di Lauso Zagato
Come studioso di diritto umanitario, e quindi dei crimini gravi a tale diritto connessi (crimini di guerra, contro l’umanità, genocidio [1]), incontro una iniziale difficoltà ad entrare nel merito dell’orrore in cui la situazione nel vicino Oriente è ormai precipitata. So bene che quanto perpetrato da Israele è al di là di qualsiasi giustificazione; rimane però sempre presente la consapevolezza del mio essere europeo, e della corresponsabilità storica dell’Europa, anche occidentale (Italia e Francia, purtroppo, in testa) nell’Olocausto (Porrajmos per quanto riguarda il parallelo genocidio del popolo rom). Da questo punto di vista assisto con “serena disperazione” al fatto che talora le giovani generazioni, nel loro sacrosanto solidarizzare con il popolo palestinese oggetto di una odiosa persecuzione, denotino difficoltà nel richiamare il ruolo di quel genocidio nella sequenza di avvenimenti che hanno condotto al presente: quasi gli europei di oggi non ne fossero in alcun modo toccati perché in fondo non ne erano corresponsabili neppure i loro Padri/nonni.
Sia chiaro, solidarizzo con i ragazzi; si tratta infatti dell’ennesimo guasto prodotto dal mito dell’italiano “brava gente”, sparso con eguale irresponsabilità, anche se con finalità politiche diverse, da democrazia cristiana e forze “di sinistra” nel lungo dopoguerra. A ben guardare sono gli effetti a lungo termine di tale mito ad aver consentito ai nipoti (settimini, lo concedo) dei mostri dominanti allora la scena di tornare in auge come se nulla fosse. Devo anche riconoscere che una inavvertita supposizione di estraneità, anche generazionale, nei confronti del genocidio europeo del XX secolo, era già presente, e forse più forte, nella generazione delle lotte degli anni ‘60/’70 cui appartengo. Anzi, quella favola dell’italiano brava gente siamo stati in ultima analisi noi a trasmetterla: purtroppo, anche se non è la sede per approfondire, le cose non stanno così. Di qua allora la difficoltà segnalata all’inizio; anche se poi, va da sé, la truce realtà di quanto sta avvenendo si impone comunque per forza propria.
Per una persona della mia generazione, da sempre schierata a favore del popolo palestinese e delle organizzazioni che (non sempre per il meglio, anzi, ma tant’è) lo rappresentavano, vi sarebbe un ulteriore motivo di inquietudine. La disintegrazione dell’OLP, che qui sarebbe inutile approfondire, ivi compresa l’autodissoluzione di Fatah come soggetto credibile, ha portato all’emergere in posizione dominante di un soggetto integralista religioso (a suo tempo favorito indirettamente da Israele, non andrebbe dimenticato). Non è possibile in tale situazione riproporre acriticamente uno schema interpretativo a suo tempo funzionante per le epopee dei popoli vietnamita e algerino (e non solo). Insomma: Hamas non è e non può venire visto neppure per un attimo come protagonista di un progetto di liberazione; si tratta di un’organizzazione politico-militare che persegue un progetto politico caratterizzato da un esplicito e spietato integralismo religioso (certe bieche manifestazioni sessiste ne costituiscono solo una spia). Né il 7 ottobre 2023 può essere additato a simbolo dell’inizio di una rivoluzione. Se alla generica accusa di terrorismo si potrebbe facilmente rispondere “da che pulpito!”, l’operazione avviata quel giorno – a parte l’aprire squarci di comprensione di cosa sarebbe una società civile sotto il governo di Hamas (e non si tratta certo di squarci gradevoli) – è interpretabile politicamente: nel senso però che chi pone in essere una cosa del genere appare disposto a sacrificare fin all’ultimo abitante di Gaza, ma anche della Palestina tutta, in vista della realizzazione di obiettivi altri e certo non coincidenti con la fine dell’oppressione del popolo palestinese [2].
Mi sembra peraltro che, a questo riguardo, i motivi di inquietudine abbiano oggi sostanzialmente perso la loro ragion d’essere, avendo gli eventi recenti contribuito a portare chiarezza politica, nell’ambito dei movimenti europei di solidarietà con il popolo palestinese, come all’interno dei movimenti palestinesi stessi operanti in Europa [3].
