di Sara Raimondi
L’argomento che si vuole affrontare in queste pagine è certamente ampio, complesso e richiede l’intervento di più professionisti dei vari settori. Si cercherà comunque di offrire degli spunti antropologici sul tema e delle ipotesi di riflessione per condividere con altri ricercatori domande e interrogativi, in vista di approfondimenti futuri. Il tema in oggetto sono i cimiteri. Essi sono luoghi di interesse per architetti, antropologi che trattano il folklore, storici, ma restano comunque spazi lasciati ai margini. I margini sono quelli urbani – dal decreto Napoleonico i comuni avevano l’obbligo di costruire cimiteri fuori dalle mura della città – ma sono anche i margini degli spazi intellettuali, emotivi, politici ed economici.
Per quanto riguarda i limiti urbani è importante tenere presente l’ordinanza del Parlamento francese del 1765 che proibiva le tumulazioni all’interno delle chiese e nei campi accanto alle parrocchie. Infatti, da quel momento in poi in tutta Europa si scatenò quella che può essere definita un’epidemia igienista e furono molti gli Stati che – spinti dalle élite intellettuali – chiedevano di risolvere il problema delle sepolture. Con ciò si intende una situazione che oggi definiremmo di malasanità, che caratterizzò sia il XVIII che il XIX secolo. All’interno delle chiese, dove da secoli venivano sepolti gli uomini più illustri, le tombe mal chiuse esalavano i gas della decomposizione, mentre i giardini attorno alle cappelle e basiliche erano spesso luoghi per fosse comuni aperte e richiuse costantemente, per fare spazio alle spoglie del popolo. Questa situazione divenne inaccettabile mano a mano che le autorità mediche confermavano la pericolosità dell’aria stagnante della putrefazione, causa di malattie e pestilenze; perciò si richiese l’intervento delle autorità statali che, seguendo l’esempio francese, si attivarono nella creazione di spazi cimiteriali extra-urbani.
«È proprio dalla fine del Settecento, con la creazione dei cimiteri fuori dalle mura cittadine, che possiamo iniziare a parlare di allontanamento della morte dalla sfera pubblica, momento che continuerà fino al Novecento, definito come il periodo del tabù della morte » [1].
Da quel periodo in poi i cimiteri sono stati dominati dalla razionalità e dalla ragione: essi erano luoghi dove il cadavere poteva essere conservato e dove poteva terminare il suo ciclo di decomposizione senza arrecare fastidio ai vivi. Sarà poi durante il XIX secolo che a questa esigenza igienista si unirà anche la volontà di affermazione borghese. Nei secoli precedenti la borghesia aveva acquisito il privilegio di poter seppellire i propri morti all’interno delle chiese, alla maniera aristocratica, attraverso il pagamento d’ingenti somme; ma durante l’Ottocento, quando la nobiltà dell’ancien régime era solo un ricordo e la sepoltura nelle chiese era stata proibita, la società borghese trovò nelle tombe uno spazio di affermazione della loro nuova forza socio-politica. Il monumento funebre, la lapide, la croce sono sì simbolo di morte ma anche di rivalsa democratica, a dimostrare che non solo l’aristocrazia merita di essere ricordata nei secoli. Il diritto a una tomba individuale con il proprio nome – e successivamente la propria immagine – va di pari passo con il diritto alla città (Ragon, 1986:90), cioè con il diritto di avere sia in vita che in morte uno spazio, una residenza.
Perciò i cimiteri ottocenteschi diventeranno l’espressione dei sentimenti del periodo: l’importanza dell’identità personale, la volontà di celebrare le proprie gesta in vita e allo stesso tempo la dimostrazione di appartenenza a un cerchia più ampia, cioè quella della propria patria.
