 2023 contro Israele da Hamas. Senonché a tali analisi fa difetto una valutazione storica degli eventi che hanno preceduto tale efferato attacco.

La conclusione è quella che si tende a considerare lo Stato di Israele come una sorta di baluardo “occidentale” contro il mondo islamico, con la conseguente valutazione di un conflitto che vede schierate da una parte le forze del bene, dall’altra quelle del male. Sono in molti oggi a praticare lo scollamento totale tra la realtà e le sue rappresentazioni. Tale scollamento è in realtà un cancro che mina l’Occidente, un cancro che potrebbe distruggerlo. Ogni volta che muore qualcuno in un’altra parte del mondo, e qualcun altro pensa che la cosa non lo riguardi o che ci siano ragioni superiori a giustificare l’orrore, la metastasi raggiunge e consuma nuovi tessuti.

Israele- Palestina, mappa diacronica (da Fanpage.i)

Israele- Palestina, mappa diacronica (da Fanpage.it)

Non è possibile in realtà pensare a una soluzione del conflitto israelo-palestinese, da molti anni forse la più grave minaccia per la pace dell’intero pianeta, se non attraverso un serio ripensamento da parte dell’Occidente, e dell’Europa in particolare, dei propri fondamentali ideologici e umanistici, delle libertà e della democrazia che dai Greci fino agli Illuministi questa parte di mondo ha prodotto e diffuso, e che adesso si sono diabolicamente ribaltate nella loro negazione.

Di fatto, compulsando materiali d’epoca e documenti visuali di varia natura potremmo verificare agevolmente che la Palestina d’inizio Novecento sia stata una sorta di paradiso terrestre in cui coesistevano pacificamente i due popoli e le due religioni. Gran Bretagna e Società delle Nazioni, e poi dopo il Secondo conflitto mondiale l’O.N.U. nel giro di pochi decenni riuscirono a trasformare quello che era stato un luogo di tolleranza in una terra di conflitti, nella quale ai danni del popolo che da millenni aveva abitato quelle terre si venne poco a poco perpetrando un vero e proprio apartheid.

Israeliani e palestinesi condannati dunque a essere popoli in lotta in eterno, quasi che si sia tornati ai tempi biblici di Sansone e dei Filistei? Antoine Fabre d’Olivet era un esoterista francese ottocentesco. Genio e cialtrone al contempo, come tutti gli esoteristi, egli scrisse tra gli altri un libro in cui presentava un’astrusa ma affascinante lettura cabalistica di testi biblici. Ma non di questo aspetto – trascurabile – è il caso qui di parlare. Ciò che colpisce in questo ponderoso e fumoso volume è invece il passo in cui l’autore afferma che gli Arabi e gli Ebrei sono lo stesso popolo, o meglio come le due facce di una stessa medaglia. Entrambi infatti, facendo risalire le proprie origini a un preteso patriarca Heber (Abramo?), ne hanno poi modificato il nome nei rispettivi dialetti, “Hebri” per gli ebrei e “Harbi” per gli arabi; e poiché Heber significa “ciò che termina”, “ciò che tramonta”, i due termini – Ebrei e Arabi – in effetti non esprimono altro che il fatto di trovarsi a occidente rispetto a un luogo, l’Asia, considerata la Terra di Dio per antonomasia: 

«…. Les noms que nous donnons aux Hébreux et aux Arabes, quoiqu’ils paraissent très-dissemblables, grâce à notre manière de les écrire, ne sont au fond que la même épithète modifiée par deux dialectes différens. Tout le monde sait que l’un et l’autre peuple rapporte son origine au patriarche Héber: or, le nom de ce prétendu Patriarche ne signifie rien autre chose que ce qui est placé derrière ou au-delà, ce qui est éloignécachédissimuléprivé du jour; ce qui passe, ce qui termine, ce qui est occidental, etc. Les Hébreux, dont le dialecte est évidemment antérieur à celui des Arabes, en ont dérivé hébri et les Arabes harbi, par une transposition de lettres qui leur est très-ordinaire dans ce cas. Mais soit qu’on prononce hébri, soit qu’on prononce harbi, l’un ou l’autre mot exprime toujours que le peuple qui le porte se trouve placé ou au-delà, ou à l’extrémité, ou aux confins, ou au bord occidental d’une contrée. Voilà, dès les temps les plus anciens, quelle était la situation des Hébreux ou des Arabes, relativement à l’Asie, dont le nom examiné dans sa racine primitive, signifie le Continent unique, la Terre proprement dite, la Terre de Dieu». 