Vorrei riattraversare ora sommariamente il quadro giuridico della situazione, che è precisamente quanto viene tenuto nascosto dai media. Resterò al di qua del recente allargarsi del fronte di guerra. Ad illustrare la gravità delle condizioni in cui l’attacco del 7 ottobre si inserisce è comunque sufficiente il dato obiettivo che, tra il 1 gennaio e il 6 ottobre 2023, in Cisgiordania erano stati uccisi da militari e coloni israeliani, 199 palestinesi (di cui almeno 38 bambini), nessuno dei quali armato, se non della propria oltremodo oltraggiata dignità umana. Paura, odio, spesso vero e proprio sadismo, hanno portato all’uccisione di 199 persone che non avevano commesso alcun crimine né dato luogo a situazioni pericolose [4]. Nella sua spaventosa nudità, tale dato dovrebbe essere oggetto di riflessione da parte di ciascuno.
Allora, forniamo dati politici. Sono 145 gli Stati che riconoscono la Palestina: di questi 143 sono membri delle NU (da ultimo, proprio nel 2024, Barbados, Trinidad e Tobago, Giamaica) cui si aggiungono Città del Vaticano e Sahara occidentale, non membri delle NU. Proprio il 9 maggio del 2024, a crisi in corso, l’Assemblea generale (AG) ha riconosciuto ufficialmente la Palestina come Stato membro, con 143 voti a favore, 9 contrari e 25 astenuti. Gli Stati UE che riconoscono la Palestina sono ormai dodici, dopo che alla fine di maggio 2024 a Bulgaria, Cipro, Malta, Polonia, Repubblica ceca, Romania, Slovacchia, Svezia e Ungheria, si sono aggiunte Spagna, Norvegia, ed Irlanda [5]. Solo 9 Stati nel mondo si sono dunque opposti all’ingresso ufficiale della Palestina all’Assemblea generale. I dati sono di dominio pubblico, ma bellamente bypassati dai cosiddetti commentatori politici che ammorbano l’aria attorno a noi.
Proseguiamo: nel mese di dicembre 2023 il Sudafrica ha chiesto alla Corte internazionale di Giustizia (CIG) l’avvio di un procedimento contro Israele in relazione a possibili “violazioni nella striscia di Gaza di obblighi derivanti dalla Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio”. Lo scopo immediato del ricorso, dal momento che per le questioni di merito il procedimento impegnerà alcuni anni, era quello di ottenere dalla Corte l’emanazione di misure immediate provvisorie [6].
Il ricorso sudafricano è condotto con rigore, gli avvenimenti sono ricostruiti sulla base di inchieste condotte da organi e agenzie internazionali, sempre puntualmente richiamati. Il 7 ottobre e quanto vi fa seguito sono avvenuti in un contesto di “apartheid, espulsione, pulizia etnica, annessione, occupazione, discriminazione permanente” (par. 4), tutti elementi che possono risultare inerenti al crimine di genocidio, mentre successivamente si sarebbe aggiunta una serie impressionante di manifestazioni esplicite di intento genocidario da parte di organi dello Stato israeliano, anche di vertice. Il ricorso analizza nello specifico la presenza o meno, ex art. II della Convenzione del 1948 [7], degli elementi oggettivi del crimine di genocidio [8]; a questi si aggiunge, ed è profilo qualificante [9], l’espressione di intenti genocidari da parte di soggetti qualificati dello Stato in oggetto.
Con ordinanza 192 del 26 gennaio 2024 la Corte, pur rimandando di affrontare le questioni di merito, conviene sull’esistenza di un distinto gruppo nazionale, etnico e razziale palestinese e, affermando la plausibilità del rischio di genocidio di tale gruppo, si dichiara concorde con il Sudafrica circa la necessità di emanare immediate misure, per evitare il rischio che venga arrecato “pregiudizio irreparabile ai diritti reclamati prima che la Corte emetta la decisione finale” (punto 61). Nel corso dei mesi, nella causa principale si sono intanto aggiunti al Sudafrica altri Stati: Nicaragua, Palestina, Turchia, Spagna, Messico, Libia, Colombia [10]. Aggiungo, sempre in relazione alla causa principale, che il Sudafrica ha annunciato l’intenzione di presentare ulteriori prove del genocidio davanti ai giudici entro la fine del presente mese, o comunque del 2024 [11].
