La bocca dell’anima traduce l’espressione siciliana vucca di l’arma. Per la cultura popolare essa corrisponde ad una parte del corpo ben precisa: il plesso solare. La bocca dell’anima è il centro del corpo, il luogo in massimo grado investito dai movimenti della vita: non solo soglia di guardia tra basso e alto, natura e cultura, ma anche punto di convergenza e di sintesi di ciò che si muove dentro lo stomaco, dunque dei rapporti fra corpo individuale e corpo sociale, fra interno ed esterno.
Nella tradizione magica la bocca dell’anima, lo stomaco, è il ricettacolo degli esseri che attraversano il mago, dandogli la forza per aiutare gli altri, ma è anche il punto del corpo in cui si annida il male. Questo film è un viaggio dentro la magia popolare, che ci permetterà di entrare nei recessi della casa di un antico guaritore, lì dove prepara i feticci e recita le orazioni magiche per liberare dalle sofferenze coloro che credono in lui.
Ispirato ad una storia vera e ambientato nella Sicilia rurale del secondo dopoguerra, il film racconta il percorso attraverso cui un uomo, Giovanni Velasques, diventa mago, fino a quando la sua autorevolezza lo porterà a scontrarsi con le altre due facce del potere: la Chiesa e la mafia.
L’arte degli antichi guaritori è esercitata da contadini, artigiani, casalinghe, persone con difficoltà economiche e spesso analfabete che non possono ricoprire ruoli di potere, gente che “non può alzare la voce”. In questa realtà i maghi sono coloro che posseggono il “dono”, ovvero lo spirito di una persona morta che alberga nel loro corpo. È difficile tradurre nel linguaggio della cultura egemonica il concetto di “dono”, ma si può dire con certezza che i maghi sono uomini dotati di un’eccezionale creatività, di un carisma travolgente, di una profonda capacità di leggere dentro l’altro e di un’ampia conoscenza della natura e della potenza guaritrice dei suoi elementi. In virtù di questo dono straordinario essi riescono ad aiutare gli altri nel ritrovare un ordine, un nuovo senso lì dove c’erano il caos e il dolore.
Nella storia della cinematografia la magia è stata trattata quasi sempre in chiave fantasy, horror o documentaristica: nei primi due casi il linguaggio magico è stato privato del suo fondamento antropologico e nei film di finzione, in cui è stata inserita la magia popolare, ciò è avvenuto solo in alcune scene. La bocca dell’anima, invece, si ambienta totalmente nel contesto di una cultura subalterna, in cui il linguaggio magico costituisce un sistema di comunicazione quotidiano. La sceneggiatura si fonda su una ricerca che, da un lato, tiene conto di testi fondamentali come La magia in Sicilia e Il corpo è fatto di sillabe dell’antropologa Elsa Guggino e, dall’altro, di un’indagine diretta con gli ultimi operatori magici tradizionali ancora attivi nell’isola.
Per la prima volta si mette in scena l’iter che porta un uomo a diventare mago in questa cultura rurale. Tutto ha inizio con una “crisi”, ovvero un malessere psicofisico, dovuto ad un trauma, che pone il futuro mago ai margini della comunità in cui vive. A questa crisi segue la “manifestazione del dono”, dove emergono i segni di una presenza aliena, ad esempio l’alterazione della voce. Ma questa presenza ha bisogno di essere addomesticata, affinché scompaia quel malessere: è il momento della “iniziazione”, in cui un altro mago riconosce per la prima volta i poteri magici della persona sofferente, permettendo così la “rivelazione” dell’entità che alberga nel corpo dell’iniziato. E solo al termine di questo percorso che può avvenire il “riconoscimento” del nuovo mago da parte dei suoi compaesani: è la comunità, dunque, che crea il mago, e al mago non resta che assomigliare al suo ritratto; egli conquista autorevolezza perché è preso sul serio ed è preso sul serio perché si ha bisogno di lui. Questo percorso di formazione è presente in tutte le culture del mondo in cui resiste la magia popolare.