fabre-dolivetStrampalata che sia tale interpretazione, essa ha però il merito, come tutte le ipotesi fuori del coro, di farci intravedere una maniera nuova di guardare alle cose, in questo caso alla madre di tutte le questioni. Se ci chiedessimo infatti quale sia il cuore di tutti i problemi, la radice dei terrorismi e dei conflitti, le ragioni per le quali siano crollate le due torri, e ciò sia accaduto “con timore e tremore” come se invece che nel pianeta terra noi ci trovassimo in un cupo universo alla Tolkien, bene, è possibile che tutto questo si sia verificato, e continui a verificarsi, perché le due facce della medaglia hanno smemorato la propria natura. Come se due fratelli, immemori dei legami di sangue che li uniscono, prendessero a combattersi perché ognuno dei due pretende la titolarità della casa in cui entrambi vivono. Da cosa deriva la guerra, l’odio, l’inimicizia tra questi due popoli che credono in un unico Dio e spendono tanta parte del proprio tempo a dialogare con Lui? Due religioni abramitiche che hanno trovato per secoli forme di adattamento e di coesistenza e che poi, per decisione esterna presa a tavolino (un peloso rimorso occidentale per l’inumano Olocausto perpetrato dai nazisti), si ritrovano nemiche e indotte a cancellarsi reciprocamente…

Alcuni ritengono che ciò sia riconducibile alla terra e alle risorse, a problemi insomma concernenti l’economia o le scelte strategiche che contrappongono oggi nel nostro pianeta due blocchi impermeabili l’uno all’altro. C’è indubbiamente del vero in tale interpretazione, ma sarebbe una visione disperatamente contabile e ragionieristica dell’esistenza quella che pretendesse di spiegare tutto con i flussi demografici e i prodotti interni lordi. Questi elementi hanno certamente un enorme peso, ma alla radice dei problemi è possibile che ci siano anche dei simbolici “affari di cuore”. Utilizzando tale termine intendo dire che è forse giunto il momento di ribaltare il nostro modo di leggere la realtà. Noi pensiamo di solito che la globalizzazione abbia ormai definitivamente scritto le regole con le quali sarà governato il mondo nei prossimi secoli. Tutti ci credono, e il fatto che circa duecento multinazionali detengano il cinquanta per cento delle risorse planetarie ad alcuni fa perfino piacere; se i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, ciò è comunque un fare chiarezza sulle cose, essi pensano, così si capisce finalmente qual è la legge dell’esistenza!

In realtà, i Palestinesi sono stati da tempo etichettati da gran parte del sentire comune occidentale come rientranti nella categoria degli ultimi, quelli che Frantz Fanon definiva i dannati della terra. Già dai tempi del Vangelo gli ultimi costituivano una fascia ben definita della società, quella comprendente individui a vario titolo investiti da meccanismi di emarginazione e stigmatizzazione, da pregiudizi e stereotipi di vario genere, in quanto tali versanti in una perenne condizione di subalternità. L’ultimo era così, oltre che una condizione, una categoria entro cui sussumere persone ininfluenti, non in grado di svolgere ruoli attivi nei processi storico-sociali, privi come essi erano del possesso dei più elementari strumenti atti a farli meglio “stare al mondo”.

