di Alessio Angelo
Nell’ambito del progetto di ricerca europeo Euborderscapes condotto dal Centro di Ricerca sulla Complessità dell’Università degli Studi di Bergamo, tra il giugno 2012 e il maggio 2016, abbiamo intervistato il 23 ottobre 2014 presso la sede del Distretto produttivo della pesca il presidente Giovanni Tumbiolo. Lo stesso era stato interpellato più volte come attore e testimone privilegiato delle politiche di frontiera nel Mediterraneo.
La ricerca indagava, infatti, le dinamiche e i processi di costruzione del borderscape europeo e di come esso sia stato plasmato in ambiente post-coloniale e dopo la fine della guerra fredda. Il titolo del progetto: Borders and Socio-Political Landscapes – Changing Border Concepts as Governance, Challenge and Political Innovation in Post-Cold War Europe and the World definiva uno studio sull’evoluzione del concetto di frontiera e di confine che non riguardava esclusivamente il Mediterraneo ma i territori di frontiera dell’Unione Europea. Coordinati dal Karelian Institute dell’Università di Eastern Finland, Enti di ricerca e Università europee, sono state coinvolti nell’indagare le frontiere come luoghi rappresentativi attraverso i quali leggere la complessità contemporanea a più livelli: geopolitico, politico, culturale, sociale, economico. In questo contesto l’Università Degli Studi di Bergamo, nel più ampio quadro degli obiettivi generali del progetto, ha incentrato il proprio campo di indagine nello spazio relazionale di frontiera tra Europa e Africa, passando attraverso il mondo mediterraneo. L’indagine è stata coordinata da Gianluca Bocchi, e realizzata da Chiara Brambilla in qualità di responsabile e Research fellow, e dallo scrivente con l’incarico di collaborazione nell’attività di ricerca etnografica sul campo.
Selezionati alcuni casi di studio emblematici, sulla riva italiana si sono concentrate le ricerche etnografiche nel e sul territorio di Mazara del Vallo e il più ampio contesto della provincia di Trapani, con attenzione alle connessioni con Palermo e Agrigento e i rispettivi entroterra e con riguardo alla costa tunisina: Tunisi/La Goulette, Tabarka, Mahdia, Zarzis e le altre località dalle quali provengono i migranti che vivono a Mazara del Vallo.
Il lavoro svolto dal Distretto della pesca, si inseriva nel dialogo tra le due sponde del Mare Nostrum in una molteplicità di interventi e di esperienze. La figura stessa del Presidente Tumbiolo, simbolico ambasciatore del Mediterrano, era garante di un scambio virtuoso e proficuo tra i due mondi. Il Blue Sea Land (Expo dei Cluster del Mediterraneo, Africa e Medioriente), la promozione della Blue economy, la creazione di un Doc mediterraneo, gli interventi per il rilascio dei motopescherecci siciliani nella cosiddetta guerra del mammellone ( o del pesce) con la Libia, sono solo alcune delle azioni che ci hanno spinto, come ricercatori, ad ascoltare le ragioni, le opinioni, le esperienze di chi come Giovanni Tumbiolo, il Mediterraneo non solo lo ha vissuto, ma è intervenuto a promuovere cooperazione e a produrre realtà e strategie alternative. Le capacità poietiche e di grande impulso all’innovazione e trasformazione sono ciò che più ci rimane impresso di questa grande personalità di imprenditore culturale.
In questa intervista di cinque anni fa si riconosce la passione di un uomo impegnato nella costruzione di sani rapporti nei luoghi di frontiera, e nell’intuizione della fondamentale necessità di generare welfare in contesti maggiormente esposti alla crisi economica, ai conflitti, alle speculazioni politiche. Le parole di Giovanni Tumbiolo, a un anno dalla sua scomparsa, propongono una lettura complessa e intelligente della realtà e del territorio, riecheggiano drammaticamente attuali criticità e ci fanno riflettere sulla condizione emblematica della città di Mazara del Vallo e sul suo ruolo centrale nei dialoghi mediterranei.