Proprio perché il reato di genocidio richiede, oltre all’esistenza di una prassi distruttiva, lo specifico intento di eliminazione del gruppo umano target, l’unica delle accuse in relazione alle quali c’è stata una (apparente) presa di responsabilità israeliana è costituita dalla cessazione delle prese di posizione semi-ufficiali di quadri, intermedi come di vertice, dell’esercito, come pure di ministri e dello stesso Presidente della repubblica circa quello che andava fatto a Gaza (uccidere tutti gli abitanti che non fossero già scappati all’arrivo degli israeliani). A tale riguardo quel governo, sostenendo trattarsi solo di dichiarazioni isolate di quadri “intermedi” (sic!), ha annunciato di aver ordinato il silenzio. In effetti, si è notata in seguito una maggior attenzione di Israele di ricondurre alla necessità di autodifesa dal terrorismo ogni genere di azione, anche le più sanguinose [12].
La CIG, va ricordato, è estremamente cauta quando si tratta di genocidio: in tutti i casi affrontati non ha mai riconosciuto la responsabilità diretta genocidaria in capo ad uno Stato. Anche quando il genocidio è stato confermato, come in relazione ai fatti di Sebreniza [13], la Corte non ha trovato prove dirette atte ad attribuire la responsabilità allo Stato serbo. Di tale prudenza va preso atto. Resta che, mi permetto di constatare, il gruppo dirigente israeliano ha espresso la doppia intenzione di distruggere dalle fondamenta Gaza con quanti c’erano dentro se non fuggivano, e di togliere di mezzo il problema palestinese una volta per tutte, con toni ben più espliciti e diretti (nel senso di invito alle uccisioni di massa) di quanto avessero mai fatto i capi di Belgrado nei confronti della popolazione bosniaca [14].
L’altra giurisdizione internazionale intervenuta nella crisi è la Corte penale internazionale (CPI). Anche qui premetto alcuni dati: lo Statuto della Corte [15] è stato ratificato al momento da 123 Stati, tra i quali non figura Israele, mentre la Palestina è parte dello Statuto dal 2015. Di conseguenza la giurisdizione della Corte ricade sui territori occupati e sulle zone di confine, oltre che su Cisgiordania e Gaza; non sussiste invece per quanto avvenuto o avvenga all’interno di Israele [16]. L’ufficio del procuratore (Office of the Prosecutor, OTP), che già indagava sui crimini i guerra commessi da Israele in Cisgiordania e a Gaza a partire dal 2014, dopo ricerche volte in particolare a raccogliere testimonianze tra quanti lavoravano all’ospedale principale di Gaza (Al Shifa) e a quello di Khan Younis (Nasser), ha richiesto alla CPI di emanare mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti del premier israeliano e del ministro della guerra Yoav Gallant, nonché di tre esponenti di vertice di Hamas [17]. Lo stesso Ufficio – tenendosi come si vede alla larga dalla questione della qualificazione o meno come genocidio del comportamento israeliano – ha reiterato la richiesta in data 10 settembre, chiedendo alla Camera incaricata di vagliare la richiesta di procedere con la massima velocità alla luce dell’intensificarsi degli episodi criminali in corso.
