di Francesco Virga [*]
La storia mi sembra che abbia superato l’antica divisione del mondo tra laici e chierici; anche per questo parole come laicità e religiosità oggi non hanno più il senso che avevano un tempo. Tant’è che, ai nostri giorni, è possibile incontrare laici più chierici dei chierici d’una volta e uomini religiosi più laici di tanti presunti tali. Pertanto parlerò del poeta di Aliminusa al di fuori dello schema proposto dal titolo del Convegno che potrebbe generare equivoci e malintesi.
Sono sempre più convinto che il sentimento della meraviglia, come avevano già intuito gli antichi greci, sia il principio non solo della filosofia ma anche della poesia. Da questo sentimento germina, infatti, la poesia anche nel giovanissimo Battaglia. Chi si accosta a Giuseppe Giovanni Battaglia (1951-1995) non tarda a comprendere che la fonte prima della sua originalissima poesia, più che sui libri, va ricercata, specialmente per quanto riguarda il periodo giovanile, nella vita, nei volti e nelle parole degli uomini e delle donne del suo piccolo paese natale, Aliminusa. Non è un caso che uno dei suoi primi libri s’intitoli La piccola valle di Alì, dove Alì non è altro che l’abbreviazione del nome del paese termitano, particolarmente amato dal poeta, protagonista assoluto dei suoi primi versi.
La recente raccolta in un unico volume di tutte le poesie in lingua italiana del Battaglia [1] – curata da Vincenzo Ognibene e resa possibile dall’impegno comune della famiglia del poeta, del Comune di Aliminusa e del Parco Letterario intestato al poeta – – è un’occasione per rileggere con occhi nuovi l’intera sua opera e verificare la possibilità di un suo radicale ripensamento. Purtroppo questo bellissimo libro di poesia è stato, pressoché, ignorato da gran parte dell’industria culturale nazionale. Eppure i versi di Giuseppe Battaglia, spentosi a soli 44 anni, reggono benissimo al confronto con i più grandi autori del ’900. E, prima o poi, il tempo gli dovrà rendere giustizia.
Fin dagli anni ottanta, Salvatore Silvano Nigro [2], nel presentare una raccolta di versi dialettali del Battaglia, esortava a non considerarlo un semplice epigono di Ignazio Buttitta. E lo stesso Battaglia [3], nel 1988, ricordando di avere smesso di scrivere in lingua siciliana dieci anni prima, protestava contro coloro che s’attardavano a considerarlo un provinciale poeta dialettale.
I primi versi di Battaglia nell’antica lingua di Aliminusa
A 18 anni Giuseppe Giovanni Battaglia pubblica, insieme a Tano Gullo, il suo primo libro di versi intitolato La terra vascia.Non è casuale che il libro abbia per titolo una delle prime composizioni del poeta. La terra vascia è un testo chiave per comprendere Battaglia; qui si trova, infatti, quella che Donatella La Monaca, nel bel saggio introduttivo all’ultima edizione di tutti i versi italiani del poeta, ha felicemente definito «cellula originaria» [4] della sua opera creativa. Rivediamolo allora subito questo brevissimo testo:
«La terra ia vascia, /vascia Signuri, / e si zappa calatu; / suduri e suduri / ca ia megghiu la morti. / ‘Un ia iocu zappari / si la terra ia vascia /e lu zappuni ‘un sciddica, / si la notti lu viddanu / si sonna a zappari / sempri la terra vascia» [5].
Eccolo il «dialetto integrale e lontano», colto immediatamente da Leonardo Sciascia che non mancò di incoraggiare il giovanissimo autore con parole memorabili:
«Caro Battaglia, quello che a prima lettura, immediatamente, mi ha interessato alle sue poesie, è il dialetto. Un dialetto integrale e lontano, come una restituzione alla memoria, all’infanzia, alla vita dei nostri paesi, all’interno dell’isola come erano tra le due guerre; e da far pensare anche alla parlata dei nostri emigrati che tornano dopo mezzo secolo, alle parole che hanno conservato come in vitro, nel vitreo immobile ricordo della povera vita di allora – diversamente povera oggi. E poi ho visto che alle parole corrispondevano le cose, la realtà, la situazione in cui l’assume, la condizione cui si ribella – e insomma il sentimento, la poesia. Ritengo che questo sia, ancora, il dialetto che si parla ad Aliminusa – questo piccolo paese nato come escrescenza del feudo e ancora legato alla terra, sicché non per facile retorica i suoi versi dicono l’odio del contadino al padrone, come più di cent’anni fa nei paesi rurali che si sollevavano per la “libertà”» [6].
Sciascia riconosce al giovane Battaglia il merito di aver saputo sfuggire al rischio della maniera, l’artificiosa ricerca di parole desuete e dismesse, e di essere rimasto invece ancorato al linguaggio di ogni giorno, «alla pena che ad ogni giorno basta», e di essere stato capace di esprimere i sentimenti più intimi dei luoghi e delle cose.
