per Luigi
di Letizia Bindi
Come affrontare la scomparsa di un maestro dal quale si è appreso a riflettere sulla morte? Luigi M. Lombardi Satriani ci ha lasciati alla fine di maggio, alle soglie di quel tempo estivo che ha sempre tanto amato trascorrere nella sua Calabria. Ancora la settimana precedente la sua scomparsa ha voluto lavorare con la redazione della rivista cui aveva dato per due volte vita: una prima volta giovanissimo, insieme con Mariano Meligrana, chiamandola “Spirito e tempo” e poi dandole l’evocativo nome “Voci”. L’aveva quindi nuovamente rifondata nel 2004, raccogliendo intorno ad essa un gruppo di allievi, colleghi e amici che si erano accostati e riconosciuti attraverso le generazioni nel suo magistero.
Una rivista plurale, di “voci”, per l’appunto, in cui tenere insieme temi ‘classici’ e nuovi spunti, discipline diverse e specificità dell’indagine demo-etno-antropologica, dibattito intellettuale e sguardi sul mondo. Ancora in quell’ultima riunione e nelle settimane precedenti raccomandava a ciascuno di noi di scrivere e portare alla revisione della rivista i resoconti più recenti delle nostre ricerche, invitandoci a un volume miscellaneo in cui tutte le anime del nostro lavoro potessero incrociarsi e confrontarsi.
A novembre aveva accettato con piacere l’invito presso l’Università del Molise per presentare la ristampa di Folklore e profitto (1973), uno tra i suoi lavori più interessanti e per certi versi innovativi, provvidenzialmente ripubblicato di recente dal Museo Pasqualino di Palermo (2021). Lavoro anticipatorio, capace di leggere dalle piccole tracce già presenti nella comunicazione di mercato anni Settanta, l’avvio e il consolidamento dei processi di reificazione della tradizione e di “distruzione di una cultura”, quella contadina, trasformata in icona di tipicità, popolaresca e populista persino, oggettivata e ‘gettata’ nella storia come prodotto di consumo, parlata e rappresentata da altri, spossessata, doppiamente, della voce e della parola, da sempre negata ai “muti della storia”. Pur affaticato, in quel giorno di novembre, accompagnato dalla moglie Patrizia e sollecitato dai quesiti e dalle riflessioni di Antonella Crudo e mie, aveva messo una speciale energia che mi aveva ricordato le sue lezioni romane degli anni Ottanta e Novanta, le sue interminabili e fascinose divagazioni a fine lezione, l’intensità delle sue riflessioni critiche.
La voce, le voci erano una cifra della riflessione e dell’eloquio di Lombardi Satriani. La sua voce, roca e profonda, maneggiata e dosata con attenzione, con le cadenze posate a segnalare la cura nella scelta dei termini e dei toni, è qualcosa che riaffiora continuamente e che manca, come quando il gesto più naturale sembrerebbe quello di chiamarlo al telefono e semplicemente ascoltare il suo accogliente: “bella mia”. La voce, le voci erano il cuore e l’anima pulsante della sua profonda libertà di sguardo e di ascolto, la materia prima del suo rispetto per le diversità che è stato, accanto alla tensione lucida verso la comprensione profonda del dolore e delle sofferenze, il suo più grande insegnamento umano e intellettuale.
Ciò che oggi sommessamente vorrei testimoniare è il valore incommensurabile dell’esperienza formativa e umana attraversata con questo maestro, il confronto con i temi fondamentali e al tempo stesso urgenti del dibattito delle scienze sociali attraverso i decenni che ci ha insegnato a intrattenere, gli strumenti che ci ha fornito, elargendo a piene mani, en largesse, le sue conoscenze e le sue posture intellettuali. In primis la riflessione critica e impegnata sulle “culture subalterne”, l’impianto gramsciano della sua riflessione che andava a mescolarsi, come nell’ultimo, da lui particolarmente amato de Martino, con i temi della fenomenologia, dell’esistenzialismo e della filosofia estetica, l’attenzione verso le forme di spettacolarizzazione e patrimonializzazione delle tradizioni popolari, del meridionalismo e folklorismo deteriori che lo poneva in riflessione dialettica, talora anche fortemente polemica, con Alberto M. Cirese, Vittorio Lanternari, Alfonso Maria Di Nola, Clara Gallini, Amalia Signorelli, Tullio Seppilli, Antonino Buttitta, Gianluigi Bravo, Pietro Clemente, Alberto M. Sobrero e molti altri.
Era acuta in lui la tensione critica verso la funzione anestetizzante e omologatrice dei media e del consumismo che pur tra differenze lo aveva accomunato e al tempo stesso messo a confronto con l’ultimo Pasolini, in particolare, ma anche con la semiotica e l’antropologia simbolica di matrice francese.