Ma il film non si limita soltanto a ripercorrere queste tappe: il nostro eroe, mosso da un fervido desiderio di libertà, entrerà in conflitto con la comunità e con le altre facce del potere, la Chiesa e la mafia, alle quali infine si sottometterà, sacrificando il suo talento di guaritore per conformarsi definitivamente ai canoni della morale cattolica e rurale che lo vuole contadino e padre di famiglia.
In questo film il mago è lo specchio dove tutti noi possiamo rifletterci, non soltanto perché il suo iter di formazione costituisce un vero e proprio “viaggio dell’eroe”, ma anche perché in questa storia emergono alcuni temi universali. Parlare di un’entità che alberga nel corpo di un uomo significa raccontare dell’alter ego che vive in ognuno di noi: è il tema del doppio. L’evocazione dello spirito dell’amico perduto in guerra da parte del protagonista rivela il suo bisogno di compensare l’infinito senso di vuoto che quella improvvisa scomparsa gli ha lasciato: è il tema del grande amore perduto e della sua reiterata ricerca. Un altro grande tema è il daimon come vocazione, carattere e destino, ovvero un’indole creativa che inesorabilmente si farà strada per esprimersi, nonostante le necessità della vita legate alla sussistenza e i rigidi vincoli morali di una comunità chiusa e grottesca.
Per definire più chiaramente il tipo di mago che questo film intende mettere in scena occorrono alcune precisazioni. Il guaritore magico rappresenta una sorta di psicoanalista del popolo: anch’egli cura i propri “pazienti”, ora confortandoli ora scuotendone l’animo. Ma c’è un aspetto che lo distingue nettamente dalla psicoanalisi: il mago agisce tramite una suggestione mitico-simbolica che oggettiva e giustifica il male. La sterilità di una donna, ad esempio, potrebbe essere dovuta, secondo il linguaggio della magia, ad una “fattura” voluta dall’invidiosa cognata e il mago dovrà trovare e distruggere il feticcio con cui è stato compiuto il maleficio.
La magia è quindi un’arte pratica, attiva, coreografica, che utilizza corpi e oggetti Il mago, quando opera, sembra ispirato come il poeta omerico: la musa diventa in lui l’essere o lo spirito che lo abita. Egli crea mondi e suggestioni senza prendere distanza dalla dimensione magico-artistica, ovvero non opera come un ciarlatano che è consapevole dell’inganno che sta producendo. Questo enthousiasmòs – essere pieno di dèi, che nel mago sono gli esseri – gli permette di condurre un gioco che non si distingue più dalla realtà, tanto per lui quanto per coloro che usufruiscono del suo operato. Il mago è come un attore educato dai migliori maestri del metodo Stanislavsky, per cui non vi è più la possibilità di uscire fuori dal personaggio interpretato.
Tuttavia i guaritori magici tradizionali sono oggi in via di estinzione. A che cosa è dovuto il tramonto della loro epoca? Il mondo è sicuramente cambiato: lo sviluppo economico del secondo Novecento ha prodotto una maggiore omologazione nei Paesi occidentali, l’industrializzazione ha assottigliato sempre di più le differenze tra le classi sociali, l’attenzione che la stessa antropologia ha rivolto al fenomeno della magia popolare ha avviato o assecondato un processo di smitizzazione dell’autorità e del mistero dei maghi. Ciò non significa che sia scomparsa una certa inclinazione alla magia, al suo simbolismo e alle sue pratiche. Al contrario, esse proliferano attraverso nuove forme che abbracciano la tecnologia, i mass media, l'imborghesimento dell’intera società.
In questo film, quindi, siamo ben lontani da forme di magia quali lo spiritismo, l’esoterismo, il satanismo, le scienze occulte, che si muovono all’interno di un milieu borghese e aristocratico, dove anche il rapporto con il regno dei morti è differente. Il borghese si rivolge allo spiritista per entrare in contatto con i propri defunti al fine di trovare un senso alla morte e quindi alla vita oppure consulta gli astrologi e i cartomanti più in voga per conoscere il proprio futuro. Il guaritore tradizionale, invece, utilizza i morti per curare un mal di schiena, togliere i vermi dallo stomaco, “legare” un uomo benestante ad una donna che intende risollevare le sorti economiche della propria famiglia, rispondendo così a bisogni primari, immediati e materiali.