La bellissima lettera di Leonardo Sciascia al giovanissimo autore diventerà Prefazione del secondo libro di Pino Battaglia, La piccola valle di Alì, pubblicato da Flaccovio nel 1972, che raccoglie tutti i suoi primi versi dialettali. E sarà proprio questo libro ad arrivare sul tavolo di Pier Paolo Pasolini e a condurre quest’ultimo, l’anno successivo, a citarlo come un caso unico nel panorama nazionale. Lo dimostra l’intervista che lo scrittore corsaro rilascia a Enzo Golino nel dicembre 1973. Infatti, al giornalista che gli chiede: «È possibile oggi una poesia dialettale? I giovani scrivono ancora versi in dialetto?», Pasolini risponde: «Ignazio Buttitta per la Sicilia, Albino Pierro per la Lucania, Tonino Guerra per la Romagna sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma non sono giovani e da tempo hanno descritto un mondo ora scomparso. Tra i giovani ricordo soltanto un ragazzo palermitano, di vent’anni, che ha pubblicato un esiguo libro in versi siciliani con la prefazione di Leonardo Sciascia» [7]. Il ragazzo palermitano di cui Pasolini non ricorda il nome è proprio Pino Battaglia.
In una conferenza tenuta nella Sala Picta di Termini Imerese, sei mesi fa, ho documentato analiticamente quanto Bat- taglia deve a Pasolini. E rimando al testo in corso di stampa, intitolato Pasolini nell’opera poetica di G.G. Battaglia, che offre una più ampia documentazione circa tale rapporto. In questa sede mi limiterò a mostrare solo alcuni dei fili che legano il poeta di Aliminusa ad uno dei più grandi autori del nostro ’900.
Finora, comunque, tra i tanti che hanno scritto su Battaglia, soltanto Vincenzo Ognibene ha indicato Pasolini come suo principale «amico e méntore»:
«Sei andato nel giorno della festa dei morti, nel giorno di Pasolini, tuo primo amico e méntore col quale nel tempo così parlasti: sabbia fine non è l’oro che riluce / ma grigio sogno nel circo superiore.
Quasi trent’anni è durata la nostra amicizia e mi è difficile parlarne […]. È giusto ricordare questo nostro sodalizio che ci ha visto assieme attraversare come viandanti questo nostro tempo, partendo dai nostri paesi per immetterli nel processo della modernità» [8].
Dialetti e universo contadino
Le prime poesie di Battaglia risentono parecchio, dal punto di vista tematico, dell’influenza di Ignazio Buttitta. I temi principali sono la denuncia delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali, l’inno alla libertà e all’amore in tutte le sue forme. Ma, fin dal principio, i versi di Battaglia, rispetto a quelli di Buttitta, si distinguono per la loro maggiore essenzialità. Basta ricordarne solo alcuni:
«vriogna! / tuttu lu jornu / sucati l’ossa a lu viddanu / e mancu arrussicati / la sira / nta la chiazza» [9].
«Ci voli amuri / a crisciri nta la campagna / aviri paroli duri chi duna la terra / parrari quantu basta pi farisi / capiri di l’autri viddani» [10].
Battaglia, fin da giovane, apprende ad usare con parsimonia le parole. È fortemente attratto dal modo di parlare dei contadini (li viddani) del suo paese che sanno usare poche essenziali parole, che riescono a colpire sempre per la loro durezza e aderenza alle cose.
Il 1972 è l’anno in cui vede la luce anche la prima edizione del libro di Ignazio Buttitta Io faccio il poeta, introdotto dello stesso Sciascia. Lo scrittore di Racalmuto è stato il trait d’union tra Battaglia, Buttitta e Pasolini. Nei primi anni settanta, i rapporti tra Battaglia e Buttitta sono molto stretti. Battaglia accompagna spesso il poeta di Bagheria alle Feste dell’Unità della provincia di Palermo, dove vengono letti i loro versi. Entrambi riescono a dare dignità di lingua al dialetto siciliano che, nelle loro mani, diventa anche uno strumento di lotta per una società più libera e giusta.
L’introduzione di Leonardo Sciascia al libro di Buttitta si conclude con un rimando alla poesia U rancuri e un polemico riferimento a Neruda. Ma il nocciolo dell’analisi sciasciana va ricercato nel passo in cui, da un lato, si riconosce la radice popolare e contadina della poesia di Buttitta, dall’altro, con un’apparente contraddizione, si afferma che quelle indiscutibili radici non fanno di lui un poeta popolare.
È singolare che due anni dopo Pasolini, nel recensire questo stesso libro di Buttitta, riprenda le osservazioni critiche di Sciascia. E non mi sembra casuale il fatto che questa recensione venga ripresa nei suoi Scritti corsari [11] che Battaglia mostra di conoscere perfettamente. Questa recensione è importante anche per la ricostruzione della biografia intellettuale dello scrittore corsaro. In essa, infatti, tra l’altro, Pasolini spiega la ragione per cui, proprio negli anni 1973-75, torna a scrivere versi in friulano:
«Improvvisamente in questa situazione, dopo quasi trent’anni, ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano [12]. Forse non continuerò. I pochi versi che ho scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. Non avevo automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il romano). Non avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E questo fino a trent’anni d’età e più. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L’italianizzazione dell’Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com’è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare, eccentrica, concreta: mai centralistica ; mai “del potere”)» [13].