Eppure oggi il tema delle sepolture, come detto all’inizio, è un tema tenuto a margine della nostra sfera quotidiana attraverso due atteggiamenti principali: da un lato tendiamo a patrimonializzare i cimiteri più antichi, i cosiddetti cimiteri monumentali; dall’altro lato tendiamo a non interessarci delle tombe che ancora oggi vengono utilizzate, inserendole solo raramente all’interno della questione della progettazione urbana, fornendo pochi finanziamenti per la creazione di spazi degni o, nel migliore dei casi, costruendo nuovi edifici funebri che non rispecchiano la moderna percezione della morte.
Addentrandoci meglio all’interno della questione, occupiamoci innanzitutto del primo punto, ossia della patrimonializzazione verso gli spazi cimiteriali. A suggerire questo tema è di nuovo Ragon che negli anni Ottanta affermò:
«La nostra epoca vive, com’è noto, all’insegna del museo. Museifichiamo tutto: vecchie pietre, vecchi quartieri, vecchie città e anche le arti contemporanee. Naturalmente anche il cimitero è diventato museo» (1985:95).
Da qui lo sviluppo di una vera e propria forma di turismo che ruota intorno ai cimiteri monumentali: dal Père-Lachaise di Parigi, alla Certosa di Bologna, il cimitero di Highgate a Londra oppure il cimitero Poblenou di Barcellona, con tanto di guide turistiche che consigliano quali zone visitare dei diversi camposanti, su quali tombe soffermarsi e il racconto in breve della vita dei personaggi famosi lì sepolti. I cimiteri monumentali sono quelli che hanno coinvolto illustri architetti, sono l’esempio della potenza di quelle famiglie che hanno stanziato molto denaro affinché la loro generazione fosse per sempre ricordata in un monumento funebre o in una spaziosa cappella di famiglia.
Luigi Bartolomei scrive chiaramente che per molti secoli coloro che facevano costruire tombe avevano come obiettivo primario quello della permanenza oltre la morte (2015: 2): le piramidi, i memoriali, le steli e i grandi mausolei da sempre sono stati progettati con l’intento di conservarsi in eterno, a testimonianza delle vite perdute. In particolare dal XIX secolo, all’affermarsi dell’individualismo borghese, chi poteva permetterselo adornava il sepolcro del proprio caro con lapidi, statue di angeli o santi. Ci troviamo così a conservare in modo quasi spasmodico ogni singolo esempio di tomba precedente al XX secolo, mentre l’attuale architettura funebre è caratterizzata da caducità e testimonia attraverso strutture effimere la precarietà stessa della vita (Bartolomei, 2015: 3). Probabilmente il passaggio a questa situazione è anche dovuto all’attuale condizione demografica: la popolazione è aumentata e così anche i suoi morti, tutti destinati ai cimiteri – mentre nei secoli precedenti solo i nobili e poi i più ricchi avevano questo privilegio. Ciò non toglie che anche il tempo della storia tra i sepolcri è profondamente accelerato: nel corso di circa cinquanta anni (a volte meno) un corpo viene sepolto, dissepolto e i suoi resti trasferiti in un ossario o nella fossa comune; così anche gli oggetti architettonici, la tomba, la lapide vengono rimossi, scompaiono insieme ai proprietari. L’architettura cimiteriale post-moderna nella maggior parte dei casi non è fatta per rimanere.
La patrimonializzazione dell’architettura passata ci conduce necessariamente al tema dell’identità. Come scrive Dominique Poulot, patrimonializzare significa solidi- ficare il tempo (2006: 129) in nome della conservazione di valori, memorie, fatti che intravediamo all’interno degli oggetti che vogliamo preservare. Allora quali sono i valori espressi nei cimiteri monumentali che sentiamo il bisogno di custodire? Ma soprattutto, se la patrimonializzazione alimenta le identità collettive, perché queste possano continuare nella loro riproduzione ciò che musealizziamo deve aprirsi ai mutamenti culturali dell’epoca contemporanea (Poulot, 2006: 149).