«Vorrei che mi parlasse innanzitutto dei progetti di cooperazione nel Mediterraneo, svolti in questi anni dal Distretto della pesca sotto la sua direzione. E nello specifico dei progetti portati a termine con la Tunisia, anche a partire dal protocollo di intesa firmato tra il Distretto produttivo della pesca di Mazara e il Groupement interprofessionnel des produits de la pêche GIPP, sottoscritto nel 2012.
Innanzitutto bisogna segnalare due cose, una positiva e l’altra negativa, quella positiva è che proprio qui in questa enclave di Mazara del Vallo esiste una fra le più importanti comunità tunisine. Ci sono anche rappresentanti di altre nazionalità, però quella tunisina è quella che storicamente ha rioccupato il centro storico e zone limitrofe, la cosiddetta vecchia casbah che poi si potrebbe identificare come una sorta di medina. Un luogo dove oggettivamente il livello di convivenza è eccellente. Nonostante forti differenze tra le comunità che vivono dentro questa enclave, mantenendo gli usi, le consuetudini e anche le abitudini alimentari e soprattutto religiosi, una sorta di pacifica convivenza esiste. Certo c’è una differenziazione molto forte, a volte ci sono dei momenti di conflittualità sociali ma di un livello ordinario. Succede tra tutte le comunità e anche tra i connazionali. La convivenza c’è.
L’altra questione, quella negativa riguarda il settore della pesca e il rapporto tra l’Italia e la Tunisia. Le relazioni tra l’Italia e la Tunisia sono eccellenti, anche tra la nostra realtà locale e quella di alcune località tunisine. Vedo che nel vostro progetto sono inserite alcune città, alcuni punti di riferimento, come Mahdia, Chebba, Sfax, Sousse ma anche La Goulette che sono tutti centri con cui esiste una relazione diretta. Una importante relazione, ma bisogna dire che fra la nostra attività legata al sistema pesca e quella tunisina esiste un conflittualità da oltre cinquant’anni. Mezzo secolo di tensioni in quella che è comunemente chiamata la guerra del pesce. Un’attività molto complessa che negli anni ha visto degli accordi importanti, sovrannazionali, la comune tutela di un ampio spazio di mare, il cosiddetto Mammellone, una zona di ripopolamento attivo. Nel quale scenario si consumano costantemente e puntualmente degli attriti legati al sequestro di imbarcazioni. Qualche volta abbiamo assistito anche al ricorso alle armi, è deprecabile e non dovrebbe mai avvenire, però è accaduto e accade.
Il lavoro che il Distretto produttivo della pesca, competentemente alle materie di cui si deve occupare, è rivolto a creare uno scenario, le condizioni per la riduzione del livello conflittuale ed un innalzamento del livello di cooperazione. Questo si può fare solo attraverso il coinvolgimento comune degli interessi legittimi, con il coinvolgimento delle parti, aumentando appunto, la cooperazione scientifica, produttiva, commerciale. Questo è il campo in cui deve intervenire un distretto industriale, produttivo. E di questo ci siamo occupati in questi anni, con tentativi, incontri, riunioni. Lei citava prima alcuni protocolli, uno dei quali è stato siglato con le due maggiori entità della pesca presenti in Tunisia, il GIPP e L’UTAP che è il sindacato statale. Questi protocolli mirano a creare occasioni di scambio e di intese. A questi protocolli hanno fatto seguito anche dei progetti specifici, finalizzati, ad esempio, a creare un marchio comune del pescato, dei crostacei e dei molluschi di questo tratto di mare, per stimolare i nostri e i loro produttori a viaggiare sulle stesse lunghezze d’onda. Tentare di creare delle regole comuni che tuttavia non ci sono.
