di Walter Nania
Quando si parla di famiglie straniere bisogna considerare che si tratta anzitutto di famiglie migranti. Sarebbe fuorviante definirle senza partire da questa semplice osservazione. L’esperienza migratoria di sicuro rappresenta un trauma perché vengono ulteriormente modificati i legami all’interno della famiglia, ancor più se a compiere la migrazione è un giovane. Con lo stabilirsi in un territorio straniero, la vita familiare dei migranti va rimodulata, subisce trasformazioni che producono forme nuove di vita quotidiana in un’interazione dinamica tra dimensioni strutturali, aspetti culturali e scelte soggettive [1].
Se nelle famiglie migranti si mescolano stili educativi, è certo che tra elaborazioni culturali e incertezze, i nuclei familiari giochino un ruolo di primo piano. Un elemento della famiglia di solito si muove per primo, facendo da apri-pista agli altri componenti. Così ha inizio l’iter migratorio, a cui segue un periodo di riunificazione familiare, più o meno diluito nel tempo.
“D: Quando sei arrivata qui?
R: Nel 2007. Mio padre era qui da 20 anni e ho fatto ricongiungimento familiare”. (Samira)
“D: Quanti siete a casa?
R: Siamo in quattro a casa. Prima è venuto mio padre. È venuto qua lui prima perché c’erano degli amici che lavoravano qua a Palermo. Poi siamo arrivati io, mia madre e mio fratello. Mia madre è casalinga e mio padre lavora nelle pulizie”. (Amin)
“(…) In famiglia siamo io, mia madre, mio padre, mia sorella e mio fratello. Io sono il più grande. Mio padre è venuto prima e poi io con mia madre e mia sorella. L’altro mio fratello piccolo è nato dopo, in Italia. Mio padre aiuta in negozio da un suo amico, mia madre fa le pulizie a casa”. (Arvind)
Dunque un momento iniziale di separazione serve al primo migrante che si attiva sia per cercare e ottenere un lavoro che per trovare un’abitazione, predisponendo così il terreno per il ricongiungimento. Al termine del percorso, avviene la ricomposizione del nucleo originario attraverso il trasferimento dei familiari nella società ricevente. Spesso queste partenze contribuiscono a ridefinire le relazioni familiari al loro interno, e in un simile contesto questo ruolo di apripista è molto importante per comprendere le dinamiche educative che poi si riversano sui comportamenti dei figli.
Durante l’indagine di campo che ho condotto, una delle domande poste costantemente ai ragazzi, così come ai genitori, è stata relativa alla scelta scolastica. Dietro un’apparente libertà di scelta, espressa sia dagli studenti che dai genitori, ci sono fattori soggiacenti più profondi. La famiglia che negli anni precedenti l’iscrizione alle scuole superiori ha aiutato, per quanto possibile il figlio a studiare, esercita una forma, benché velata, di pressione sulla scelta scolastica. Ma l’analisi dei fattori che determinano l’orientamento e pongono le basi per la riuscita scolastica dei giovani di origine immigrata, permette di isolare un insieme di criticità, all’interno delle quali si situa anche la famiglia.
Non si può non considerare che il sistema scolastico italiano richieda una scelta piuttosto precoce: dopo un primo momento di istruzione comune, bisogna scegliere in base o alle proprie competenze e abilità o in base alle prospettive lavorative. Gli insegnanti a volte indirizzano gli studenti, e non è da escludere che non sia accaduto anche nel caso dei ragazzi intervistati, ma effettivamente non è emerso mai un racconto che facesse riferimento ad un loro intervento o consiglio sul percorso da seguire. Nel caso di una sdecisione autonoma, questa sembrerebbe dettata dalla volontà di seguire indirizzi che sembrano essere più confacenti alle proprie attitudini, ma le motivazioni reali sottese sono altre. Da un lato, il valore strumentale, come ad esempio l’importanza di studiare le lingue nel caso degli studenti che frequentano un liceo linguistico per recarsi all’estero o tornare in patria. Dall’altro, pesano le affermazioni delle madri. C’è chi afferma anche di avere lasciato che i figli seguissero i propri amici:
“D: Come mai la scelta della scuola?