Ho voluto riprendere per esteso questo passo della riflessione pasoliniana per evidenziare come in essa si trovino fusi tra loro, come spesso accade nei suoi testi, i livelli del pensiero astratto con i sentimenti e le emozioni derivanti dalla vita vissuta. E questo, come vedremo più avanti, è uno dei tratti distintivi comuni al modo di pensare e di essere sia di Pasolini che di Battaglia. Pasolini nella sua lettura di Buttitta va ben oltre Sciascia e, forse, offre una chiave per comprendere meglio le ragioni per cui Battaglia prenderà successivamente le distanze dal poeta di Bagheria:
«Il poeta dialettale e popolare (in senso gramsciano) raccoglie i sentimenti dei poveri, il loro “rancore”, la loro rabbia, la loro esplosione di odio: si fa, insomma, loro interprete e loro tramite, ma lui, il poeta, è un borghese. Un borghese che si gode il suo stato di privilegio; che vuole la pace nella sua casa per dimenticare la guerra nella casa degli altri; che è un cane della stessa razza dei nemici del popolo. Non gli manca niente, non desidera niente; solo una corona per recitare il rosario la sera, e non c’è nessuno che gliela porti di filo di ferro per impiccarlo a un palo».
Pasolini, con il suo rigore critico, in questa sua pagina, non concede nulla a populismi e buoni sentimenti:
«Tutto il corpo della poesia si fonda sulla reticenza come figura retorica che dice ciò che nega. Cosa nega Buttitta, iterativamente, anzi, anaforicamente? Nega di essere lui, il poeta, a provare rancore, odio, rabbia […].Tutti questi sentimenti sono provati dal popolo, di cui il poeta non è che interprete. Ma, attraverso tutto ciò, Buttitta non fa che affermare il contrario. E perché? Perché a dominare nel suo libro è la figura retorica di un popolo desunto […] dagli anni rivoluzionari russi, nei suoi due lemmi figurativi: il formalismo e il realismo socialista. I tratti sintetici con cui Buttitta traccia la figura del popolo son quelli di una suprema “affiche” formalistica, il metro, che ricalca la struttura della dizione orale dai podii imbandierati, esprime invece i tratti analitici di una figura del popolo che è quello dei quadri del realismo socialista. Ecco perché il poeta – prima di chiedere di essere giustiziato come borghese – predica in realtà a sé i caratteri che predica al popolo. Buttitta non può infatti non sapere che il popolo, e specialmente il popolo siciliano (di cui non si nega affatto la capacità di rivolta e di furore) non è mai assomigliato all’immagine che ne hanno avuto i partiti comunisti storici. Esso serviva a quei partiti per la loro tattica politica, e, in seconda istanza, serviva ai poeti a cantare quella tattica […]» [14].
Siamo qui di fronte a un punto alto di riflessione dello scrittore corsaro, che Battaglia riprenderà in molte sue poesie e negli articoli che, tra il 1979 e il 1980, pubblicherà in un periodico della Camera del Lavoro di Palermo. Su questo punto credo che Salvatore Silvano Nigro abbia visto meglio di Tullio De Mauro che, nel 1977, introducendo una nuova raccolta di versi dialettali di Battaglia intitolata Campa padrone che l’erba cresce, «fraintende Sciascia e tradisce la vera poesia di Battaglia», non riuscendo a cogliere l’originalità di quest’ultima rispetto a quella di Buttitta [15]. In realtà un’eco del pensiero e dello stesso lessico pasoliniano si avverte già nelle poesie scritte nel biennio 1976-1977, intitolate Le strade delle mutazioni, che segnano un primo cambiamento nei contenuti e nello stile di Battaglia. Basti pensare a due brevissime composizioni di questa raccolta:
«Parramu a lu suli / picchi mai amu parratu! (Parliamo al sole / perché mai abbiamo parlato!)
Cu parra a li praneti / camina rarenti! (Chi parla ai pianeti / cammina radente i muri!)» [ 16].
Ma la svolta vera si ha nel 1979/1981, quando scrive e pubblica i suoi primi versi in lingua italiana raccogliendoli in un libretto intitolato I luoghi degli elementi che, non a caso, si apre con una citazione in esergo di M. Heidegger («Incamminati, / e mancanza e domanda sopporta / lungo il tuo solo sentiero») [17] e una metaforica Apologia della chiocciola in cui il poeta si paragona alla lumaca che «sul fradicio cammina / e, pur se lenta, arriva / […] / e la direzione mantiene, / lo scopo afferma »[18]. Non può non colpire la citazione heideggeriana fatta da un giovane marxista, per quanto eretico, qual’era ancora nel 1979 Battaglia. Si può cogliere in essa un chiaro e netto rifiuto di ogni chiusura dogmatica insieme ad una aperta e laica volontà di muoversi senza certezze precostituite.
Sia Pasolini che Battaglia hanno avuto chiara consapevolezza che l’universo contadino, da entrambi, forse, un po’ idealizzato, fosse condannato a scomparire. Eppure, così come Pasolini non avrebbe scambiato una lucciola per tutta la Montedison, Battaglia considerava più prezioso un piccolo albero d’ulivo che l’intero stabilimento della FIAT di Termini Imerese. Le ragioni del cuore, cui si richiama esplicitamente Pino Battaglia in una importante nota introduttiva ai suoi ultimi versi scritti nella «lingua della madre» [19], sono state sempre anteposte dai due poeti alle ragioni della storia.