Studiare e formarsi con lui significava attraversare in lungo e largo il dibattito e le linee fondamentali delle discipline demo-etno-antropologiche del Novecento, seguendo dei filoni di riflessione che funzionavano come assi del pensiero. Tra queste la provocatoria e dibattutissima definizione del “folklore come cultura di contestazione” (1967) e poi dell’“antropologia come analisi della cultura subalterna” (1980) che gli attirò molta attenzione e alcune critiche di chi vi aveva ravveduto elementi di politicizzazione eccessiva dei processi culturali. Al contrario, Lombardi Satriani ebbe sempre molto acuta la percezione di una circolarità e dinamicità dei rapporti di scambio tra movimenti giovanili e le società contadine in trasformazione e li osservò in primo luogo come potenziale baluardo contro il rischio crescente di un ‘folklore illanguidito’ – come ebbe a definirlo (1973) – dalle maglie sempre più ciniche e stringenti del mercato della tipicità e delle radici.
Accanto a questa riflessione politica si agganciava e si recuperava l’originario interesse verso il ‘folklore’ giuridico, ereditato dalla generazione dei padri e dal lavoro dello stesso zio, Raffaele Lombardi Satriani, accanto ad altri studiosi italiani ed europei che avevano circolato nelle stanze della casa calabrese e che poi aveva avuto modo di incontrare nei suoi anni napoletani e romani. La sua attenzione verso l’antropologia giuridica era erede di una nobile e importante scuola europea di studi comparativi dei diritti consuetudinari e concentrava la sua riflessione sui codici contadini di rispetto e osservanza delle regole, ma anche sulle origini in ambito rurale dei fenomeni mafiosi, sulla loro codifica culturale come modalità di comprensione e decostruzione delle ragioni della loro riproduzione che avrebbe sviluppato ancora una volta con Mariano Meligrana e poi, dopo la scomparsa dell’amico carissimo e compagno di studi e ricerche, proseguendo con l’impegno anche pubblico contro le mafie attraverso la loro disamina profonda.
Su queste colonne per molti versi, accanto all’impegno sempre attento per la sua Calabria, si era poggiata anche la scelta della sua candidatura politica, culminata nell’elezione a Senatore della Repubblica nelle fila dell’Ulivo durante la XIII Legislatura. Di quegli anni ricordava il fervore, l’impegno nella Commissione ‘Istruzione e Cultura’ e in quella d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari. VI si aggiungevano le battaglie portate avanti nella Locride e oltre per una regione da tutelare dalle sue stesse zavorre e inerzie criminali; l’impegno nelle iniziative culturali di contrasto alla deriva criminale portate avanti con Vito Teti e Fulvio Librandi di cui ancora a dicembre ricordava con piacere, durante un incontro che ebbe presso la Curia di Campobasso proprio con il Vescovo Bregantini e con lo stesso Mimmo Lucano, al termine della sua lectio magistralis all’Università.
Ma Luigi era anche uno spirito curioso e profondamente libero, che certo non si limitava a letture a tema con le sue ricerche del momento. La sua voracità per la letteratura, ad esempio, denotava un’urgenza di nutrirsi di storie, di esplorare nella lettura mondi e vite che lo incuriosivano e lo interrogavano. Così me ne parlava, ricordandomi come, adolescente, nella residenza aristocratica circondata di libri e silenzio rispettoso, la letteratura avesse permesso alla vita, alle vite degli altri di entrare, di incrociare, segnandola indelebilmente, la sua; le vite diverse nella loro caleidoscopica diversità, traboccanti e piene di domande e di alternative ai modi e mondi di vita adusati. In questo senso amava leggere romanzi e poesia. I primi per questa capacità di proporre altre vite, la seconda per la capacità mimetica e accurata di restituire gli sguardi e di lasciar intuire le dimensioni nascoste, per il suo eccedere i silenzi.
Tra i lavori sicuramente più rilevanti – lo si è detto – Il Ponte di San Giacomo e la sua matura articolazione del tema in certo modo ‘classico’ della morte nelle società contadine. Quello di Lombardi Satriani e Mariano Meligrana è stato e rimane un testo fondamentale per articolare e tematizzare i temi toccati e delineati in precedenza dal demartiniano Morte e pianto rituale e quelli incompiuti e potentemente evocativi contenuti nell’inestinguibile miniera de La fine del mondo. Come in quello, dietro Il Ponte di San Giacomo, si leggeva chiaro il riferimento all’esistenzialismo francese, ad Heidegger, alla psicanalisi e all’etnopsichiatria di Jervis e di Servadio, eppure anche un saldo richiamo alla terra, alla cultura materiale, alle forme immanenti e minute della consolazione e del ricordo, nelle pratiche corali e collettive della cura dei defunti da parte delle famiglie toccate dal vulnus della morte entrato al loro interno.
Con altrettanta intensità di osservazione e profondità di riverberi teorici, Lombardi Satriani alcuni anni dopo aveva proposto ne Il silenzio, la memoria e lo sguardo (1979) una riflessione organica eppure plurale del silenzio nelle culture contadine – silenzio come segreto e come consegna, silenzio come attesa e come rispetto – ; della memoria come tensione tra passato e presente, come narrazione e filo che tesse legami tra comunità dei vivi e dei morti e come relazione ai maestri e alla cruciale dimensione demo-antropologica della trasmissione dei saperi. Aveva infine toccato in quello stesso volume il tema dello sguardo: sguardo molteplice, non prescrittivo, ma curioso; sguardo etnografico e sguardo magico, sapere e potere dell’occhio nel plasmare e tessere realtà. Un’acuta riflessione la sua sul guardare e sulle rappresentazioni che non a caso si era trasferita per rivoli molto variegati e complessi a tanti suoi allievi.