La Tunisia non fa parte dell’Unione Europea e quindi non è sottoposta a dei vincoli che derivano dalla regolamentazione comunitaria che in qualche modo pesano sulla nostra flotta, sui nostri operatori. Eppure noi operiamo in uno spazio comune e la competizione, la concorrenza oggi è diventata estrema. La nostra e la loro flotta operano nello stesso spazio marino con forti differenziazioni, gli operatori siciliani hanno costi di produzione decisamente più alti, a partire dal costo energetico, dal carburante. In Tunisia i costi sono ridotti perché, appunto, la Tunisia non deve sottostare a delle regole comunitarie che giustamente la Sicilia deve rispettare. Anche il costo del lavoro è chiaramente diverso. Il rispetto di alcune regole finalizzate agli attrezzi di pesca, basti pensare alle maglie delle reti usate dai pescatori tunisini rispetto a quelle degli europei sono assolutamente diverse. Noi usiamo delle maglie più larghe, finalizzate alla protezione di alcune risorse alieutiche. I tunisini non hanno questo obbligo ed è fin troppo ovvio che operando nello stesso areale di pesca si viene a creare una concorrenza forte. Queste e molte altre ragioni implicano delle criticità, ecco perché la funzione del Distretto e delle organizzazioni tunisine è quella di tentare di creare delle regole comuni. Crearle a partire dal mercato. L’idea è quella di lavorare ad un progetto cooperativo comune finalizzato alla sicurezza alimentare e alla sicurezza dei luoghi di lavoro. I Tunisini, ad esempio, non hanno l’obbligo di rispettare alcune benemerite regole che ci sono imposte dalla situazione nazionale italiana. Il tema della sicurezza è uno dei temi fondamentali che noi abbiamo messo sul piano del dialogo con le entità tunisine. Questo è un lavoro complicato, difficile, e richiede tempi non brevi. Ci si confronta non solo con regole ma anche con consuetudini, usi diversi, talvolta anche il livello culturale di queste manifestazioni crea della naturali discrasie, delle barriere.
Lei ha costruito un discorso in cui si descrive un particolare scenario, costituito da un lato dal contrasto in particolari occasioni armato, dall’altro da un sistema di cooperazione che nasce dalle istituzioni ma anche dalla partecipazione dei privati. Quanto influisce tutto quello che lei ha appena decritto nel plasmare la percezione della frontiera? Cosa diviene la frontiera tra la Sicilia, Italia e Tunisia? Come possiamo descriverla?
Fra Sicilia e segnatamente tra la comunità mazarese e la comunità tunisina, volendo plasticamente rappresentare queste due entità, il confine non è mai esistito. I nostri pescatori storicamente, dal Seicento… ma ricordo anche un decreto beycale che dava facoltà ai battelli siciliani – allora c’erano delle imbarcazioni remo-veliche – di utilizzare gli spazi antistanti la zona tunisina anche all’interno delle cosiddette acque territoriali che notoriamente si estendono fino alle dodici miglia dalla battigia. Che ci sia un rapporto storicamente consolidato, un’osmosi, questo è del tutto evidente. I nostri pescatori andavano lì, portavano derrate alimentari e ne riportavano altre indietro. Le attività marittime erano legate alla pesca ma anche agli scambi commerciali. Nella stessa nave si caricavano strumenti e derrate. Questa osmosi storicamente c’è stata e nella mente degli uni e degli altri non c’è un confine. Non c’è! Non è presente. La frontiera è soltanto un fatto ideale legato alle carte nautiche. Laddove emerge questa specifica attività legata all’interesse e alla protezione delle risorse, ciascuno per la propria parte. Come i nostri pescatori anche i loro sono venuti da questa parte, il nostro mare è più ricco di pesce azzurro, ad esempio. Molti non sanno che vengono sequestrati tanti pescherecci tunisini dalle autorità militari italiane, in questo momento ce ne sono due, una a Porto Empedocle e una a Sciacca. Noi dobbiamo occuparci non solo dei nostri pescatori ma anche dei loro.
Un’altra cosa credo che sia molto importante nell’analisi complessiva. Se nella comunità locale, nei nostri cortili della casbah c’è questa convivenza gomito a gomito, nel peschereccio tunisino e italiano, non c’è nessuna differenza. In uno spazio assai limitato per un periodo anche di quaranta o cinquanta o sessanta giorni, i pescatori tunisini, marocchini, egiziani e i nostri siciliani vivono in una parità di rapporti, glielo posso garantire. Magari ci sono delle abitudini alimentari diverse, lingue diverse e religioni diverse con tutto ciò che ne consegue, pensi al periodo del Ramadan ad esempio, eppure, il peschereccio di questa zona del pianeta è la rappresentazione più evidente di una convivenza pacifica, di una accettazione dell’altro. Il peschereccio è la metafora del dialogo.