R: Con un compagno che andava alle medie hanno deciso di fare alberghiero, così lavoravano subito”. (Anas)
Dietro il supposto vincolo di amicizia, segue l’affermazione strumentale della scelta, il lavoro, che la madre appoggia. Anche Zakiafa riferimento ad un vincolo di amicizia:
“(…) Mia figlia ha una cara amica che frequenta già dalle medie, che è palermitana. Ora vanno in classe alle superiori insieme e sono amiche da allora. Lei viene a casa mia e non ci sono problemi”. (Zakia)
Al momento dell’intervista, nella fase di presentazione, Zakia giunge all’appun- tamento con l’amica della figlia, e prima di iniziare l’intervista mi racconta della loro lunga conoscenza e degli studi che hanno proseguito insieme. Il suo racconto di un episodio di discriminazione subìto da sua figlia, ha messo in luce che se fino alle elementari, trattandosi di bambini, il gruppo in classe può rimanere omogeneo e al massimo diviso in gruppi connotati dal genere, già alle scuole medie emergono le prime distinzioni culturali e identitarie, per cui si consolidano rapporti di amicizia e solidarietà che possono fare da traino per la scelta successiva degli studi.
Dalle interviste emerge la tendenza al realismo del futuro degli adolescenti stranieri: nessuno degli intervistati ha parlato di lavori desiderati, inseguiti, a Palermo. Elemento costante è stato il riferimento al lavoro come forma di sostentamento e benessere economico, ma non come aspirazione alla realizzazione. Non è possibile parlare di una vera e propria regolarità, ma di sicuro nel contesto palermitano indagato l’aspirazione è bassa. La diffusa disillusione si proietta anche nelle madri dei ragazzi, se non addirittura potrebbe nascere in prima istanza da loro stesse:
“D: Lei immagina la vita di sua figlia qui o altrove?
R: Questo dipende dai figli, da loro. Se lo trovano qui bene, altrimenti devono andare se non trovano lavoro qui. Mia famiglia ogni tanto parla del futuro fuori all’estero.
D: E dove?
Z: Le piacerebbe andare in Francia, perché lì sarebbe più agevolata. Lei se trova qui bene, altrimenti deve andare”. (Zakia)
“D: Sua figlia rimarrà a Palermo o altrove?
R: Forse da altre parti. In Italia si studia ma non si può fare molto. Dall’altra parte in cui c’è qualcuno che parla inglese, tipo America o Londra, forse è meglio perché possiamo parlare e lavorare”. (Asana)
Questo sentimento è diffuso anche tra i ragazzi, i quali hanno prospettive molto limitate per il loro futuro a Palermo:
“D: Dove ti vedi tra qualche anno?
R: Non lo so, forse non qui. Non c’è da lavorare. Voglio andare all’estero”. (Arvind)
“D: Vuoi continuare a studiare? E dove ti vedi fra qualche anno?
R: Vorrei finire gli studi e diplomarmi e poi mi piacerebbe l’Inghilterra”. (Sammy)
Samira e Achraf sono più in bilico in questa diatriba sul futuro. Samira è più decisa nel rimanere qui e costituire un’associazione con Achraf il quale, dal canto suo, se è vero che si sta adoperando per crearla effettivamente, contemporaneamente dichiara di voler andare via. Le prospettive future, spesso assenti, sono una delle motivazioni principali che spingono anche le stesse famiglie ad una scelta strumentale dell’indirizzo scolastico del figlio. Non si scorge la possibilità di un futuro sereno, dove per futuro s’intende sempre l’equivalenza con la certezza economica. Resta purtroppo forte, e condivisibile, l’opinione per la quale è necessario fare i conti con le possibilità concrete di produzione di un reddito. Per questo i genitori influenzano in maniera positiva la motivazione allo studio spingendo, o almeno mediando con i ragazzi, perché si concentrino su scuole i cui titoli sono convertibili in lavoro al momento del conseguimento del diploma.
“Non sono brava con lo scientifico, non sono molto attratta dalla letteratura italiana. Anche se ero in Marocco, facevo questo. Potevo fare, meno pesante, il professionale e l’alberghiero. Ma in mezzo a questi c’era il linguistico. Mi dicevo che se faccio lo scientifico, poi come posso fare a lavorare? Poi che faccio? Non so se rimarrò qui tutta la vita, quindi con un linguistico posso anche muovermi, conoscendo le lingue. Me l’ha consigliato anche mio padre.
D: In che senso ti ha consigliato tuo padre?