Una spia dei profondi mutamenti sociali in corso, Battaglia li avverte già nella metà degli anni ’70, quando, ancora studente universitario ospite del Pensionato palermitano di S. Saverio, tornando al suo paese non si sente più riconosciuto dai vecchi contadini. Scriverà più tardi: Unni nascivu ‘un mi canuscinu chiù (dove sono nato non mi riconoscono più). Proverà, infatti, sgomento davanti alla piazza vuota del suo paese [20].
Verso la fine degli anni ’70 Battaglia comincia a scrivere anche in prosa. Ma in tutto quello che scrive si trova sempre un fondo di poesia. Per rendersene conto basta dare un’occhiata ai pezzi che pubblica su un periodico palermitano nel biennio 1979/1980. A differenza di Pasolini, infatti, Battaglia scrive questi articoli su un modesto periodico della Camera del Lavoro di Palermo, intitolato SINDACATO, che pochi leggevano. A spingerlo a scrivere e a pubblicare su questa testata sarà lo stesso direttore del periodico, Aurelio Colletta, che, conosciuto Pino quand’era ancora un suo alunno dell’Istituto Tecnico Commerciale di Termini Imerese, ed avendo letto con simpatia i suoi primi versi, gli affida, senza alcuna esitazione, l’autogestione di una pagina della rivista, oltre alla cura di alcune originali inchieste, pur sapendo quanto fosse imprevedibile e poco addomesticabile il poeta.
Battaglia dimostra la sua autonomia e indipendenza di giudizio, la sua profonda laicità, appunto, fin dal suo primo pezzo, intitolato Corsivo, pubblicato nell’aprile del 1979. Qui, infatti, insieme ad alcuni brani (allora inediti) de L’ordine di viaggio, vede la luce un testo polemico, intitolato DAI PRIMI ANNI 50, in cui si rappresenta un dirigente sindacale che rivolge a dei giovani compagni questa domanda:
«[…] in una delle mie mani ho una patata
bollita, nell’altra Proust;
al contadino che mi
sta di fronte cosa è giusto che io dia? E cosa
pensate, se gli fosse dato di scegliere, che
prenda?»
Lo stesso Battaglia, caustico, risponde:
«Aveva, di già, scelto per il contadino la patata bollita; aveva disposto che solo quella gli era necessaria» [21].
Come si vede, pur scrivendo su un foglio della CGIL, Battaglia non teme di criticare l’operato di tanti sindacalisti del tempo, dimostrando, ancora una volta, quanto laico fosse il suo punto di vista in anni in cui i furori ideologici e lo spirito di appartenenza prevalevano nettamente sullo spirito critico. Un mese dopo intervista il poeta cileno Herman Castellano Giron e, successivamente, pubblica un lungo resoconto dell’incontro che il cileno ha con gli operai di una fabbrica palermitana [22].
In un graffiante articolo del giugno 1979, intitolato Sindonia di anime morte, prendendo spunto dalle notizie relative alle famigerate imprese del banchiere Michele Sindona, sferra un duro attacco al sistema di potere democristiano con un esplicito richiamo al famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole di Pasolini. Ne riprendiamo di seguito l’amaro e sarcastico passo finale:
«O mostri dell’intelligenza, menti mostruosamente fantastiche, genìa sublimemente illuminata. O sterminatori di lucciole e di rami, amici degli uomini e della poesia, puri di cuore che, anche, il cielo asseconda. Noi, adesso, ammirando la vostra Opera, non possiamo fare a meno di dire: oh! Ci inchiniamo meravigliati ai vostri piedi, […]. E, se la distruzione delle lucciole pasoliniane, che, dice Renard, figlie di una goccia di rugiada e di un raggio di luna, sembra sempre più definitiva, a noi certo poco interessa; noi ci inchiniamo alle grandiose città; ai centri storici; alle fabbriche, alle scuole. Ci inchiniamo alle immense opere di Lor Signori. E siamo felici, lo confessiamo. Il mondo, ormai, è davvero mondo. Muoiono le lucciole ed, anche, i fiordalisi, finalmente. Le morte cose ritornano alla terra. Ma la storia, dice un compagno contadino, è una pentola senza coperchio» [23].
Sarcasmo a parte, Battaglia nel 1979 mostra ancora di avere fiducia nella storia, non si spiegherebbe altrimenti il rimando alla battuta finale, mutuata dal compagno contadino.