Lei afferma che nel peschereccio si viene a creare questa forma paritaria nelle relazioni, mi chiedo se i ruoli gerarchici nel comando dei pescherecci ne sono rappresentazione. Cosa ne pensa?
Assolutamente sì, abbiamo moltissimi motoristi, capopesca, qualche capitano… è evidente che ormai i ruoli si intrecciano. Ovviamente ci sono degli armatori tunisini che operano qui stabilmente, quindi dei capi azienda tunisini. Non è la maggioranza e tuttavia rimangono delle differenze anche culturali nell’accettazione nella nostra comunità dell’altro. Tanto più basso è il livello culturale, scolastico, tanto più si registrano queste barriere.
Parlando con alcuni pescatori tunisini che lavorano nel comparto marittimo mazarese, in relazione alla crisi e all’andamento della marineria degli ultimi anni, si avverte un po’ il timore di non essere più necessari alla pesca e in qualche modo anche di essere progressivamente sostituiti, tirando fuori magari qualche antica legge sulla composizione dell’equipaggio. Riconosce queste dinamiche?
La crisi è molto democratica. Taglia trasversalmente tutto, non solo le attività legate direttamente alla pesca. La comunità tunisina non è impiegata esclusivamente nel settore pesca propriamente detto. Ma anche nella filiera e in tutte le attività correlate, e così nelle loro famiglie, ad esempio, troviamo la ragazza tunisina che lavora nei negozi o fa l’estetista.
Per ceri aspetti c’è la complicità dell’orientamento della Comunità europea, che personalmente non ho mai condiviso, nella politica delle demolizioni. L’idea che il ripopolamento del mare possa avvenire attraverso la riduzione dello sforzo di pesca è, secondo me, il più grosso errore culturale commesso dall’Europa, e questa idea ci porta alle pratiche di demolizione del naviglio. Ma è un problema politico e non è questa la sede. La demolizione dei battelli implica la rottamazione degli uomini. E questa democraticamente interessa tutti, questa rottamazione delle braccia: ti pago quarantamila euro per essere fuori dal mercato, ma sei fuori dalla vita! Cosa vuole che faccia un uomo quando non fa più il pescatore, dove può trovare occupazione, in fabbrica? Negli alberghi? Quante attività del primario ci sono? L’errore più grande che non è stato compreso è che per ogni peschereccio demolito il danno non riguarda gli otto o dieci pescatori tunisini o italiani e le loro famiglie. Per ogni peschereccio demolito, è provato statisticamente, che vengono calate quaranta saracinesche. Colpisce a raggera, il gommista, il benzinaio, la palestra, il panettiere, l’assicuratore, il professionista. In quelle quaranta saracinesche ci sono uomini e donne siciliane e di altre nazionalità. Noi viviamo in una polveriera, siamo posati su una polveriera, fin quando l’economia tira, c’è il lavoro e l’occupazione, il livello di sopportazione tra gli uni e gli altri è maggiore. Quando si innesca la miccia della crisi per la sopravvivenza e per la sussistenza il rischio che possano nascere altri conflitti, manipolati ad arte da chi li vuole utilizzare per altre finalità possono diventare strade senza ritorno. L’Unione Europea in questa enclave deve finalizzare progetti mirati a creare le condizioni di sviluppo per non rischiare che da queste condizioni possano degenerare conflitti sociali.
Questa fluidità che ha da sempre caratterizzato le relazioni tra Sicilia e Tunisia, si riscontra anche nei rapporti con la Comunità europea? È solo una mia impressione o parlando di Europa ha argomentato su degli elementi che determinano distanze?
Le distanze sono nella nostra testa e nella testa delle persone. Vedo rapporti positivi tra le persone, le famiglie, le comunità e anche degli attriti molto forti… se pensa che qui genericamente il tunisino viene chiamato l’arabo. Il fatto che la crisi economica sia così gravemente appesantita sicuramente genera criticità.
Quanto dice avviene nel locale, ma cosa accade nei rapporti tra i due Paesi in questione? In che maniera interviene la politica nazionale e quella europea?