Successivamente, nel corso di una sofferta elaborazione che si è sostanziata di tutti gli eventi impastati di sofferenza, lotta, emancipazione e riscatto che hanno segnato la storia degli ultimi cinquemila anni, dalla schiavitù del popolo ebraico sotto il giogo del Faraone a Spartacus, dai servi della gleba al proletariato di Marx che non ha nulla da perdere se non le proprie catene, fino alle disperate ciurme che affollano con precari barconi il Mediterraneo, si è scoperto che la categoria degli ultimi non è una categoria metastorica e metafisica, quasi che la condizione subalterna sia già stata assegnata in natura secondo imperscrutabili disegni del fato o di una divinità crudele, ma sia sempre l’esito di una prassi di egemonia e di dominio esercitata sulle fasce o sugli individui più deboli di una data società, oggi su larghissime fasce di popolazione dell’intero pianeta che vedono le proprie esistenze alla deriva a motivo delle dinamiche capitalistiche ormai sfuggite a ogni controllo che non sia quello – fallimentare – dei pochi cinici che governano il mondo, convinti di trarre vantaggi da un’ulteriore divaricazione della forbice tra “primi” e “ultimi”. “Gli ultimi” costituiscono dunque tutto ciò che si è scelto di relegare alla periferia fisica o simbolica della società: i subalterni, o meglio coloro che non hanno un ruolo riconosciuto nella società (che non sia quello della coscienza che a volte rimorde) e ai quali pertanto non tocca diritto alcuno di parola.

13575In passato – qui da noi – essi erano i portatori delle culture “etniche”, quelli rispetto ai quali la pratica colonialista appariva prassi naturale, in seguito furono gli abitanti delle zone meno sviluppate del Mezzogiorno d’Italia, le terre che de Martino individuava come “le Indie di quaggiù”, e poi – via via – gli inquilini dei manicomi e dei luoghi di contenzione, gli “spazi concentrazionari” nei quali si rinchiudevano coloro la cui esistenza era in qualche modo di disturbo per la società (cosiddetta) civile, e ancora, nell’Italia del boom i citoyens delle baraccopoli delle grandi città, e adesso nel nostro presente gli occupanti dei campi nomadi che ospitano e isolano migranti e disperati di ogni sorta, e le persone un tempo “normali” e oggi ridotte in povertà da un sistema cieco che obbedisce solo alle logiche della finanza. A questi “ultimi” si aggiungono da tempo, allargando la prospettiva fuori dei confini nazionali, i Palestinesi, che con il loro semplice esistere costituiscono granelli di sabbia nell’ingranaggio predisposto da quello che si ritiene essere un Ordine Mondiale.

È indubbio che l’esclusione di alcuni soggetti e di alcuni luoghi contribuisca a determinare l’identità culturale di una nazione. Nel nostro Paese l’esclusione sociale non è sempre stata oggetto di una prassi politica determinata, come oggi ci viene esemplarmente mostrato a opera della Lega Nord nel caso dei migranti, ma è sempre stata comunque contrassegnata da un discorso pubblico e da una cultura diffusa che hanno costruito e rappresentato luoghi “marginali” e persone “ultime”. Una riflessione sui meccanismi di esclusione e sugli stigmi che hanno determinato la creazione di tale categoria potrebbe raccontarci molto sui processi di formazione della nostra società, con un ribaltamento di prospettive nella percezione delle nostre identità, vere o presunte. Questa considerazione può altrettanto pertinentemente essere rivolta ai paradigmi con cui l’Occidente tutto è venuto costruendo le proprie regole, i propri “diritti”, i propri spartiacque tra chi “ha diritto” a essere qualcuno o a poter fare qualcosa, e chi di tale “diritto” è sprovvisto, perché storicamente privato di esso.

Noi, avvezzi come siamo a crogiolarci entro la placenta del nostro benessere, incontriamo difficoltà a comprendere che la fine del mondo non è la fine del mondo, ma è sempre la fine di un mondo. Se tale consapevolezza ci fosse, non assisteremmo alle tante false narrazioni apocalittiche espresse sui social a proposito dei flussi migratori. I nostri antenati, di fronte a un evento di grande bizzarrìa o stranezza, usavano dire “non c’è cchiù munnu!”. Noi, che abbiamo per fortuna perso la loro ingenuità e sappiamo che quel mondo non era l’unico mondo, non possiamo più permetterci di pensarla allo stesso modo. Non ne abbiamo più alcun diritto. E non lo abbiamo in quanto questo “nuovo mondo”, che tanto sgomenta molti individui delle nostre società, hanno iniziato a costruirlo i nostri progenitori.

