Il rapporto tra antropologia e diritti umani si configura sin dal 1948, anno della pubblicazione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, come un rapporto conflittuale e mai risolto. Ciò che sta alla base di questa “conflittualità” riguarda il fatto che sin dalla loro nascita, o sarebbe meglio dire istituzione, i diritti umani si sono configurati come universali, ossia riconoscibili a tutti gli individui per il solo fatto di appartenere alla specie umana, a prescindere dal proprio credo, orientamento sessuale o “razza”. Come è ben noto, invece, l’antropologia, e in particolar modo l’antropologia americana dei primi decenni del Novecento, ha spesso respinto qualsiasi tipo di paradigma universalista, ritenendolo inadatto a rendere conto della irriducibile variabilità umana. Il sistema teorico necessario a descrivere le culture (plurale) umane sarebbe dunque il relativismo, ossia quell’apparato interpretativo che riconosce l’esistenza di differenti culture, e dunque anche sistemi morali, e gli attribuisce uguale dignità e valore.
Nello specifico la diatriba tra universalismo e relativismo culturale, per quanto riguarda l’ambito dei diritti umani, si manifestò in modo quasi estremo sin dal 1947, ossia l’anno precedente alla pubblicazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In questa data, infatti, «American Anthropologist, rivista ufficiale dell’American Anthropologist Association (AAA), pubblicò un documento intitolato Statement on Human Rights» (González Díez, Vargas, 2010: 78). Il testo, redatto da Herskovits, allievo di Franz Boas, nasceva da una richiesta sollevata direttamente dall’UNESCO, che stava raccogliendo opinioni e pareri, dentro e fuori dal mondo accademico, per inviarli poi alla commissione delle Nazioni Unite, proprio in vista della stesura della Dichiarazione. «L’articolo è molto interessante perché sottolinea alcuni aspetti che diventeranno centrali nell’articolarsi del dibattito sul relativismo culturale e perché introduce un tema fondamentale nel discorso sui diritti umani, quello della relazione inscindibile che esiste tra l’individuo e la cultura di appartenenza» (Biscaldi, 2009:19).
Ancora prima della pubblicazione ufficiale del documento delle Nazioni Unite il mondo dell’antropologia si mostrò fortemente critico nei confronti della possibilità di redigere una Dichiarazione che presentasse come naturali ed universali dei principi che nascevano invece all’interno di un preciso clima storico e politico, ancora intriso, peraltro, di puro colonialismo. Occultare la determinazione storica e politica della nascita del concetto di diritti umani equivaleva dunque ad ignorare le differenze culturali dei diversi contesti in cui i diritti sarebbero stati poi “praticati” e, non meno importante, a legittimare la promozione e la divulgazione, quando non l’imposizione, di principi occidentali in contesti profondamente differenti. Queste due differenti concezioni teoriche hanno portato nei decenni, da una a parte, alla naturalizzazione e alla sacralizzazione dei diritti umani avanzata da un certo fronte scientifico-politico, sotto il cui vessillo si sono spesso compiuti atti contraddittori rispetto ai principi cardine della Dichiarazione, soprattutto in termini di violenza simbolica e culturale, e, dall’altra, alla cinica e silenziosa accondiscendenza del mondo antropologico nei confronti di azioni spesso atroci in virtù della preservazione della diversità culturale.
Certamente l’accettazione acritica di una delle due posizioni condurrebbe a risultati estremi e disastrosi, entrambi per motivi opposti. Di contro, arrendersi alla impossibilità di prendere una posizione, che si riconosca come coscienziosa, tra i due poli estremi di un universalismo dogmatico e di un relativismo arrendevole e nichilista equivarrebbe a gettare le armi di fronte alla possibilità che le scienze umane possano effettivamente dare un valido contributo al miglioramento della condizione umana che, come la storia ci insegna, troppe volte è stata oggettivamente svilita. Ed è a questo proposito che appare necessario trovare un punto di conciliazione tra questi due estremi che consenta di trarre beneficio teorico da entrambe le prospettive. Da una parte, il relativismo ha il grande pregio di aiutarci a problematizzare e ad osservare da una prospettiva differente ciò che la nostra cultura sin dalla nascita ci insegna a considerare come “naturale”, ovvero – per usare le parole di Geertz – a cercare di «comprendere ciò che non possiamo accettare» (Geertz, 1986, in Borofsky, 2000: 554). Dall’altra, un universalismo partecipativo ci consente di riconoscere noi stessi nelle fragilità degli uomini e delle donne che, oggi più che mai, vivono al nostro fianco, salvandoci dal rischio di diventare automi, ciechi di fronte alle abiezioni della contemporaneità. Sebbene non si possa forse parlare di valori universali si può, come suggerisce Amartya Sen, riconoscere
«l’importanza intrinseca della partecipazione politica e della libertà nella vita umana; […] l’importanza strumentale degli stimoli politici per assicurare che i governi siano responsabili e giudicabili di fronte al popolo; […] il ruolo costruttivo della democrazia nella formazione di valori e nella definizione di bisogni, diritti e doveri» (Sen, 2004: 66-67).