Ma il pezzo che mostra, inequivocabilmente, quanto il poeta di Aliminusa avesse assimilato in profondità lo stile dello scrittore corsaro, capace di scandalizzare i benpensanti di destra e di sinistra, viene pubblicato nel novembre del 1979. L’articolo, intitolato Note ai margini di un funerale, è dedicato ad uno dei tanti “funerali di Stato” celebratisi a Palermo in onore dei rappresentanti delle Istituzioni caduti sul fronte dell’antimafia. Battaglia ricorda che l’espressione Càrinu comu li pira viene usata a Palermo per indicare i morti ammazzati dalla mafia. Il poeta è colpito, soprattutto, dall’indifferenza che traspare già da questo modo di dire. Ma, a differenza di tanti altri, prova a darne una spiegazione non moralistica, avvalendosi, oltre che di Rousseau, di una antica metafora contadina:
«La violenza che è nell’indifferenza, soglia di ogni male, a Palermo si respira ovunque. Negli occhi degli uomini, vuoti, come l’occhio delle capre. Negli occhi impertinenti dei bambini, impudichi, che, in questa sciagurata città, la vita porta a disprezzare sé e gli altri. Non è problema di educazione e rieducazione; la violenza che è nell’indifferenza, soglia di ogni male, affonda le radici, per fermarci alle cose vicine, in quella classe di inetti e spergiuri che, da trenta anni, ha governato all’insegna del detto tiriamo a campare (o ad ammazzare?), assopendo la coscienza dei molti, consentendosi rapacità principesche. Da educare e rieducare c’è, soltanto, la classe politica al potere. (Rousseau: È certo che i popoli sono alla lunga ciò che il Governo li fa essere…). Vale il principio della terra da seminare. Bruciare le male erbe, spetrare, tracciare i solchi e arritibulari, cioè ripassare con l’aratro il terreno, in senso contrario; si potrà, poi, seminare. Soltanto dopo aver zappato i fili di grano primieri e tolte le male erbe […] si potrà mietere e raccogliere. Vale, per questo Stato, il principio della terra da seminare, se si vuole raccogliere » [24].
Particolarmente tagliente la stoccata finale contro la retorica dei “funerali di Stato”:
«Il F. S. – mi si perdoni la brutalità, ma la cosa è brutale – serve ad incontrarsi e a tessere e disfare orditi. Nella sfarzosa cornice della Cattedrale, molte, troppe persone sembrano dicessero: volemose bene » [25].
Sacralità della poesia e della vita
G. G. Battaglia, come Pasolini, non ha mai smesso di svolgere quello che riteneva essere il “primo dovere di un intellettuale”, ossia «esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti» [26]. Nell’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo, proprio qualche giorno prima d’essere trucidato, Pasolini aveva lanciato un allarme:
«State attenti. L’inferno sta salendo da voi. Non vi illudete. Voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere» [27].
In questa intervista si trova, a parer mio, una delle più intelligenti definizioni del concetto di potere che io conosca:
«Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori.[…] Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti giù fino ai poveri. Ecco perché vogliono tutti le stesse cose e si comportano nello stesso modo […]. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere [28].
Una rappresentazione simile del potere si trova anche in Battaglia, particolarmente nei suoi testi teatrali dei primi anni Ottanta, che mi riservo di analizzare puntualmente in un’altra occasione. Qui basta ricordare il rapporto stretto che si stabilì, in quegli anni, tra Pino, Lina Prosa e Michele Perriera. Lina Prosa ha saputo fare una bella, per quanto sommaria, ricostruzione di quella creativa stagione di Battaglia nella Presentazione dei testi raccolti in un bel volume [29].
Mentre Francesco Muzzioli, nel saggio introduttivo al Dramma-farsa G. III dello stesso Battaglia, oltre a richiamare un passo centrale dell’opera (Il potere è figlio di ignoti […]. In qualsiasi modo lo amministri, dilani, squarti. E sia secondo ragione e sia secondo follia) [30] ne evidenzia la “vischiosità” da cui è difficile districarsi: il potere è come il ventre materno, vischioso come l’umidità che respiro. Il potere somiglia all’acqua: Mai fidarsi dell’acqua! Diabolica, senza forma ne assume mille! [31].
Ma è, soprattutto, in alcuni versi raccolti nei suoi ultimi libri di poesie in lingua italiana che si ritrova espressi, con forza, il senso del vuoto avvertito e la sua opposizione radicale ad un mondo in cui non era più possibile riconoscersi:
«Non ci era dato di conoscere il senso / ultimo del nostro affanno, / Non sognavamo più niente / […] Chinare il capo e tacere, / I morti con noi consumavano / l’artificio e l’autentico. […] bruciammo parole giunte / a mal partito» ( Lo scoppiettio del vuoto) [32].
Questa opposizione, infatti, raggiunge il suo apice in una delle sue ultime composizioni che ha per titolo L’ira del pastore:
«Voi che avete distrutto i pascoli verdi
dove le epoche avevano sedimentato
il sogno, voi che avete reso minimo
l’oro delle costruzioni dei boschi,
voi che dell’infanzia del mondo
avete saputo imbastire un groviglio,
voi i destinatari del mio disprezzo.
Io, nella rocca del mondo, m’ascolto
esistere e mi rivolgo alle pietre,
alle canne, agli incantati pagliai,
e non scricchiolano le ossa dei miei cent’anni» [33].
Pasolini amava ripetere che tutto è sacro e, in una lunga intervista a J. Halliday, risalente alla fine degli anni 60, ha precisato meglio il suo pensiero:
«Il mio modo di vedere il mondo […] forse è troppo rispettoso, troppo reverenziale, troppo infantile; io vedo tutto quello che c’è nel mondo (gente, natura) con una certa venerazione sacrale. […]. Non sono interessato alla dissacrazione. È una moda che detesto[…]. Io voglio riconsacrare le cose per quanto possibile, voglio rimitizzarle» [34].