Da che mondo è mondo (è il caso di dire) abbiamo esplorato, colonizzato, sottomesso e dominato altre plaghe del pianeta. Abbiamo in tal modo esportato i nostri costumi e i nostri modelli culturali, compresa la nostra “democrazia”. Qualcuno pensa ancora che abbiamo portato solo la nostra civiltà. La verità è che abbiamo sconvolto gli equilibri culturali di molte pacifiche popolazioni che vivevano tranquille, risolvendo – pacificamente o guerrescamente – i problemi con i loro rispettivi confinanti. Tutti ormai sappiamo che non eravamo mossi da un istinto filantropico nell’andare a “civilizzare” popoli diversi dai nostri. Ci siamo andati spinti dall’avidità verso le loro risorse, i loro giacimenti, le loro terre. Altrimenti non li avremmo ridotti in schiavitù, trucidati, gasati, deportati. Non avremmo, una volta distaccatici da loro, venduto armi e messo a capo dei loro Stati dei tiranni corrotti o dei fantocci manovrati a distanza.

Tali considerazioni ritengo possano esser fatte valere anche a proposito della situazione palestinese. Una situazione rispetto alla quale l’Occidente eurocolto (come lo definiva de Martino) si è schierato decisamente mosso dalla “narrazione” che in quell’angolo di mondo si andasse svolgendo uno scontro di civiltà, un confronto senza vie di composizione tra identità culturali diverse.

Ecco apparire, ancora una volta, il tema cruciale dell’identità. Quell’identità che molti in Occidente, e sempre più numerosi qui da noi, paventano possa essere messa in crisi, annacquata o addirittura cancellata da quelle tante disperate identità che, sempre più numerose e sempre più disperate, affollano il Mediterraneo in cerca di scampo agli orrori lasciati a casa propria, o cercano nel proprio territorio di vivere un’esistenza dignitosa. 

Siamo dunque ricondotti a forme distorte di tradizione, quindi di identità. Un termine, questo, sempre più utilizzato per declinare realtà che nelle intenzioni di chi lo utilizza dovrebbero individuare stili di vita, visioni del mondo, forme di cultura dati una volta per tutte, immutabili, tetragone al cambiamento, e quasi sempre brandito come clava per contrapporsi con ostilità ad altre forme identitarie, elaborate all’interno di altre “tribù culturali” del nostro pianeta.

remottiIn realtà, l’identità, la sua costruzione, è sempre frutto di un incontro. Essa si costruisce e si declina appunto per differenziare ciò che siamo (o ciò che crediamo di essere) da ciò che sono gli altri (o ciò che crediamo gli altri siano). Non ci si confronta con il simile a sé, da che mondo è mondo ci si confronta sempre con l’altro da sé (òi bàrbaroi, dicevano i Greci), da ciò sortendone sempre uno “scandalo”, lo scandalo del dubbio, del rischio di messa in causa dei propri sistemi di rappresentazione, delle proprie visioni del mondo, e la conseguente dinamica di mutamento o persistenza che tale confronto sortisce nella propria tradizione, nella propria identità. Una persistenza, occorre rilevare, mai assoluta, dato che l’identità e la tradizione stesse non sono mai statiche, monolitiche, immutabili, ma sempre di nuovo vengono sottoposte a processi di negoziazione, in cui ciò che si perde viene compensato da ciò che si guadagna…..