L’assenza di risposte – se non insultanti – alle prese di posizione delle due Corti da parte di Israele come dei Paesi occidentali quasi al completo è cosa ben nota, e l’ipocrisia arrogante che trapela è stata messa bene in luce dai (residui) organi d’informazione non dipendenti dagli assetti di potere transnazionali. Ci si può piuttosto interrogare sul significato e sugli effetti delle richieste di mandati ad personam, avendo a mente anche quanto successo nel caso Putin. Senza entrare nel merito delle situazioni concrete sottostanti, e preso atto che in entrambi i casi il mandato è stato richiesto nei confronti di esponenti di primo piano di Stati non parte allo Statuto, vi è una differenza decisiva: nel caso Putin la campagna nei confronti della Corte (per farle emettere il mandato) era stata condotta principalmente, avvalendosi di mezzi di pressione politico/propagandistica, da parte di Stati che dal canto loro si guardano bene dall’accettare la giurisdizione della CPI (Stati Uniti, la stessa Ucraina): si è creata così una situazione che definire bizzarra è poco. Al contrario, il procedimento nei confronti dei vertici israeliani è ben radicato nell’osservanza del testo statutario. Esiterei poi, in entrambi i casi, a dire che l’effetto pratico delle mosse dell’OTP e delle Camere CPI sia nullo: al di là del profilo simbolico, va messa in conto la difficoltà di movimento internazionale che si viene comunque a creare per i personaggi interessati, donde un senso (parziale) di soffocamento nei confronti del complesso dell’establishment del Paese i cui vertici siano stati colpiti dalla misura, per quanto non concretatasi.
Più che procedere ad alcune osservazioni conclusive, mi limito ora alla segnalazione di temi su cui si dovrà necessariamente (e in parte sta già avvenendo) concentrare l’attenzione politico-scientifica. In via preliminare è intanto evidente come la situazione si sia indirizzata al peggio: certo in primo luogo per gli abitanti di Gaza e palestinesi, ma più in generale per tutti gli abitanti del vicino Oriente, nel mentre sordi rimbombi (politici, militari, culturali) annunciano il dispiegarsi a livello globale della rete dei bio-poteri.
Spendo due parole sul secondo dei temi emergenti. Risulta invero decisamente non corretta ogni suggestione di equiparazione tendenziale con il genocidio europeo della prima parte del secolo scorso. Il discorso ed il confronto vanno spostati su di un piano diverso. Merita seguire alla lettera l’affermazione del Sudafrica all’inizio del ricorso: in presenza di un rigido e spietato sistema di apartheid, è corretto e naturale, si afferma, che sia proprio il nuovo Sudafrica, uscito dall’orrore del regime di apartheid di matrice boera, a portare la gravità della situazione all’attenzione del mondo. Del fatto che il confronto vada fatto con la (oscura) era coloniale dell’Europa, nella sua faccia più dura, non si deve dubitare. La similitudine è già nella forma mentis, oltre che nel vocabolario, dei nuovi (cosiddetti) colonizzatori. Esiste un peccato originale: la proposizione iniziale “un popolo senza terra per una terra senza popolo” contiene già in nuce i drammi successivi, come è stato ben osservato da molti, anche su Dialoghi Mediterranei. Per non parlare dell’uso del termine “coloni” per i gruppi di irregolari che espandono senza sosta, attimo per attimo, come formichine sanguinarie, il dominio dello Stato/popolo dei credenti a scapito dei nativi. Il linguaggio usato a sproposito, ai limiti del grottesco, è quello del Mayflower, ma il termine di confronto più adatto resta quello del colonialismo europeo in Africa ed Asia, con il suo spaventoso carico di orrori. È giusto anche correggere l’affermazione ricorrente degli intellettuali africani dell’età della de-colonizzazione secondo cui ciò che rende unico il nazismo è l’avere usato nei confronti di altre popolazioni europee i sistemi che fino a quel momento erano stati utilizzati dagli europei tutti, ma solo nei confronti delle popolazioni “di colore”. Non è proprio così: il nazismo ha messo in opera la più ampia operazione bio-politica fondata sul sangue che il mondo abbia (finora) conosciuto. In questo senso, davvero, Olocausto e Porrajmos non possono avere paragoni. Ma i progetti di pulizia etnica cominciati, e spesso portati a compimento dagli Stati europei negli altri continenti in età coloniale [18], si muovono sullo stretto confine che separa – o più spesso crea tenebrosa osmosi – tra i diversi tipi di crimine. Si tratta di un tema su cui bisognerà tornare appena possibile.