In questo quadro vanno considerati senz’altro anche gli effetti della globalizzazione che, congiungendo ambienti tra di loro geograficamente e culturalmente disomogenei, hanno reso possibile la connessione di idee e movimenti sociali mettendo in crisi gli antichi vincoli di appartenenza strettamente legati ai concetti nazionali, basti pensare alla cosiddetta Primavera araba, o ai più recenti flussi migratori per sfuggire a sistemi totalitari o a situazioni di privazione delle libertà individuali. Cercare di capire ed interrogarsi su questi aspetti del problema costituisce dunque, in questo senso, un’azione fortemente politica.
Sebbene la questione rimanga aperta e necessariamente insoluta è bene riflettere e soffermarsi sul fatto che la critica antropologica può essere ancora utile a problematizzare i principi basilari dei diritti umani, percepiti nella maggior parte dei casi come una verità naturale e quindi dogmatica, cercando di creare una «interfaccia tra principio e pratica» (Dembour, 2001:72). Ciò è testimoniato, per esempio, dalla sottoscrizione nel 1981, a più di trent’anni dalla pubblicazione della Dichiarazione, della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, entrata in vigore poi nel 1986. All’interno di questo documento, adottato dalla Conferenza dei capi di stato e di governo dell’Organizzazione dell’Unità Africana, si poneva l’accento su concetti estranei al mondo occidentale, come quello dell’autodeterminazione dei popoli e del principio comunitario (invece che individualista) alla base di molte società dell’Africa, intorno ai quali si sviluppavano tutti i valori della Carta africana. Ciò rimanda ancora una volta all’attualità del pensiero di Herskovits, il quale già negli anni ’40 del Novecento sosteneva che fosse impossibile tutelare la libertà e l’integrità dell’individuo, prescindendo dalla sua appartenenza ad una società.
«Secondo Herskovits, una dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che non voglia essere etnocentrica e autocelebrativa, può essere formulata solo a partire dal riconoscimento che ogni uomo vive in una società. Dal momento della nascita, infatti, ogni credenza, comportamento, aspirazione, valore dell’individuo sono modellati dagli usi del suo gruppo sociale» (Biscaldi, 2009: 19).
L’esistenza stessa dell’individuo si realizza infatti solo all’interno di precise coordinate culturali e sociali, che ne plasmano l’entità stessa. Il riconoscimento dei diritti dell’individuo sarebbe dunque possibile solo all’interno dell’accettazione della cultura dell’individuo stesso.
Come si può facilmente intuire il problema non è di semplice soluzione. Tuttavia, almeno in linea teorica, si sarebbe portati a pensare che i problemi principali o le dinamiche di attrito più significative, tra teoria dei diritti e pratica dei diritti, siano da riscontrarsi nei casi in cui i diritti vengano esercitati “fuori”, ossia in società i cui paradigmi etici e morali differiscano da quelli dei Paesi di influenza pressoché euro-americana, in cui la Dichiarazione dei diritti dell’uomo ha avuto origine. Si scopre invece – contrariamente alle aspettative e ai pronunciamenti – che anche nei Paesi occidentali, cosiddetti “esportatori di democrazia”, si registrano non pochi casi di violazione dei diritti umani. Mi riferisco in particolar modo ad alcuni episodi piuttosto recenti che hanno come protagonista proprio l’Italia. Un fatto di cronaca esemplificativo di questo tipo di fenomeni, che ultimamente avvengono con maggiore frequenza di quanto si possa pensare, riguarda la condanna, nel settembre 2015, dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a causa dell’espulsione collettiva di tre cittadini tunisini che sono stati respinti dal territorio italiano senza poter usufruire del proprio diritto ad un trattamento giuridico individuale [1]. Il diritto internazionale riconosce, infatti, come diritto inalienabile quello di poter aver accesso ad un giusto processo legale, compresa la possibilità di ricorrere a procedure individuali e non collettive, come nel caso qui in esame.