Non c’è una politica di integrazione, e io vivo sul campo, discuto sui fatti. Il Distretto è un punto dove si incontrano i soggetti delle varie comunità. La politica ha soltanto fatto dichiarazioni. I progetti locali o regionali legati al dialogo sono soltanto un paravento, acqua fresca. Si registra una assenza della costruzione antropologica nel rapporto fra soggetti con diverse culture, diverse lingue, diverse religioni che vivono la stessa comunità. In una comunità si costruisce attraverso interventi, attività, progetti e iniziative. Devo dire che un lavoro interessante è stato svolto dalla Scuola e dalla Chiesa. La Chiesa e la Scuola hanno lavorato in questa direzione. La Chiesa, con tutte le organizzazioni ad essa legate, è stata in trincea a lavorare, producendo alcune iniziative con risultati positivi, altre un po’ meno. Ed è indiscutibile che ci sia stato un impegno da parte delle autorità scolastiche».
La testimonianza di Giovanni Tumbiolo si inserisce in un’analisi critica delle relazioni complesse tra frontiere interne ed esterne dell’Unione Europea, con particolare riferimento alle geografie relazionali tra Europa, Africa e mondo mediterraneo. Vi si coglie uno sguardo lungimirante nella comprensione delle dinamiche del comparto ittico locale in relazione ai processi di trasformazione economica globale. Nell’esplorare le configurazioni contemporanee degli spazi di frontiera euro-africani e mediterranei, abbiamo ritrovato, in questa conversazione, una visione politica particolarmente attenta ai rischi che possono emergere dal disinteresse per i modelli d’integrazione e d’inclusione, da certe pratiche di assistenzialismo economico che hanno portato al fallimento una filiera un tempo esemplare, da un contesto europeo spesso poco attento alle ragioni mediterranee. Questi suoi pensieri e l’umanità della sua esperienza hanno contribuito a disegnare un borderscape a più dimensioni e diverse prospettive che fanno della frontiera, ancora e nonostante tutto, un luogo di prossimità, di reciprocità, di vicinato. Uno spazio duttile, mobile, permeabile che contrasta in modo viscerale con l’idea di una netta linea di confine interdetta all’attraversamento.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Riferimenti bibliografici
Chiara Brambilla, Borderscaping e trans-territorialità: ripensare, agire, abitare il confine, in C. Arbore, M. Maggioli (a cura), Territorialità: concetti, narrazioni, pratiche, Franco Angeli, Milano, 2017: 321-330;
Chiara Brambilla, Borderscaping, o ripensare il nesso frontiere migrazioni nel Mediterraneo. Nuove agency politiche nella frontiera italo-tunisina, “Illuminazioni”, 38, ottobre-dicembre 2016: 111-139.
Chiara Brambilla, Note su una mostra. Per un nuovo metodo di disseminazione dei risultati di ricerca, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 21, settembre 2016.
Houdoud al bahr I confini del mare Mazara-Mahdia Film documentario (Durata: 60’)
Ideazione: Chiara Brambilla; Regia: Chiara Brambilla e Sergio Visinoni; Sceneggiatura: Antonino Cusumano, Chiara Brambilla, Alessio Angelo; Ricerca e consulenza antropologica: Chiara Brambilla, Alessio Angelo; Coordinamento della produzione: BC Today Agenzia di Comunicazione
Per maggiori informazioni riguardo al contesto più generale del Progetto EUBORDERSCAPES, si rimanda al sito internet: http://www.euborderscapes.eu/ ultimo accesso giugno 2019.
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Alessio Angelo, free-lance in ricerca e sviluppo sperimentale nel campo delle scienze sociali e umanistiche. Ha lavorato per l’Università di Bergamo al progetto europeo EU-borderscapes sulla frontiera italo-tunisina e ha collaborato con la Fondazione Ignazio Buttitta, l’Officina di Studi Medievali e l’Università di Messina. Specializzato in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, ha svolto parte del suo percorso accademico in Spagna, Cile e Marocco. Attualmente è docente presso il Miur. Si dedica allo studio e alla ricerca di temi antropologici e storici nel Mediterraneo. Per documentare, indagare e analizzare la materialità del sociale ricorre a produzioni fotografiche e audio-visuali (www.alessioangelo.com).
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