Quanto agli ultimi due temi emergenti, mi limito a farne segnalazione. Per un verso, la guerra contemporanea, alla luce delle nuove armi, offre ripercussioni immediate sul terreno giuridico, mettendo decisamente sotto stress (sia concessa l’espressione tutt’altro che tecnica) il quadro del diritto umanitario vigente. Strettamente avvinto è il nodo dell’utilizzo delle nuove tecnologie con finalità di distruzione del patrimonio e sterilizzazione delle identità culturali dei gruppi umani target. Su tali temi sono attualmente in corso lavori di approfondimento scientifico, vi sarà dunque modo di tornarci.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] L’ultimo lavoro scientifico che mi riprometto di svolgere nella vecchiaia è uno studio organico sul genocidio culturale, nozione oggi affatto desueta al dibattito dopo le pronunce di importanti corti internazionali così come della dottrina maggioritaria (non senza malizia temo). Il punto è che non mi sento mai vecchio abbastanza per concentrarmi su questo unico tema …
[2] Si aprono a questo punto scenari su cui non è il caso di soffermarsi: si potrebbe anche, seguendo alcuni commentatori, azzardare l’ipotesi che il c.d. Patto di Abramo costituisca il target reale a gioco lungo dell’azione di Hamas.
[3] Per quanto riguarda il nostro Paese, analisi e slogan della manifestazione del 12 ottobre a Roma sono largamente condivisibili, e condivisi. Non voglio peraltro andare oltre.
[4] Par 36 del ricorso del Sudafrica. Sono dati ufficiali (UN OCHA, www://ochaopt.org/data/casualties) . non contraddetti da alcuno. Hanno incontrato piuttosto un muro di silenzio, attività in cui gli organi d’informazione del nostro Paese si sono, al solito, oltremodo distinti.
[5] I 9 Stati che hanno votato contro l’ingresso della Palestina sono Stati Uniti, Israele, Argentina, Papua N. Guinea, Micronesia, Nauru, Palau, Rep. Ceca e Ungheria. Mentre l’astensione degli Stati UE era stata concordata, ed ha senso che anche Stati i quali individualmente riconoscono la Palestina si siano astenuti (ha senso non vuol dire che si sia trattato della scelta corretta) spicca l’assurdità del comportamento di Rep. Ceca e Ungheria: queste riconoscono il nuovo Stato, ma hanno addirittura votato contro la sua ammissione alle NU, senza peraltro procedere poi all’abbandono delle relazioni diplomatiche, che a quel punto sarebbe stata l’unica scelta logica. Mah! Viene quasi da pensare sia stata esercitata nei confronti di tali Stati una qualche forma di pressione ….
[6] In base all’art 41 dello Statuto CIG il ricorso implica la richiesta alla Corte di indicare misure provvisorie per “proteggere i diritti invocati dal ricorso da una perdita imminente e irreparabile”.
[7] Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, N.Y., 9 dicembre 1948, entrata in vigore a livello internazionale il 12 gennaio 1951. Al momento ne sono parte 153 Stati.
[8] Uccisione di membri del gruppo target; imposizione di gravi danni fisici e mentali; sottoposizione del gruppo a condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica, totale o parziale (ciò, nel caso specifico, tramite espulsione di massa dalle case e sfollamento degli abitanti, privazione dell’accesso a cibo ed acqua, privazione di assistenza medica, distruzione della vita palestinese a Gaza); imposizione di misure volte ad impedire le nascite.
[9] Trattandosi di reato di scopo, perché vi sia genocidio è necessario dimostrare l’intento specifico (dolus specialis) di distruggere (nel caso in esame) i palestinesi di Gaza “in quanto parte del più ampio gruppo nazionale, razziale ed etnico palestinese”.
[10] Come si vede, a parte la Palestina stessa e la Libia (la cui soggettività internazionale appare al momento, per motivi noti, incerta) emerge il silenzio assordante degli altri Paesi arabi. Tra i Paesi islamici non arabi è presente la sola Turchia (protettore a sua volta, sia consentito sottolinearlo, decisamente ambiguo).