La sua riflessione spaziava dalle rappresentazioni fotografiche alle ‘visioni’ e comunicazioni della contemporaneità sviluppate in dialogo con la sua primissima generazione di allieve e allievi, alle icone della tradizione popolare napoletana come Pulcinella e le ‘figure’ che popolavano le storie popolari calabresi, alle figure del corpo cui aveva dedicato tanta parte della sua attenzione a partire dagli anni Novanta nel confronto costante con altre allieve e altri allievi divenuti stimate/i colleghi.
Alle soglie degli anni Ottanta la sua riflessione teorica e la sua ricerca etnografica si intrecciavano con una matura ricognizione della storia degli studi di demo-etno-antropologia italiani ed europei aprendosi, in modo autonomo, ai temi dell’antropologia come critica culturale, alla densità interpretativa delle etnografie che, quasi contemporaneamente e per altre linee generative, stavano avanzando nel contesto della scuola interpretativa e dell’antropologia critica nord-americana dalle cui movenze più decostruzioniste e puramente culturaliste, tuttavia, Lombardi Satriani ebbe modo spesso di prendere le distanze.
Le sue opere erano generative e le sue conversazioni un pungolo costante ad avanzare nelle domande. Domande per chi gli si rivolgeva come allievo, come collega, come amico e domande per sé stesso, in un continuo e intenso interrogarsi sul centro della vita e sull’umano sentire che è stata la sua cifra e il suo più grande insegnamento.
Si è detto di lui “barone rosso”: per la sua origine aristocratica e l’impegno a sinistra e fors’anche per il suo valore e potere accademico, specie a un certo punto del suo eccezionale cursus honorum accademico. Eppure Lombardi Satriani era profondamente libero dagli schemi, in certo modo anarchico e al tempo stesso capace di lasciare straordinaria libertà ai suoi allievi di spaziare in lungo e in largo tra le molte linee tracciate dalla sua riflessione. Intorno a lui si sono stretti numerosi e differenti gruppi di allievi e figure più autonome che hanno intrattenuto relazioni intellettuali profonde senza pur rientrare nella classica e probabilmente troppo stretta nozione di ‘scuola’. Era in primis la sua libertà e la sua curiosità la vera cifra unificante, la sua passione per la ricerca e la sua vigilanza politica il lascito più importante rivolto alle sue diverse generazioni di allievi.
E la sua ironia, il giro lungo delle sue discettazioni, la finezza con cui infilava citazioni coltissime dentro discorsi talora anche apparentemente quotidiani sono stati per tutti noi un monito a scegliere con cura le parole, a nutrirle come piante con le letture costanti, con studio giornaliero.
Gli avevo riportato il suo bastone, l’ultima volta che ci eravamo visti. Una mazza di legno intagliato, di fattura solida, come quelli di certi pastori. L’ho ritrovata al suo capezzale il giorno dell’ultimo saluto. Mi ha commosso quel bastone al suo capezzale. Ho pensato al cammino interrotto. Al cammino che continua.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Riferimenti bibliografici
L. M. Lombardi Satriani, Il folklore come cultura di contestazione, Messina, Peloritana, 1966.
Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura (ed. or. 1973), Palermo, Edizioni Museo Pasqualino, 2021.
Diritto egemone e diritto popolare (con Mariano Meligrana), Palermo, Gangemi 1975.
Il silenzio, la memoria e lo sguardo, Palermo, Sellerio, 1979.
Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Milano, Rizzoli, 1980.
Il Ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Milano, Rizzoli, 1982
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Letizia Bindi, docente di discipline demoetnoantropologiche e direttore del Centro di ricerca ‘BIOCULT’ presso lo stesso Ateneo molisano. Presidente dell’Associazione “DiCultHer – FARO Molise” per la piena attuazione della Convenzione di Faro nel territorio regionale molisano. Si occupa di storia delle discipline demoetnoantropologiche, di rapporto tra culture locali e immagini della Nazione nella storia italiana recente e sulla relazione più recente tra rappresentazione del patrimonio bio-culturale e le forme di espressione digitale. Su un fronte più strettamente etnografico ha studiato negli scorsi anni i percorsi di integrazione dei migranti, alcuni sistemi festivi e cerimoniali, la relazione uomo-animale nelle pratiche culturali delle comunità rurali e pastorali, la transumanza dinanzi alle sfide della tarda modernità e della patrimonializzazione UNESCO. Visiting Professor in varie Università europee, coordina alcuni progetti internazionali sui temi dello sviluppo territoriale sostenibile e i patrimoni bio-culturali (EARTH – Erasmus + CBHE Project con Università Europee e LatinoAmericane) e il Progetto ‘TraPP (Trashumancia y Pastoralismo como elementos del Patrimonio Bio-Cultural) in collaborazione con le Università della Patagonia argentina.
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