La questione identitaria è oggi più che mai centrale nella riflessione teorica contemporanea, ma suscita sentimenti e scelte di campo contrapposti. Antropologi come James Clifford (I frutti puri impazziscono), Nèstor García Canclini (Culture ibride), Francesco Remotti (Sull’identità, Contro l’identità, L’ossessione identitaria) ritengono che il concetto di identità sia sostanzialmente superato, da non promuovere, dannoso in quanto veicolante atteggiamenti culturali integralisti e chiusi al confronto. Altri autori pongono piuttosto l’accento sulle capacità aggregative del termine, in grado di fornire orizzonti condivisi e orgoglio di appartenenza. Di fatto, l’identità e la tradizione che di essa si nutre non sono realtà date, né date una volta per tutte e quindi sempre identiche a se stesse, ma piuttosto realtà frutto di elaborati processi di costruzione, e quindi, ne abbiano o meno consapevolezza i loro storici portatori, sempre dinamiche e sempre – in qualche modo – plurime, contaminate, “meticce”.

Se negli ultimi decenni si è venuto affermando un uso strumentale e perverso di tali concetti, ciò è da ascrivere forse alla sempre maggiore diffidenza che le culture e i gruppi umani hanno sviluppato nei confronti della diversità, in un pianeta in cui la globalizzazione ha ancor più incrementato i conflitti e i dislivelli tra gli uomini, gli stati, i popoli. A me pare che al giorno d’oggi sia sorto un grosso equivoco rispetto alle forme d’identità che ognuno di noi è chiamato a esibire nella vita quotidiana e, più in generale, nel corso dell’esistenza. 

Mettiamola così. Ci sono identità “genuine” e identità “spurie”. Quelle genuine non sono certo quelle esibite da quanti oggi  sproloquiano su “identità forti”. Sotto questo profilo tutte le forme forti di identità, da quella in buona fede attribuita alla “civiltà cristiana” a quella ferocemente praticata dai Talebani si equivalgono, in quanto in entrambi i casi si spacciano per realtà identitarie ideologie costruite a tavolino, dai caratteri immutabili e impermeabili alle “contaminazioni” esterne.

L’identità genuina è fluida, composita, stratificata, contaminata, sempre aperta e disponibile ad arricchirsi con ciò che la storia va ad aggiungere alla sua natura. Essa è tanto rispettosa delle alterità, ossia delle forme d’identità lontane dalla propria, quanto aperta ai meccanismi di naturale scambio e travaso di elementi che sempre insorgono allorquando due culture vengono in contatto tra loro e nessuna di esse cerca di prevaricare, soffocare o inglobare l’altra.

Se dunque l’Occidente, il ricco, opulento ed egoista Occidente, ha paura di accettare il confronto con le identità aliene che popolano il pianeta, ciò dipende in maniera evidente dal fatto che questo Occidente ha smarrito la propria identità. Questa identità se l’era costruita, assai faticosamente come sempre avviene, attraverso una storia plurimillenaria cui hanno messo mano i filosofi greci, la democrazia della polis, il diritto romano, la straordinaria Buona Novella evangelica, la cultura bizantina, i monaci medievali, gli umanisti e la Rinascenza, l’Illuminismo e l’Encyclopédie, i romantici ed Hegel, Marx e il Socialismo, e tutto ciò che ha concorso, attraverso una serie interminabile di “accoglimenti” ed espunzioni, di lacerazioni e sincretismi, a formare lo spirito della civiltà europea. Un fare e disfare, insomma, che ha prodotto certezze come quelle espresse da Immanuel Kant (Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me) e da Voltaire (Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa esprimerle), per non parlare delle verità già reseci palesi duemila anni or sono da un giovanotto della Galilea dalla vita breve. Il riconoscimento, infine, della pari dignità di ogni essere umano e la consapevolezza che questa nostra stirpe di uomini e donne naviga lungo le acque procellose dell’esistenza stando tutti nel medesimo barcone, per cui la morte di uno è la morte di tutti, la salvezza di uno è la salvezza di tutti. Nessun uomo è un’isola, ce lo ricordava già cinquecento anni fa quello straordinario poeta teologo di John Donne.