Ed è qui che si individua la marginalizzazione del secondo tipo, quella che ha reso i cimiteri come musei ottocenteschi: un insieme di defunti, accatastati con ordine sì ma privi di un senso di insieme che si ricolleghi ai valori dei cittadini. Le parole di Pietro Clemente in riferimento ai musei calzano alla perfezione anche se usate per gli spazi cimiteriali: essi si presentano come «gallerie, pinacoteche, antiquaria, pieni di fascino per i colti e di oscurità per la gente comune» (2006:156), mentre potrebbero essere «un’istituzione culturale capace di iniziativa e di svolgere un ruolo formativo, di educare la sensibilità» (2006:157). Se Hainard Kaher afferma che i «musei danno valore a cose che sono fuori della vita: in tal modo essi assomigliano a cimiteri» (1986:33), allo stesso tempo è possibile dire che i cimiteri assomigliano a musei dove si conservano cose ormai prive di utilità diretta.
Infatti, se osserviamo i contemporanei spazi funebri essi sono il culmine della razionalità moderna in merito al controllo della morte. Essi sono frutto della normativa in merito alle loro modalità di costruzione ed ampliamento e ogni evento che avviene al loro interno è stato in precedenza approvato dalla polizia mortuaria del comune. I cimiteri sono l’oggettivazione del controllo burocratico con cui si è circondato l’evento morte al fine di dominarlo, come lo sono anche la medicina e la legislazione in materia funeraria.
La razionalizzazione come fondamento per la progettazione dei cimiteri continua già negli anni Settanta del Novecento, come si nota osservando il progetto di Aldo Rossi e Gianni Braghieri per l’ampliamento del cimitero S. Cataldo di Modena. Questo cimitero esemplifica due dei modi di “fare cimiteri” dalla nascita del cimitero extraurbano: da un lato vi è la struttura ideata da Cesare Costa, costruita tra il 1860 e il 1875, che rispecchia in pieno il canone del cimitero monumentale, dall’altro vi è appunto la costruzione di Rossi e Braghieri che vinse il bando del 1971 ma il cui progetto non è ancora stato del tutto completato. Leggendo la biografia di Aldo Rossi emerge come l’intento fosse quello di creare una struttura cimiteriale quale luogo di residenza dei defunti, una vera e propria città dei morti accanto a quella dei vivi. L’approccio era quindi quello di ideare un cimitero dove la comunità modenese potesse far visita alla comunità degli ormai “ex-modenesi”. Come ci fa notare Gilda Giancipoli (2015: 25) esso doveva essere un luogo architettonico dove la forma e la razionalità della costruzione rimandassero alla pietà per i defunti e contrastassero al disordine della frenetica vita urbana del tempo.
Il difetto sta però nella produzione di un ambiente con una forte impronta collettivistica, che non lascia spazio al singolo e alla sua individualità. Intorno all’anno 2001 il comune di Modena ha proceduto nella creazione di un ulteriore elemento nel cimitero di S. Cataldo proprio avvalendosi del progetto degli anni Settanta: è stato creato un grande cubo, una struttura che ospita i resti dei caduti in guerra. È un edificio caratterizzato da linee rette, forme appuntite e giochi di pieni e vuoti che rimandano al vuoto stesso che lascia la morte. L’impressione, osservandolo è di essere davanti a un oggetto scheletrico, esistente solo nella sua ossatura principale. Ed era esattamente questo l’intento degli ideatori del progetto: mostrare la morte nel suo nichilismo, ricreando una casa dei morti come un grande palazzo abbandonato, privo di decori e di effetti barocchi. Questa costruzione deve essere l’emblema della morte laica contraddistinta dal non avere convinzioni ed immagini di un futuro oltre la morte, di una vita altra in un luogo migliore. Seguendo le parole della Giancipoli «viene mostrata la drammaticità dell’evento in sé, come atto conclusivo senza prosieguo né ritorno» (2005:29).