Oltre ad episodi di questo tipo che costituiscono atti di diretta violazione dei diritti umani, le decisioni prese, nel corso dei mesi più recenti, in temi di gestione dei flussi e di politiche migratorie da parte dei Paesi membri del’Unione Europea sembrano aver portato all’evidenza una tendenza ad agire in modo pressoché contradditorio rispetto ai principi e alle radici liberal-democratiche su cui si fonda il progetto comunitario europeo. La chiusura e la violenta militarizzazione delle frontiere in Ungheria o, ancor di più, il diniego di attraversamento del confine fra l’Italia e la Francia [2] , così come l’esternalizzazione delle frontiere ai Paesi terzi e l’avanzamento dell’ipotesi di sospendere il Trattato di Schengen, ovvero la possibilità di libera circolazione per i cittadini dell’Unione Europea all’interno del territorio europeo, si presentano come provvedimenti politici che ledono i fondamenti basilari del diritto internazionale in relazione soprattutto all’accoglienza di profughi e richiedenti asilo, categoria fortemente tutelata dal diritto internazionale. L’imposizione ai migranti richiedenti asilo di rimanere nel primo luogo in cui vengono identificati, ossia nel Paese in cui inoltrano la propria richiesta di asilo, come previsto dalla Convenzione di Dublino, senza offrire la possibilità di ricongiungersi con parenti o congiunti che si trovano in altri Paesi dell’Europa, così come previsto anche da una clausola della stessa convenzione (nello specifico si tratta di ricongiungimento con parenti entro il terzo grado), sono provvedimenti che, anche quando rientrino nell’apparato legislativo in senso stretto, minano l’unità del soggetto di diritto, così come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo lo concepisce. Negato è infine il diritto stesso di migrare che – come ha scritto Catherine Wihtol de Wenden (2015) – «è uno dei diritti meno equamente distribuiti tra le diverse zone del mondo», dal momento che «una delle più grandi ineguaglianze dei nostri giorni consiste, in effetti, nel paese di nascita di ciascuno».
All’interno di questo panorama, che è stato definito critico ed emergenziale dalla maggior parte dei media, affiora un altro fattore di non poco conto, la distinzione netta e arbitraria tra due categorie di migranti: i richiedenti asilo, ovvero i profughi, che si trovano nella condizione di dover varcare le frontiere non per libera scelta, ma per necessità, e i cosiddetti migranti economici. Questi ultimi, a differenza dei primi, non sarebbero spinti a migrare perché costretti da condizioni avverse ed insostenibili nel proprio Paese, quali persecuzioni, guerre o torture, ma dal semplice desiderio di partire e cambiare le proprie condizioni di vita, pretesa che anche agli occhi dei più filantropici risulta essere troppo pretenziosa e quasi arrogante, nello stato di cose attuale. Se siamo in emergenza sarà prima di tutto necessario pensare a chi ha bisogno; è necessario dunque rispondere a quei bisogni primari a cui tutti hanno diritto ad adempiere: prima di tutto salvarsi la vita, poi mangiare e avere un tetto sulla testa.
Il risultato paradossale è che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo è sì universale, ma ci sono alcuni soggetti che hanno più diritto di altri, perché si trovano in emergenza. La conseguenza ulteriore di questo paradigma interpretativo è che c’è una precisa gerarchia di diritti, imposta dall’alto, cui i soggetti possono attingere. Varcare le frontiere dell’Europa riesce a garantire il diritto alla vita, a non essere torturati o perseguitati e, nei casi migliori, il diritto alla salute, e i migranti che riescono ad accedere a questi diritti, che una volta raggiunti si tramutano in privilegi, dovrebbero esserne grati. Interessante è, in questo senso, richiamare alla mente ancora una volta il caso di Ventimiglia, dove un gruppo nutrito di migranti di origine africana ha costituito un presidio al confine con la Francia. Lo slogan della lotta che è durata per alcuni mesi era “We don’t need food, we need to pass”. Migrare e rivendicare il proprio diritto alla mobilità appare oggi, dunque, come un vero e proprio atto politico e l’azione di chi si batte per poter scegliere e disporre liberamente della propria vita ricorda la lotta delle lavoratrici immigrate che nel 1912 in Massachussets chiedevano il pane, ma anche le rose, «the right to live, not simply exist» (Verdolini, 2015).