Ultime considerazioni, estravaganti, sull’Occidente e la sua capacità di sguardo sul pianeta. Trentacinque anni fa, allorché una marea di persone si accinse a demolire la triste muraglia che divideva le due Berlino, molti di noi pensammo che insieme a quel secolo breve che era stato il XX si stesse chiudendo un’epoca, quella della guerra fredda, delle tolleranze a denti stretti e di tutte le conventiones ad excludendum che si erano fino ad allora consumate al fine di non consentire che la società si organizzasse secondo criteri difformi da quelli stabiliti a tavolino da chi aveva vinto la guerra e aveva al contempo inteso pianificare la pace. Si pensò inoltre, anzi lo si sperò ardentemente, che la caduta di quel muro (ne conservo ancora da qualche parte un frammento, una piccola scheggia colorata portatami da un amico), potesse progressivamente, a cascata, produrre la caduta di tutti i muri, o almeno infrangerne l’impermeabilità alla circolazione delle idee, dei sogni, delle utopie.

whiteCom’è andata a finire lo vediamo. Il nemico storico che qualcuno ci aveva assegnato lasciò progressivamente il campo ad altri temibili nemici, la Cina a cavalcare la tigre della globalizzazione, i Talebani determinati a risospingerci in un secondo Medioevo, i liberatori di sempre continuamente intenti a esportare la loro democrazia, sentendosi i gendarmi del pianeta. E tutt’intorno a noi, il continuo sgretolarsi di un mondo elementarmente umano, sempre più in balia di tycoon spregiudicati, multinazionali del farmaco, mercanti di armi, tiranni e politici di mezza tacca sparsi un po’ dappertutto, egoisti di ogni genere. La quintessenza del capitalismo più cieco e spietato. Questo scenario, inoltre, all’interno di una rivoluzione digitale che nei posti più sperduti del pianeta ha messo certo i poveri in contatto col mondo, ma qui da noi ha esaltato all’ennesima potenza l’anima piccolo borghese, parolaia, vacua, sostanzialmente fascista di una larga fetta di italiani. Un’anima in attesa dei suoi sciamani per poter avere piena visibilità e tornare a rivendicare il proprio posto al sole.

Gli sciamani, ahimè, sono arrivati. Come ha dimostrato egregiamente Leslie White (The Science of Culture, 1949) non sono gli individui a fare la storia ma i contesti storici a generare i protagonisti. Allo stesso modo che la crisi dei liberalismi tradizionali produsse fascismo e nazismo, la crisi economica degli ultimi decenni e l’irrompere delle ideologie sovraniste hanno generato i nuovi leaders politici, per i quali non esistono le cose reali (i concreti bisogni, le concrete situazioni delle persone) ma le loro taroccate rappresentazioni in grado di far presa sulle pulsioni più ancestrali dei loro sprovveduti elettori, la paura, l’egoismo e una buona dose di aggressività, sempre utile per scaricare le proprie frustrazioni e nascondere a se stessi le fragilità nascoste.

Nel bel romanzo di Umberto Eco Il pendolo di Foucault uno dei personaggi, l’ebreo Diotallevi, muore per aver sviluppato, attraverso una pratica cabalistica ridotta e svilita a fantasie e giochi di parole privi di senso, un cancro, che giunge così a sancire lo scollamento radicale tra la realtà e le sue rappresentazioni, e quindi l’impazzimento delle cellule che non si riconoscono più solidali l’una con l’altra.

Maestri nella somministrazione di rappresentazioni retoriche e falsate della realtà sono, spiace riconoscerlo, gli americani. Costoro – come la storia dell’ultimo mezzo secolo ci mostra –  partono per cacciare un despota, portare democrazia a un popolo oppresso, ridare pace e stabilità a un angolo di mondo tra i più caldi del pianeta; ebbene, accade poi sempre che coi tiranni finiscano col patteggiare preferendo lasciare spazio alla brama dei petroldollari, dei mercanti di armi, ai sovranismi più abietti. E i popoli oppressi che per un istante si erano illusi sull’esportazione della democrazia si sono tutti, prima o poi, dovuti dolorosamente accorgere che Zio Sam li aveva abbandonati al tiranno di turno, tenendo in non cale (come è costume fin dai bei tempi del Vietnam) l’uccisione di migliaia di civili inermi e la piazza pulita di scuole, ospedali, musei, interi villaggi che si svuotano creando masse enormi di profughi.