[11] Nel frattempo, il 19 luglio 2024, la Corte ha emanato l’Advisory Opinion, richiesta dall’Assemblea generale con Risoluzione 77/247 del 30 dicembre 2022, sulle Conseguenze giuridiche derivanti derivanti dalle politiche e dalle pratiche di Israele nei territori occupati, inclusa Gerusalemme Est. La presa di posizione della Corte, in termini generali, è congrua con quanto affermato nell’ordinanza qui esaminata, e si esprime nettamente per la necessità del ritiro israeliano dai territori.
[12] È comunque di qualche tempo fa l’accusa alla popolazione civile di Gaza, in particolare donne, vecchi e bambini, di non andarsene (verso dove?) da Gaza “perché sono tutti di Hamas”: il macello rappresenta quindi, nella prospettiva dell’alto personaggio autore della frase, una legittima forma di autodifesa.
[13] CIG, 26 febbraio 2007, Applicazione della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, in ICJ Rep., 2007.
[14] Ciò, ripeto, fino al momento in cui il ricorso sudafricano si è incardinato davanti alla CIG, ed il linguaggio dei membri dell’Ente-apparato israeliano si è fatto (appena) più cauto.
[15] Adottato a Roma il 17 luglio 1998, entrato in vigore a livello internazionale il 1 luglio 2002.
[16] La Corte afferma la propria giurisdizione anche sul territorio di Gerusalemme est, non avendo essa riconosciuto il fatto compiuto dell’annessione.
[17] Prima di arrivare a questo l’Ufficio del Procuratore si è avvalso, come consulenti nel procedere, di un elevato numero di esperti nel diritto internazionale penale (e non solo). Mi limito a sottolineare alcuni nomi: Theodore Meron, già presidente del Tribunale per i crimini nella ex-Iugoslavia; baronessa Helena Kenendy, presidente dell’Istituto per i diritti umani, International Bar Association; Elisabeth Wilmshurts, ex-consulente giuridico presso il Foreign and Commonwealth Office del R.U.. L’elenco è lungo ed impressionante, ma non vi si è fatto cenno nei notiziari, come nell’ambito degli approfondimenti scientifici (si fa per dire) dedicati alla crisi di Gaza nei vari canali televisivi.
[18] Per non aprire il capitolo sulla c.d. “assimilazione forzata”. La parola d’ordine “Kill the Indian in the boy” ha costituito il motto del programma educativo canadese per generazioni, parola d’ordine scandita addirittura con orgoglio da generazioni di maestre convinte di fare il bene, di essere una sorta di missionarie (ed in effetti, prima o dopo bisognerà anche parlare dei disastri compiuti dai missionari “veri” negli altri continenti).
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Lauso Zagato, giurista, già docente di Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato anche titolare del corso di Diritti umani e politiche di cittadinanza presso il Corso di laurea specialistica in Interculturalità e cittadinanza sociale della stessa Università. Si è occupato in particolare di problemi legati ai profili internazionali e comunitari della protezione della proprietà intellettuale, di diritto umanitario e di tutela dei beni culturali nei conflitti armati, nonché del patrimonio culturale intangibile e delle identità culturali delle minoranze e dei popoli indigeni. Tra i suoi lavori: La politica di ricerca della Comunità europea (1993); La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato all’alba del secondo Protocollo 1999 (2007). Ha curato il volume collettaneo Verso una disciplina comune europea del diritto d’asilo (2006) e, più recentemente: Le culture dell’Europa, l’Europa della cultura (2012 con M. Vecco); Citizens of Europe. Culture e diritti (con M. Vecco); Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017 (con S. Pinton); Il genocidio. Declinazioni e risposte di inizio secolo (2018, con L. Candiotto); Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale (2019, con S. Pinton e M. Giampieretti). È stato tra fondatori, e poi Direttore, del Centro studi sui diritti umani. Attualmente coordina il gruppo di ricerca su “La difesa del patrimonio e delle identità/differenze culturali in caso di conflitto armato”, che opera sotto l’egida della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace. Con l’associazione Faro Venezia, di cui è membro attivo, partecipa poi al dibattito pubblico in corso di approfondimento sulla nozione di patrimonio controverso e sul suo significato nella situazione geopolitica attuale.
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