R: Lui mi ha detto di muovermi così, non mi ha obbligato, mi ha consigliato, ha insistito per fare questo. Oltre al linguistico si studia anche altro ma in modo meno pesante”. (Samira)
Non mi ha obbligato, mi ha consigliato, ha insistito per fare questo. Le pause brevi che utilizza Samira nella descrizione della scelta sono esemplificative. Muovendosi sulla base di un consiglio, c’è uno sguardo attento alla spendibilità nel mondo del lavoro, che guarda in questo caso alla conoscenza delle lingue straniere come elemento essenziale nell’ipotesi di trasferimento all’estero. In taluni casi, come riferisce Soufiane, a seguito di ripensamenti sull’indirizzo scolastico, ripetenze e rinegoziazioni sui percorsi da intraprendere, i genitori spingono verso un indirizzo considerato più appropriato:
“D: Come mai la scelta dell’alberghiero?
R: Voleva fare nautico. Ha provato ma ha perso l’anno. Poi è stato fermo l’anno dopo. Il terzo anno ha detto che voleva fare disegno, voleva fare il liceo artistico ma noi abbiamo consigliato alberghiero”. (Soufiane)
Zakia invece si inscrive tra quei genitori che sin da subito pressano in qualche modo perché la figlia scelga un determinato indirizzo:
“D: Come mai la scelta della scuola?
R: Noi abbiamo lasciata libera. Lei forse voleva fare il linguistico però magari mio marito le ha detto che col linguistico c’erano meno possibilità, poteva fare anche un corso accelerato. Poi voleva lavorare magari appena uscita dalla scuola. Fa il magistrale”. (Zakia)
Zakia dice di avere lasciato libera la figlia di scegliere, salvo poi affermare che a seguito del consiglio paterno, adesso frequenta il magistrale anziché il linguistico, come le sarebbe piaciuto.In generale, però, sebbene la famiglia orienti le decisioni dei figli, specie verificando quali siano le prospettive occupazionali del corso di studi prescelto, le aspirazioni familiari e quelle dei ragazzi si equivalgono: non ho riscontrato ambizioni differenti tra le due parti in causa. I giovani non hanno espresso disagio in tal senso e hanno scelto in base ai valori di cui la famiglia stessa è portatrice.
Scendendo più nel dettaglio di queste tipologie familiari oggetto d’analisi, si possono individuare dinamiche di relazione con i genitori a seconda del rispettivo genere. Una di queste è connessa alla funzione educativa. Trattandosi di studenti che frequentano le scuole secondarie di secondo grado e in buona parte dei casi già maggiorenni, una costante sta non tanto nell’aiuto diretto allo svolgimento dei compiti, quanto nel seguire i figli e tenersi aggiornati sul loro rendimento scolastico. In relazione allo studio, il capitale umano delle famiglie di provenienza e il tipo di relazione che si instaura tra i suoi componenti, possono giovare nell’acquisizione di fiducia nelle proprie capacità e che più sicurezza possa anche tradursi in un maggiore impegno nello studio.
Questa breve riflessione è soltanto teorica, perché di contro la famiglia stessa può favorire forme di isolamento. I giovani si trovano inevitabilmente a confrontarsi con le proprie radici, «stretti fra due mondi»[2]. Il ragazzo si pone come primo mediatore linguistico culturale della famiglia. È colui il quale impara prima la lingua, meglio e più rapidamente rispetto ai genitori, grazie all’interazione quotidiana con i coetanei e con il contesto scolastico nel suo insieme. Se i figli sono più competenti dei genitori, oltre a indebolirne le figure, causa imbarazzo rispetto alle incapacità degli adulti di riferimento. Il rischio è che in un processo, quello migratorio, che mette a dura prova l’unità familiare, i genitori si autoescludano.
A scuola si può leggere attraverso l’alunno il livello di integrazione delle famiglie immigrate con figli. Il problema della lingua, che spesso sembra riguardare il ragazzo, per via della comprensione delle lezioni o della studio da svolgere a casa, si è rivelato come più contingente le famiglie. Nessun intervistato ha affermato di non essere in grado di comprendere i testi. Dopo un breve periodo, spesso misurabile in pochi mesi, gli alunni, grazie alle relazioni interpersonali scolastiche ed extrascolastiche, riescono ad impadronirsi della lingua. Essa dunque s’inserisce a pieno titolo nel rapporto tra genitori e figli perché rischia di essere l’elemento che esclude i genitori dalla partecipazione alla vita scolastica, sia in termini di colloqui periodici con gli insegnanti, che per l’aiuto nello svolgere i compiti a casa.