Da queste righe risulta evidente come anche la loro progettazione dei cimiteri nella seconda metà del Novecento sia sempre stata dettata da una ratio volta alla separazione netta tra la città dei vivi e quella dei morti: certo il progetto modenese di Barghieri e Rossi si è presentato come desideroso di ricreare una città per i defunti, richiamandosi all’antico concetto di necropoli, ma di fatto non è diventato un sistema per onorare i propri cari, soltanto un modo per dare loro una sede lontana da quella della vita quotidiana. Il cimitero di San Cataldo a Modena è diventato uno spazio dove le persone non vogliono essere sepolte, tanto che durante una ricerca sul campo una mia informatrice, impiegata in una agenzia funebre del modenese, mi ha riferito che nessuno vuole essere sepolto in questo cimitero e molti sono i parenti dei defunti che chiedono, se è possibile, di trovare un cavillo legale che permetta la sepoltura in un cimitero alternativo.
Perché questo grande progetto, questo cimitero al contempo moderno e monumentale, su cui si sono concentrati ricerche, finanziamenti, riflessioni architettoniche è sentito così lontano dalla cittadinanza? Il problema risiede proprio nel suo concetto di casa, abitazione per i defunti. Dal punto di vita teorico l’idea di creare uno spazio dove i morti possano abitare è pregevole e certamente importante ma si è dimenticata una parte dell’abitare. La parola abitare è etimologicamente legata alla parola latina habeo, avere, possedere. Da lì deriva anche il concetto di habitus che non è traducibile con la parola abitudine ma esprime l’idea di avere una sede, intesa come un corpo con uno spazio e con determinate caratteristiche dovute all’impronta culturale lasciata su di esso. Pensare all’abitare senza pensare al corpo, ad un corpo agito e performativo è limitarsi ad un solo lato della medaglia. Utilizzando le parole di Francesco Remotti:
«Appare evidente che la nozione di ‘corpo’ svolge un ruolo di mediazione tra quella di ‘luoghi’ e quella di ‘costumi’ o ‘abiti’: e questa funzione è svolta in quanto luoghi da un lato e costumi dall’altro si trovano connessi con i corpi» (1993: 35).
Quello che si è fatto spesso con i cimiteri è stato quindi creare luoghi in realtà senza corpi. Senza perché le salme vengono nascoste, sepolte o chiuse in loculi e contemporaneamente sono spazi così connessi alla morte che i viventi – familiari e amici dei defunti – non si recano in cimitero considerandolo troppo lugubre, triste e vuoto. Con l’intento di creare uno spazio che rappresentasse una morte laica, intesa come estranea all’idea di una vita dopo il trapasso e lontana da qualsiasi idea di resurrezione o metempsicosi, si è creato uno spazio unicamente per la perdita.
Così si è ignorato un punto fondamentale dell’esperienza umana: la morte, fatto universale, è universalmente combattuta con la vita: con simboli, azioni, gesti e parole. In particolare la società occidentale contemporanea, proseguendo il cammino iniziato a metà del Novecento di tabù sulla morte, si riconosce in spazi e momenti in cui il dolore per il lutto viene contrapposto a ricordi positivi, il vuoto di chi è venuto a mancare viene riempito con racconti della sua vita. Ciò che è richiesto è una performance per la vita che possa aiutare nel momento di forte rottura: una persona della propria cerchia viene a mancare, la catena sociale si spezza e subentra anche il dramma della mortalità che solitamente teniamo nascosto. Il periodo del lutto è un processo che Sally Falk Moore (1971: 38) chiamerebbe processo di regolarizzazione, dopo che la struttura ha avuto un cedimento ed è possibile immaginarla come una processualità performativa che tenta di regolarizzare le indeterminatezze dell’esistente.
I riti – compresi quelli funebri – sono quindi considerati come performance (Turner, 1989 e 1993) attimi in cui l’uomo manifesta sé stesso. E come ogni performance è richiesto uno spazio consono, dove attori e spettatori possano portare avanti il momento rituale al fine di riordinare il dramma sociale in corso. Eppure gli spazi cimiteriali sono sempre più lontani dall’essere luoghi adatti per queste cerimonie, non sono spazi in cui il gruppo può gestire la morte poiché sono semplicemente dominati da essa. Al contrario, occorre progettare cimiteri senza ancorarsi a simbologie di morte, al senso di vuoto che resta nel lutto o alla durezza del destino che tocca a tutti, come è stato fatto per il cimitero di San Cataldo di Modena. Un progetto degli anni Settanta, creato da architetti profondamente legati a teorie intorno all’architettura funebre, non è sentito come proprio da una popolazione che è in questi ultimi anni entrata in una nuova fase del tabù della morte.