Le politiche migratorie attuate dai Paesi europei hanno, a tutti gli effetti, istituito una scala di priorità dei bisogni, e dunque dei diritti, cui preme rispondere. Ciò che sembra sfuggire è che la creazione di questa scala di priorità è in primo luogo un meccanismo assolutamente illogico (i diritti sono tra di loro interdipendenti), ma soprattutto imposto ai soggetti dall’ esterno. Questo tipo di meccanismo mistifica l’esistenza, anche per i migranti, di quei principi che, all’interno della ideologia liberal-democratica dei Paesi dell’Unione Europea, costituiscono il fondamento della concezione di individuo: tra questi, in primo luogo, il diritto all’autodeterminazione del soggetto. I provvedimenti in merito alla gestione dei flussi migratori minano la libertà di muoversi e di perseguire un progetto migratorio di cui i soggetti siano pienamente consapevoli e che confluisca all’interno dei progetti di vita che ognuno ha scelto per sé.
Questo tipo di approccio al fenomeno migratorio si fonda su una concezione di migrante che spesso non corrisponde a quella reale: un soggetto disperato, costretto a doversi spostare dal proprio Paese di origine. La retorica della disperazione e dell’emergenza sbandierata dall’Occidente appare dunque, ancora una volta, come l’imposizione di una etichetta che i soggetti non hanno scelto per sé, essendo privati della possibilità di poter disporre in modo libero della propria vita. Questa prospettiva di analisi non è di certo nuova e rientra piuttosto in quella corrente della sociologia più recente che pone l’accento sulla capacità di agency dei soggetti all’interno del fenomeno migratorio.
«L’enfasi che qui viene posta sulla soggettività dei migranti, sugli elementi di “ricchezza” di cui essi sono portatori, si propone di contrastare l’immagine dell’immigrato come soggetto debole, segnato dalla sferza della fame e della miseria e bisognoso innanzitutto di cura e di assistenza, che si è ampiamente diffusa, in particolar modo in Italia, negli ultimi anni […]. Sotto il profilo teorico, tuttavia, è necessario notare che quell’immagine ben si presta a riprodurre logiche “paternalistiche”, a iterare un ordine discorsivo e un complesso di pratiche che relegano i migranti in una posizione subalterna, negando loro ogni chance di soggettivazione» (Mezzadra, 2006: 19).
Per quanto i diritti alla mobilità e all’autodeterminazione appaiano indiscussi e assodati nei Paesi che hanno fatto la storia della democrazia, secondo la retorica propinata dalla politica corrente, le condanne che ricevono Paesi come l’Italia portano alla luce le contraddizioni e le difficoltà che il mondo occidentale si trova ad affrontare nel momento in cui questi diritti non riguardano più solo il Cittadino euroamericano (simile al famigerato WASP), ma l’Uomo, quella umanità che non preme più ai confini ma è dentro le nostre città, accanto alle nostre case, vicino al nostro respiro quotidiano.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
Note
[1] http://ilmanifesto.info/strasburgo-condanna-litalia-per-violazione-dei-diritti-umani/
[2] Mi riferisco qui al noto caso di Ventimiglia. Nel giugno del 2015 un gruppo di migranti hanno costituito un presidio permanente sugli scogli di Ventimiglia, una cittadina della Liguria, al confine con la Francia. Lo scopo di questo nutrito gruppo di persone era quello di protestare contro l’identificazione forzata e rivendicare il proprio diritto alla mobilità, al fine di attraversare il confine italiano per recarsi in Francia. Il presidio è durato alcuni mesi e ha visto l’opposizione dura da parte sia delle forze italiane che di quelle francesi.
Riferimenti bibliografici
Biscaldi A., 2009, Relativismo culturale. In difesa di un pensiero libero, Utet Torino
Dembour M.B., 2001, Following the movement of a pendulum: between universalism and relativism. In Cowan, Jane, Dembour, Marie-Benedicte and Wilson, RA (eds.) Culture and rights: anthropological perspectives: 56-79, Cambridge University Press, United Kingdom, Cambridge
Geertz C., 1986, Gli usi della diversità, in Antropologia culturale oggi, a cura di R. Borofsky, 2000, Meltemi, Roma: 546-59
González, Díez,, Vargas, 2010, Diritti umani e differenza culturale, in Pratesi S. (ed.), Questioni di confine. I diritti umani oggi fra antropologia, diritto e politica: 71-109, Edizioni Nuova Cultura Roma
Mezzadra S., 2006, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre corte Verona
Sen A., 2004, La democrazia degli altri, Mondadori Milano
Verdolini V., 2015 Il pane e le rose: nuovi paradigmi culturali di migrazione, in Almanacco, Narrazioni (https://www.che-fare.com/il-pane-e-le-rose-nuovi-paradigmi-culturali-di migrazione/)
Wihtol de Wenden C., 2015, Il diritto di migrare, Ediesse Roma.
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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializzata in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorativa dei migranti stagionali di Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione.
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