Ho avuto modo di riscontrare questo dato di riflessione durante l’indagine stessa, nella misura in cui le risposte ottenute alle domande poste sono sempre state piuttosto concise. I genitori si sono mostrati lusingati, a volte quasi intimiditi dall’interesse mostrato nei loro confronti, ma il problema della lingua, tranne nel caso di Zakia, si è sempre manifestato in tutta la sua portata, erigendo un muro nella comunicazione tra intervistatore ed intervistato. Spesso è stata la volontà e l’aiuto dei figli, senza che questa si trasformasse in un’ingerenza vera e propria, a permettere di effettuare le interviste.
Quando ci si confronta con giovani stranieri è necessario considerare che si tratta di persone che mediano tra due universi culturali spesso molto differenti l’uno dall’altro. Per un verso la scuola riveste un ruolo centrale nella definizione delle traiettorie di inserimento, ma al contempo non si può non considerare che nella famiglia il giovane riceve stimoli o freni a questo processo. La famiglia è anche luogo in cui si mantiene l’identità etnica, attraverso l’uso della lingua d’origine o insistendo sul mantenimento di forti radici culturali. Viceversa ho incontrato anche genitori che promuovono una logica “meticcia”, un’adesione sia a modelli culturali di provenienza che a quelli della società di arrivo. Resta difficile individuare quale sia la “cassetta degli attrezzi” del giovane straniero. Che il suo processo identitario sia in fase di continua negoziazione pare evidente: quando si è stretti tra due contesti culturali e valoriali ci si può accompagnare con un’idealizzazione nostalgica del Paese d’origine, magari anche promossa da genitori non soddisfatti dell’esperienza migratoria, o al contrario da una messa in discussione e una negazione dei modelli culturali, e spesso anche familiari, del Paese d’origine con una forte spinta all’assimilazione. L’elemento di pericolo, che si riverbera anche in scarsi risultati scolastici, è di non essere riconosciuti del tutto in nessuno dei due contesti, prigionieri della loro “doppia assenza” [3].
Gli elementi che Sara Biscioni ritiene particolarmente interessanti per evitare incomprensioni a scuola, e che sono definiti come “oggetti scolastici”, sono l’obbligo scolastico stesso, la mescolanza del genere, il tempo della scuola, gli oggetti che vengono utilizzati quali i libri o altri materiali, i voti e lo studio individuale, le relazioni tra scuola e famiglia. Quest’ultimo punto è quello che spesso, secondo l’autrice, viene considerato come problematico [4]. Di solito accade che la scarsa partecipazione familiare alla vita scolastica venga letta nei termini di disinteresse rispetto all’andamento scolastico dei figli. In realtà, alla base di questi comportamenti, risiedono due ordini di problemi. Uno riguarda la perdita del ruolo di guida dei genitori, in primis per via della minore conoscenza della lingua e per una minore permeabilità agli impliciti culturali della società ricevente. Il secondo è relativo a una questione pratica, ovvero alla difficoltà di conciliare i tempi di lavoro con quelli della scuola e dello studio.
Quando i genitori sono invece presenti a casa, non sono capaci di aiutare i figli a livello scolastico in alcun modo. Sono le madri, spesso casalinghe, che non parlano bene la lingua o non la parlano affatto, quelle che gioco forza non possono assolvere alla funzione di guida nell’apprendimento. Invece, stando sia alle parole dei genitori che a quelle dei figli, traspare una volontà di essere messi a conoscenza dell’andamento scolastico, ma spesso direttamente dai figli che recandosi a colloquio con gli insegnanti. I figli vengono lasciati soli sia nello studio che nei rapporti con la scuola, soprattutto in considerazione della loro maggiore età. Soltanto Mia si mostra parte attiva alle riunioni con gli insegnanti, ma demandando il marito. Alla domanda se sia o meno partecipe alla vita scolastica, a proposito del dialogo con i professori, risponde: “Poco poco, ci va mio marito”.
“D: E il suo rapporto con gli insegnanti?
R: Non c’è, ci penso io, lei non va a scuola e faccio tutto io. Anche gli insegnanti dicono tutto a me, sono maggiorenne. Però lei sa tutto, io non le nascondo niente. È informata”. (Achraf)
“ (…) però mia madre c’è sempre. Mi chiede come va, se ho studiato, cosa ho fatto a scuola.
D: E ti aiuta a studiare se hai difficoltà?
R: Mia madre sempre in francese, che ha studiato e ha il diploma, ma prima. Da quando sono al liceo vado da sola”. (Mansoura)
“(…) Mia madre non partecipa, non c’è. Me la sbrigo io. Poi a me non mi piace che si intromettano nella mia vita privata. Loro mi vogliono bene, mia madre mi chiede come vado a scuola ma me la devo sbrigare da solo”. (Sammy)
Altro elemento interessante da considerare è il rapporto tra genitori. Quando possibile, ho chiesto loro se conoscessero altri genitori e hanno risposto quasi sempre in negativo, a meno di non fare riferimento alle conoscenze tra connazionali:
“D: Altri genitori li conosce?