Queste sono le ragioni per cui questa storia è ambientata nel secondo dopoguerra: è urgente raccontare quell’epoca in cui la potenza creatrice e taumaturgica del mago tradizionale vive il proprio culmine, prima che il mondo moderno ne compromettesse l’originalità e la purezza. È urgente sensibilizzare il pubblico di oggi ad un ritorno a quella creatività, a quella dimensione mitopoietica che persino gli artisti contemporanei sembra abbiano perduto. In questo senso il mago corrisponde ad un ideale di artista totale, in cui non si distingue più la vita creativa da quella normale, abitudinaria, dove tutti coloro che entrano in contatto con il mago partecipano alla sua creazione.
L’uso della lingua siciliana nei dialoghi dei personaggi non è dettato dal mero bisogno di contestualizzare realisticamente la vicenda narrata. Il siciliano è fondamentalmente una lingua orale e, come tale, vive di estemporaneità, di interruzioni, di ambiguità, di un non detto continuo che ben si conforma allo spirito della magia popolare. Inoltre, il ritmo e la musicalità di questa lingua permettono un effetto straniante nello spettatore, calato prepotentemente nel mondo perduto dei maari.
La concezione cinematografica di questo film è lontana dalla rappresentazione stereotipata dell’isola, mille volte portata sullo schermo, fatta di fichi d’india, mare e sole cocente o delle grandi città monumentali come Palermo e Catania. Lo scenario è quello dei paesi montani, freddi e nevosi dell’entroterra. Una Sicilia reale ma meno nota, la cui bellezza non è contaminata dallo sguardo del turismo di massa. In questi piccoli centri arroccati sulle montagne sopravvivono forme di cultura antichissime che riguardano oggetti, usi, costumi e rituali.
La cinepresa viaggia dentro le case in pietra dei contadini, nella natura aspra e selvaggia dei monti, tra le volte e le colonne di piccole chiese medievali e barocche, sopra i ruderi di manieri normanni. Si mettono in scena i feticci delle “fatture”, si scopre l’esperienza della malattia e del corpo attraverso la lente della magia.
Per quanto il film possa essere inquadrato nel genere drammatico, esso è permeato in diverse scene dai toni della commedia: i personaggi del paese, infatti, manifestano spesso il loro aspetto superstizioso e grottesco già nei loro gesti e nei loro volti. La fotografia traduce, attraverso netti chiaroscuri, questa cultura subalterna che non può esprimersi alla luce del sole. Quando iniziano i riti magici, dentro le case si chiudono le finestre; nell’oscurità delle grotte o nella penombra del bosco le voci si abbassano. La luce si riflette potente, invece, sulla coltre nevosa della piazza principale del villaggio, pervade lo studio del medico, illumina il candore delle sculture di gesso che adornano la chiesa madre. La colonna sonora originale del film è integrata da musiche e canti diegetici che riscoprono alcuni tesori della cultura siciliana: dallo straniamento uditivo delle orazioni magiche alla “musica da barberia”, passando attraverso i “lamenti” del Venerdì Santo, canti polifonici di una tradizione plurisecolare.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Giuseppe Carleo, sin da adolescente frequenta diverse scuole di teatro che lo coinvolgono nella messa in scena di numerosi spettacoli. Nel 2008 viene ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e nel 2011 si diploma in recitazione. Durante il suo percorso professionale, matura un nuovo punto di vista che lo porta a spostarsi dietro la macchina da presa. Nel 2011 viene ammesso al corso di regia del documentario nella sede siciliana del Centro Sperimentale. Tra i suoi lavori più importanti il cortometraggio Parru cu tia (2018), un rito antico di magia popolare che potrebbe cambiare le sorti di un amore impossibile; il cortometraggio Officium (2014), un’esplorazione su alcuni desideri e bisogni profondi, spesso segreti, dell’universo femminile; il documentario Picchí chi è? (2013) che ripercorre i luoghi e le tappe fondamentali del movimento lgbt palermitano dagli anni ’70 ai giorni nostri; Lady Mariella (2012), cortometraggio sulla cartomanzia nelle reti televisive private; il documentario Un giardino che rideva (2010), un viaggio sentimentale di una donna, in una Palermo sparita e contemporanea. La bocca dell’anima (2024) è il suo primo lungometraggio.
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