Gli spazi che i cittadini vogliono vivere quando ripensano ai propri cari, visitandone le tombe, dovrebbero rimandare a simbologie di vita, come ho riscontrato durante il mio periodo di ricerca all’interno della Terracielo funeral home di Modena. I dolenti erano felici di poter dare l’ultimo saluto in uno spazio illuminato, con stanze ampie, tinteggiate di colori tenui. La luce, le piante, l’acqua che scorre e torna a rifluire in circolo in una fontana rimandano all’idea della vita che prosegue, della serenità che può risiedere nel ricordo. Gli ambienti circolari, come in un abbraccio, davano una sensazione di accoglienza, di conforto rispetto a cubi e forme appuntite.
In conclusione, sarebbe interessante iniziare a riflettere sull’attuale funzione dei cimiteri, sulla base della odierna fruizione sia come luogo dal valore patrimoniale sia come luoghi che rivestono un ruolo per la cittadinanza nella custodia dei defunti. La speranza è quella di individuare nuovi atteggiamenti nella costruzione e restaurazione degli spazi cimiteriali, affinché possano tornare ad essere luoghi dove le persone, nei momenti di lutto e non, abbiano uno spazio per riflettere sul morire, per ricordare chi ci ha lasciati utilizzando i meccanismi culturali odierni attraverso cui si sottolinea la forza della vita, della memoria, delle azioni positive e individuali contro il vuoto e lo scandalo della morte.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note
[1] Cfr. Gorer G., The pornography of death, 1955; Gorer G., Death, grief and mourning, New York, Anchor Books, 1967; Ariès P., L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1985.
Riferimenti bibliografici
Ariès P., L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1985
Bartolomei L., Introduzione e quadro critico, in In_BO Ricerche e progetti per il territorio, la città e l’architettura, vol. 6, n. 8, 2015: 2-10
Clemente P., Antropologi tra museo e patrimonio, in Irene Maffi (a cura di) Il patrimonio culturale, numero unico della rivista Antropologia , anno 6, n.7, 2006: 155-173
Giancipoli G., La casa dei morti. Il cimitero S. Cataldo a Modena di Aldo Rossi e Gianni Braghieri, in In_BO Ricerche e progetti per il territorio, la città e l’architettura, vol. 6, n. 8, 2015: 22-34
Gorer G., The pornography of death, in Encounter, October, 1955
Gorer G., Death, grief and mourning, New York, Anchor Books, 1967
Moore S. F. e Myerhoff B., a cura di, Secular Ritual, Amsterdam, Royal Van Lorcum, 1971
Hainard J., Kaher R., Collections passions, Neuchâtel, Musée d’ethnographie, 1986
Poulot D., Elementi in vista di una ragione patrimoniale in Europa, secoli XVIII-XX, in Irene Maffi (a cura di) Il patrimonio culturale, numero unico della rivista Antropologia , anno 6, n.7, 2006: 129-134
Ragon M., Lo spazio della morte, Napoli, Guida editori, 1986
Remotti F., Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Torino, Bollati Boringhieri, 1993
Turner V., Dal rito al teatro, Bologna, Il Mulino, 1989
Turner V., Antropologia della performance, Bologna, il Mulino, 1993
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Sara Raimondi, giovane laureata con lode in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università di Bologna, prosegue i suoi studi concentrandosi sui riti funebri nel mondo contemporaneo. Ha partecipato all’annuale conferenza SANT (Swedish Anthropological Association) con il paper A new way of dying: hard science and soft science applied in the study of funeral rites e all’International conference WWIII? Menagement of death between new social emergencies and their solution con il paper Dall’esperienza del trauma all’esperienza del rito.
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