Lo stesso Pasolini, in un’altra famosa intervista a Enzo Biagi, che gli domanda, sorpreso, come mai un pensatore marxista mostrasse tanto interesse per il Vangelo di Cristo, afferma:
«Evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico: tratto le cose un po’ come miracolose. Ogni oggetto per me è miracoloso: ho una visione – in maniera sempre informe, diciamo così – non confessionale, in un certo qual modo religiosa, del mondo. Ecco perché investo di questo modo di vedere le cose anche le mie opere. […] per me il Vangelo è una grandissima opera intellettuale, una grandissima opera di pensiero che non consola: che riempie, che integra, che rigenera » [35].
Una visione del mondo simile a questa si trova in tutta l’opera poetica di Pino Battaglia. Essa trova una prima forte espressione nei versi che scrive, nel biennio 1984-1985, a seguito di una sua personalissima rilettura della Bibbia. Questi versi vengono raccolti in un libretto, intitolato Genesi e Requiem che, tradotti in tedesco da Bruna Dal Lago e Elmar Locher e musicati da Heinrich Unterhofer, saranno pubblicati nel 1986 in un prezioso volume [36].
Fin dalle prime righe, in un linguaggio ermetico che gli è familiare, Battaglia enuncia il suo programma:
Primo giorno
«L’arido regni dov’è terra e l’oscuro dov’è il cielo
luce dia dunque risalto alla mia luce
affinchè io possa definire il mio contrario.
Il giorno sia del puro e sia dominio,
la notte del perso nel suo equivoco» [37].
Gli elementi contraddittori ( i contrari ) presenti in apertura della sua Genesi tornano in tutti i sei giorni successivi. In forme diverse le coppie dei contrari s’inseguono tra loro ( maschio e femmina, sapienza e mancamento, perdita e allontanamento, limpido e torbido, generazione e corruzione, umido e secco) e sembra che trovino pace solo nel settimo giorno, quando il poeta sembra aver raggiunto, seppure in forma vaga, la consapevolezza dialettica che tutto l’universo è pervaso da contrari:
settimo giorno
(sospensione)
«M’abbandono, e mi dona altra vaghezza
il perdurare nell’umido e nel secco» [38].
Ancora più drammatici appaiono i versi del suo singolare Requiem, sotto titolato preghiere di un morto per i morti, che si apre così:
anthipona ad introitum
«Io ti cerco, Signore, e disangue mi si macchia
l’occhio e la mano. Nel mare del buio
mi sostengo come la palmata foglia in attesa.
Non sono stati gli escrementi di una rondine,
Signore, a rendermi cieco, né la mia mano
è stata resa inoperosa da una vigna
che pazienta. Io non ho fatto come la terra
che nutre il chicco , ma come il vento che lo disperde» [39].
Questo tema torna nel suo dies irae:
«Non somiglio al grano che nutre e che è grato,
né dell’uva al grappolo che fragile compie,
ma al casuale vento che patisce e distrugge.
[…]
Un muratore operoso e severo, con pietra
viva e cemento, definisca il mio fosco
passare e il mio male declini nel luogo.
[…]
Signore, giorno d’ira è il Tuo giorno,
il vero ritorna tramite Te,
spoglio, ormai, e ogni senso perduto» [40].
Ma raggiunge il suo apice nell’ offertorium:
«Ti offro, Signore, la mia carne devastata
e i minuzzoli dei miei occhi. Per fossi
e per borri, le ali agitate della mia inquietudine,
le fredde mani con cui palpo le pietre
venose della terra, e i sotterranei rivoli
della mia disperazione. Se perdendo
il corpo io ritrovo l’essenza, sia persa
la briciola in nome del seme» [41].
Traspare chiaramente da questi versi straordinari un vago senso di colpa e un presentimento della prossima malattia che lo condurrà ad una prematura morte.
Battaglia nei suoi ultimi anni di vita è stanco ma – a differenza di Pasolini, a cui pur non mancava il senso religioso della vita – è sostenuto da una fede potente. Si avverte, soprattutto nei suoi ultimi versi, una personale rilettura dei Salmi e del libro di Giobbe dell’Antico Testamento. Non a caso, tra le ultime cose che ha scritto, si possono leggere preghiere come queste:
«Lo scriba è stanco e, in punta di piedi,
s’allontana dalla vita; in silenzio,
s’appressa alle vette, ai manti di neve,
e in tanto mare, come il dolce passero,
che si nutre di quel che resta […]
La verità dell’anima esige distanza.
Lo scriba è stanco d’essere scriba, chiede dunque,
dissolvimento e mutazione» [42].
Pino Battaglia sa che il suo viaggio sta per volgere al termine, egli ha ormai preso distanza da tutte le cose amate nel corso della sua breve ma intensa vita. Non gli costa nulla, ora, riconoscere d’essere stanco e si rivolge così al suo unico Signore:
«Mia roccia, mio Signore, donami il sigillo della dimora
perché, ormai, è sera e io sono il viandante,
[…]. Ora io sono stanco. Le vene dolci della viva pietra
voglio per dimora e nella legna che brucia consumare
l’arte. Vengano ai tuoi piedi tutte le strade
che ho percorso. Ti chiedo grazia» [43].