R: Sì, del Bangladesh.
D: Compagni di classe stranieri ce ne sono?
R: No”. (Mia)
“D: Rapporti con altri genitori?
R: Solo la madre di Achraf, poi nient’altro”. (Samira)
“D: Conosce genitori dei compagni di suo figlio?
R: Non conosco loro, ho visto una volta i genitori di Ibrahim, un compagno di classe di mio figlio”. (Soufiane)
Analizzare le famiglie e il loro rapporto con il mondo della scuola, quindi anche istanze e aspettative di cui sono portatrici, è punto focale per analizzare i risultati scolastici dei giovani stranieri e con essi le possibili cause di dispersione. Diversi fattori possono concorrere a determinare le possibili cause di dispersione scolastica di parte degli alunni migranti, i quali oltre a
«condividere lo svantaggio competitivo con i figli di italiani delle classi sociali più sfavorite debbono superare ulteriori ostacoli, più direttamente legati alla loro condizione di immigrati» [5].
Le storie dei giovani e delle loro famiglie sono quelle di chi, i primi, sono apparsi come non in grado di superare la condizione di precarietà dei secondi: ovviamente all’interno di una cornice complessa e sfumata in cui il capitale umano e sociale, spesso insufficiente, interagisce con un sistema scolastico che tende a reiterare le differenze di appartenenza. I ragazzi intervistati sono studenti che partono già svantaggiati rispetto agli italiani perché in ritardo con l’età anagrafica. Evitano di scegliere indirizzi prestigiosi o di proseguire gli studi, rimanendo legati a un destino che impedisce loro di emanciparsi pienamente, e sono figli di padri e madri migranti, famiglie ricongiunte il cui vissuto migratorio pesa perché ha sminuito l’autorità genitoriale, li ha costretti a orari di lavoro che non permettono di seguire i figli i quali spesso, come mostrato, cominciano a parlare una lingua che a volte i genitori non conoscono.
Genitori che si devono reinventare dunque, anche loro vittime di quella doppia assenza che li fa muovere tra l’apertura e la conservazione. Gli studenti, così come i loro genitori, vivono la esperienza scolastica in maniera disillusa, acquisendo un atteggiamento decisamente pragmatico nei confronti dello studio e finalizzato al raggiungimento di un seppur minimo reddito. Per quasi tutti la fine della scuola è attesa come il passaggio alla ricerca del lavoro, ma per molti nella consapevolezza di attività incerte, precarie e frammentate. Ad ogni modo non tutti gli aspetti emersi sono negativi. Rispetto a situazioni riscontrabili in altri contesti, la realtà palermitana nel suo insieme non esprime episodi di intolleranza diretta allo straniero in quanto tale. Così come, contrariamente a quanto espresso dalla letteratura, non ho mai rilevato figure di insegnanti che hanno discriminato consigliando ad esempio iscrizioni ad istituti superiori considerati più semplici.
Per concludere, nonostante la complessità di ogni analisi sulla migrazione a causa della molteplicità dei vissuti che la caratterizzano, una riflessione specifica merita la famiglia, che può configurarsi sia come risorsa sia come elemento negativo rispetto ai percorsi scolastici dei figli. Una variabile fondamentale è rappresentata dalle relazioni e dalla partecipazione costante ai percorsi scolastici dei figli. Il coinvolgimento dei genitori, in termini di maggiore partecipazione alla vita scolastica e di stimolo, potrebbero concorrere a diminuire le cause di dispersione scolastica. Alla luce delle svariate difficoltà legate all’inserimento, questi processi rischiano di cadere in retorica o di apparire irrealizzabili. Si potrebbe partire dal superamento dell’orientamento tradizionale, non inserendo gli alunni indietro rispetto all’età anagrafica, valorizzandoli nelle discipline che meglio conoscono e intervenendo sui parametri di valutazione. Tenere aperte quanto più possibile gli edifici scolastici, anche servendosi di associazioni che operano a livello locale, perché diventino luogo di socializzazione nelle ore pomeridiane. Coinvolgere le famiglie attraverso materiale informativo in lingua per far loro conoscere più nel dettaglio gli indirizzi scolastici e soprattutto gli effettivi sbocchi lavorativi del territorio.