marxSe la pistola, come sosteneva il buon vecchio Freud, è sempre un’estensione del pene, cos’altro è la guerra se non l’enorme estensione di un’impotenza esistenziale incapace di vivere nella gioia, di cogliere un qualunque legame di solidarietà con il resto dei propri simili? In realtà, se all’origine di tutto si fosse affidata a una persona di medio buon senso la stabilità dell’area mediorientale non si sarebbero forse raggiunte le faide tribali cui abbiamo assistito in questi drammatici decenni, né gli esodi biblici che impauriscono molte anime belle (ma ipocrite) né lo scandalo umanitario di un Occidente ipocrita che parla, s’interroga, si consulta, straparla, si indigna ma non agisce.

Non dimentichiamo che alla crescita esponenziale di queste turpitudini ha contribuito in larga misura la guerra insensata mossa agli inizi del terzo millennio, fuori di ogni legittimità internazionale, a un popolo di oppressi; guerra con la quale l’America ha innescato e potenziato oltremisura sentimenti di puro odio antioccidentale destinati a fermentare per i prossimi due secoli, creando inoltre un terribile precedente del quale, da ora in poi, terranno debito conto tutti i prepotenti della terra allorquando verrà loro vaghezza di sopraffare un debole di turno, nella migliore tradizione della dialettica lupo-agnello narrataci da Esopo.

Di tutto ciò, di tale terribile logica della guerra quale “sola igiene del mondo”, stanno facendo oggi le spese i Palestinesi, un popolo privo di unità nazionale al quale, contrariamente a quanto è accaduto per il popolo ebraico, mai nessuna nazione tra quelle cosiddette civili si è mai data pensiero per trovare una patria. Al pari degli Armeni e dei Curdi i Palestinesi sono stati ritenuti meritevoli solo di purghe e pratiche di apartheid, sempre perpetrate sotto gli occhi distratti dell’Occidente.

Poveri illusi, dunque, i ragazzi del 1989! Essi credevano, a un ventennio di distanza dal ’68, di inaugurare un’epoca nuova. L’Europa non li ha aiutati certo in ciò, preferendo riconsegnarsi ai fantasmi del passato. Da questo discende, per quanto al mio sguardo miope sia dato vedere, la natura squisitamente luttuosa del tempo presente, per esorcizzare la quale ritorno spesso a masticare le parole di un filosofo ottocentesco ormai passato di moda: «La critica ha spogliato la catena dei fiori immaginari che la ricoprivano non perché l’uomo porti catene senza fantasia, disperate, ma perché getti via da sé la catena e colga i fiori viventi». 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
Riferimenti bibliografici 
Ernesto de Martino, La terra del rimorso, Milano, Il Saggiatore, 1961. 
Antoine Fabre d’Olivet, La langue hébraïque restituée, Paris, chez l’auteur, 1815. 
Frantz Fanon, I dannati della terra, Torino, Einaudi, 1970. 
Bibbia, Antico Testamento, a cura di Enzo Bianchi, Torino, Einaudi, 2021. 
James Clifford, I frutti puri impazziscono: etnografia, letteratura e arte nel secolo xx, Torino, Bollati-Boringhieri, 1999. 
Néstor García Canclini, Culture ibride: strategie per entrare e uscire dalla modernità, Milano, Guerini Studio, 1998. 
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988.
Karl Marx, La questione ebraica, Roma, Editori Riuniti, 1998.
Francesco Remotti., Contro l’identità, Bari, Laterza, 2001; Id., L’ossessione identitaria, Bari, Laterza, 2017. 
Francesco Remotti (a cura di), Sull’identità, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2021. 
Leslie White, La scienza della cultura, Firenze, Sansoni, 1969. 

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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincidi Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).

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