Oltre che dalla sua solida fede e dalla sua poesia, negli ultimi giorni della sua vita, Pino è stato sostenuto dai suoi amici più cari, dalle sorelle e dalla madre. Alla madre aveva dedicato questi versi quando aveva solo 18 anni:
«Casa dove tutto ha sapore di lei
un libro ordinato nella scrivania,
il pavimento pulito,
l’ amore disegnato su tutti i muri.
Madre stammi vicino ora che i fiori sono
lame sguainate pronte a ferire chiunque
in un mondo di nemici e di sangue
sparse al vento (…).
Stammi vicino e non mi lasciare» [44].
Sarebbe facile qui ricordare cosa ha rappresentato la madre per Pasolini. Ed evito quindi di farlo. Ma va ricordato che il poeta di Aliminusa, nel 1992, in una breve nota introduttiva alle sue ultime raccolte di versi dialettali Fantàsima (1991) e Discesa ai morti (1992), scrive:
«Mai dire mai. Dopo tredici anni è riaffiorata la lingua della madre, primigenia e assoluta, integra e viva, qual è ancora oggi, mai persa, nonostante la lontananza da questi luoghi, certo, discontinua, ma reale. Per quel che vi può essere di reale nelle cose della vita. Tirate le somme, ad ogni modo, contano, quanto meno dovrebbero contare, le ragioni del cuore» [45].
Fino alla fine, pertanto, Battaglia rimane fedele sia alle ragioni del cuore che alla lingua della madre con la quale scrive alcuni dei suoi versi più belli:
«“Vinninu scuru”, rici lu scuru / “Vinninu lustru”, rici lu lustru./ ‘Mpurrazzàssiru ‘na larma di ventu,/ scuvassi ventu, e ci sfunnissi lu sensiu! » [46].
Battaglia ha vissuto le gioie, i dolori e i misteri della vita «con teneri occhi di bimbo» [47]. Ha conservato fino all’ultimo il suo stupore infantile, non ha mai tradito le cose in cui credeva; anche per questo, nei primi incendi che hanno bruciato i boschi dell’isola, ha visto bruciare il cuore stesso delle nostre infelici città:
«Il bosco brucia ed è peggio che bruci / il cuore di una città […] La strada, in salita, ci porta / al di là del fuoco, in una radura sicura. / La formica che una mollica porta / s’assume l’onere della conservazione» [48].
La poesia degli ultimi mesi di vita di Battaglia diventa allora “la formica” che si assume , appunto, “l’onere della conservazione”. E sta tutta qui, secondo me, il suo carattere “sacrale” [49]. Lo stesso Battaglia, peraltro, si è mostrato consapevole fino all’ultimo della sua segreta forza:
«Non tradire mai la tua luce
poiché quando morirai
luce dovrai espandere» [50].
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
[*] Intervento al Convegno su “Laicità e religiosità nella poesia di G. G. Battaglia”, Palermo, settembre 2016
Note
[1] G. G. Battaglia, Poesie 1979-1994, a cura di Vincenzo Ognibene, Lithos Editrice, Roma 2015.
[2] Il testo di S. S. Nigro si trova ora in G.G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio. Poesie 1968-1992, a cura di Vincenzo Ognibene, Arbash edizioni, Bagheria 2005:161-163.
[3] G. G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio, op. cit.: 141.
[4] Donatella La Monaca, Lo scriba ramingo, Introduzione a G. G. Battaglia, Poesie 1979-1994, op. cit.: 21.
[5] G. G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio, op. cit.: 26.
[6] Il testo integrale della lettera di Leonardo Sciascia si trova ora in G. G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio, op. cit.: 155.
[7] L’intervista di Enzo Golino a Pasolini esce sul quotidiano Il Giorno il 29/12/1973. Il testo dell’intervista, insieme ad altri testi, verrà poi raccolto dallo stesso autore nel volume Letteratura e classi sociali, Laterza, Bari 1976. I passi citati si trovano a p. 111.
[8] La testimonianza di Vincenzo Ognibene, preziosa per me, si trova ora in Giuseppe Giovanni Battaglia, L’Ordine di Viaggio. Poesie 1968 -1992, op. cit.: 175. Il testo del poeta di Aliminusa, intitolato Fanciulli, si trova ora raccolto in G. G. Battaglia, Poesie 1979-1994, op. cit.:161-162.
[9] G. Battaglia, Vriogna, in La piccola valle di Alì, Flaccovio, Palermo 1972, ora in L’Ordine di Viaggio, op. cit.: 36.
[10] Ibidem. 31.
[11] La recensione di Io faccio il poeta, pubblicata nel gennaio 1974 sul periodico Tempo, rispunta in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975: 221-225.
[12] Nel saggio Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini, pubblicato nel novembre 2011 sulla rivista dell’Università di Barcellona Quaderns d’Italià, ho cercato di mostrare, tra le altre cose, come le ultime poesie friulane di Pasolini, raccolte nel volume La nuova gioventù (Einaudi 1975), coeve ai più famosi Scritti corsari, contribuiscono a comprendere meglio il suo pensiero. Queste poesie, scritte all’indomani della crisi petrolifera del 1973, anticipano di quarant’anni i teorici odierni della cosiddetta decrescita (Latouche e altri). In esse viene indicata una possibile via d’uscita dalla crisi. Ma i poeti, si sa, tanto più geniali sono, tanto meno vengono ascoltati.