Non fare ciò significa, attraverso l’operazione di negazione delle potenzialità dei ragazzi e delle risorse di cui le loro famiglie sono portatrici, agire in maniera negativa sui rapporti interetnici di domani. Molti degli intervistati sono già ragazzi cresciuti, e come tali bisogna confrontarsi con loro. Quando usciranno da una scuola che li avrà penalizzati, si scontreranno con maggiore frustrazione con una realtà che non prevederà più progetti di integrazione culturale perché ormai fuori target. Il rischio è rimpiangere le occasioni perdute e rammaricarsi di avere fornito loro una pessima cassetta degli attrezzi.
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
Note
[1] Cfr. Maurizio AMBROSINI, Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2005.
[2] Cfr. Elena BESOZZI, Manuela COLOMBO, Maria Grazia SANTAGATI, Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte, Milano, FrancoAngeli, 2009.
[3] Cfr. Abdelmalek SAYAD, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina, 2002.
[4] Cfr. Sara BISCIONI, op. cit.
[5] Gianpiero DALLA ZUANNA, Patrizia FARINA, Salvatore STROZZA, Nuovi Italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, Bologna, Il Mulino, 2009: 36.
Riferimenti bibliografici
AMBROSINI Maurizio, Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2005
BARBAN Nicola, I figli degli immigrati e la scelta della scuola superiore in Italia, in Neodemos. Popolazione Società e Politica, http://www.neodemos.info/i-figli-degliimmigrati-e-la-scelta-della-scuola-superiore-in-italia/#more-2417, 2010
BISCIONI Sara, Gli esiti scolastici delle seconde generazioni nella scuola superiore: riflessioni e proposte, https://www.academia.edu/1872434/Gli_esiti_scolastici_delle_seconde_generazioni _nella_scuola_superiore_riflessioni_e_proposte_-_versione_estesa, 2012
BESOZZI Elena, COLOMBO Manuela, SANTAGATI MariaGrazia, Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte, Milano, FrancoAngeli, 2009
CESCHI Sebastiano, Esistenze multisituate. Lavoro, condizione transnazionale e traiettoria di vita migrante, in “Mondi Migranti”, n.2, Milano, FrancoAngeli, 2007 :129-152
COLOMBO Enzo, Introduzione: una riflessione sulla costruzione dei confini sociali e sulla genesi dei processi di identificazione e di esclusione, in “Mondi Migranti”, Milano, FrancoAngeli, n. 1, 2008: 23- 42
D’IGNAZI Paola, Ragazzi immigrati. L’esperienza scolastica degli adolescenti attraverso l’intervista biografica, Milano, FrancoAngeli, 2008
DALLA ZUANNA Gianpiero, FARINA Patrizia, STROZZA Salvatore, Nuovi Italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, Bologna, Il Mulino, 2009
GRASSO Maria, Il successo scolastico dei giovani figli dell’immigrazione: il ruolo della famiglia come capitale sociale, in “Rivista Italiana di Educazione Familiare”, n. 1, http://www.fupress.net/index.php/rief/article/viewFile/16390/15351, 2015, 201 – 216
LAGOMARSINO Francesca, RAVECCA Andrea, Il passo seguente. I giovani di origine straniera all’Università, Milano, FrancoAngeli, 2014
PATTARO Chiara, Scuola e migranti. Generazioni di migranti nella scuola e processi di integrazione formale, Milano, FrancoAngeli, 2010
RAVECCA Andrea, Studiare nonostante. Capitale sociale e successo scolastico degli studenti di origine immigrata nella scuola superiore, Milano, FrancoAngeli, 2009
SAYAD Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina, 2002
SOSPIRO Gabriele, Tracce di G2. Le seconde generazioni negli Stati Uniti, in Europa e in Italia, Milano, FrancoAngeli, 2010
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Walter Nania, laureato in Beni Demoetnoantropologici all’Università di Palermo, ha conseguito la laurea specialistica in Antropologia culturale e Etnologia a Bologna. Successivamente ha lavorato presso lo SMA (Sistema Museale dell’Ateneo di Bologna), prestando servizio al museo di Antropologia. Ha frequentato la scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università di Perugia e svolto attività di ricerca presso il Museo delle Culture di Lugano. È fondatore dell’Associazione di promozione sociale “Logiche Meticce”, fa parte del collettivo SOS Ballarò e si occupa di immigrazione e seconde generazioni, collabora dal 2015 con l’Istituto di Formazione Politica “Pedro Arrupe”-Centro Studi Sociali.
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