[13] Ibidem: 221-222.
[14] Ibidem:. 223-225.
[15] S. S. Nigro, La nuova follia di Giuseppe Battaglia, Prefazione a L’Ordine di Viaggio (1988), ora in L’Ordine di Viaggio 1968-1992, op.cit.:162-163.
[16] Questi versi intitolati Proverbi, raccolti nella sezione Tra l’incudine e il martello, fanno parte della raccolta Le strade delle mutazioni 1976-1977. Ora in L’Ordine di Viaggio, cit.: 67-69.
[17] Ora in G. G. Battaglia, Poesie, 2015: 65.
[18] Ibidem: 69.
[19] G. G. Battaglia, Nota dell’autore (1992) all’ultima edizione de L’Ordine di Viaggio, 1968-1992, comprendente gli ultimi versi scritti in dialetto da Battaglia Fantasima e Discesa ai morti (1992), ora nella nuova edizione Arbash già citata: 143.
[20] La chiazza vacanti è il titolo di una sua poesia.
[21] SINDACATO. Periodico della Camera del Lavoro di Palermo, n. 3, aprile 1979: 22.
[22] Ivi, n. 4, maggio 1979: 4-7. Significativo appare il fatto che lo stesso periodico, qualche mese dopo, e precisamente sul n.7/1979, pubblichi un profilo di Neruda firmato dallo stesso H. Castellano Giron.
[23] Ivi, n. 5, giugno 1979: 21.
[24] Giuseppe Battaglia, Note ai margini di un funerale, in SINDACATO, n. , novembre 1979: 5-6.
[25] Ibidem:6.
[26] Pasolini, Scritti corsari, op. cit.: 31.
[27] Pasolini, Siamo tutti in pericolo. Intervista a cura di Furio Colombo, La Stampa, Tuttolibri, 18 novembre 1975, ora Sps: 1728-1729.
[28] Ibidem: 1725-1726. Tanti hanno comunque dimenticato che affermazioni simili Pasolini le aveva fatte fin dai primi anni ’60. Basti ricordare, per tutti, questo passo: «L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società». P.P. Pasolini, in Vie Nuove 1962.
[29] G. Battaglia, Sei testi teatrali , a cura di V. Ognibene, Presentazione di.Lina Prosa, Arbash, Bagheria 2005.
[30] Ivi: 58.
[31] F. Muzzioli, Saggio introduttivo a G. Battaglia, G.III, op. cit.: 146-147.
[32] G. Battaglia, Storia minima delle situazioni generali (1992), ora in Poesie 1979-1994, op. cit., p. 448.
33 G. G. Battaglia, La conta delle ore, 1988-1992. Ora in Poesie 1979-1994, a cura di Vincenzo Ognibene, Lithos Editrice, Roma 2015: 446.
[34] Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday [1968-1971] ora in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, A. Mondadori Editore, Meridiani, Milano 1999:1332-1336.
[35] Il testo dell’intervista rilasciata da Pasolini a Biagi si trova negli Archivi RAI. La copia audiovisiva della stessa si trova oggi anche in You Tube. Il passo citato l’abbiamo ripreso dalla rivista Nuovabusambra, n. 3/2013, Giovanni XXIII visto da P.P.Pasolini (a cura di Francesco Virga): 68-84. Una copia integrale dell’intervista si trova anche in http://www.doppiozero.com/materiali/ppp/produco-poesia-una-merce-inconsumabile.
[36] G. G. Battaglia, Genesi e Requiem, Introd. Bruna Dal Lago, Progetto scenico di H. Unterhofer, Disegni di M. Vallazza, Edizioni Nuovo Studio Bolzano, 1986. Nel 2018 il Conservatorio di Musica Vincenzo Bellini di Palermo ha in programma la prima esecuzione nazionale dell’opera di Battaglia nella versione musicata da Heinrich Unterhofer.
[37] Ivi: 20
[38] Ivi: 32
[39] Ivi: 40
[40] Ivi: 42.
[41] Ivi: 44.
[42] G. G. Battaglia, Lo scriba è stanco in La conta delle ore (1988-1992) ora in Poesie (1979-1994): 452.
[43] G. G. Battaglia, Preghiera serotina. Ibidem: 429.
[44] G. G. Battaglia, Lettera alla madre, in La terra vascia, cit.: 40-41.
[45] G. G. Battaglia, L’Ordine di Viaggio, op. cit.: 143.
[46] G. G. Battaglia, Discesa ai morti (1992) Ora in L’Ordine di Viaggio, cit.: 130, dove si trova anche la traduzione italiana fatta dallo stesso poeta.
[47] Poiché io ebbi freddo in una lunga notte ora in G. G. Battaglia, Poesie ( 2015) op. cit.: 445
[48] Incendio, 1994, ora in Poesie, cit.: 447.
[49] Ferruccio Ulivi è stato uno dei primi critici a cogliere la “sacralità” della poesia di Battaglia nella sua Introduzione a Il libro delle variazioni lente, Lithos, Roma 1987.
[50] G. G. Battaglia, Poesie (2015):451.
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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012).
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