di Linda Armano
Introduzione
Gli studi di antropologia della guerra sono aumentati notevolmente soprattutto negli ultimi quaranta anni. Ciononostante, avvertono alcuni ricercatori, che mentre fino ad un decennio fa la produzione scientifica era in una fase di sviluppo, negli ultimi anni le riflessioni all’interno di questo filone di studi rischiano di diminuire (Ferguson 2008).
Jonathan Haas (1990) individua, nel settore di studio dell’antropologia della guerra, due principali indirizzi di ricerca: da un lato esistono ricerche che si concentrano su pratiche di violenza e di guerra studiate in termini essenzialmente diacronici; e dall’altro, più recentemente, sono stati incrementati approcci che si focalizzano in primo luogo su atti di guerra contemporanei per fare fronte ai quali vengono anche proposte soluzioni di pace (Roscoe 2017).
Brian Fergus, uno degli antropologi più importanti al mondo nell’ambito dell’antropologia della guerra, ha individuato cinque tratti principali che caratterizzano questo filone di ricerca. In primo luogo, nella letteratura esistente gli studiosi sviluppano rigorose teorie per spiegare le guerre, intese sia come aspetti ricorrenti della condizione umana, sia come pratiche causate di volta in volta da motivazioni specifiche (Fergus 2003). Questo approccio è caratterizzato da alcuni fattori principali, tra cui per esempio lo sviluppo di ipotesi di orientamento “materialista” che rivolgono l’attenzione sulla struttura politica dei singoli Paesi e sul processo decisionale, oltre che sugli interessi di coloro che vogliono e determinano il conflitto (Keeley 1996).
Altre riflessioni all’interno di questa branca di studi si concentrano sull’evoluzione storica che scatena il conflitto in un determinato contesto (Nordstrom 1997). Questi approcci hanno messo in luce soprattutto l’impatto che la colonizzazione occidentale ha causato sulle varie comunità indigene in diverse parti del mondo (Pinker 2011). Altri studi si focalizzano invece sulla valutazione critica di varie teorie che comprendono per esempio le spiegazioni ecologiche, sociali, strutturali e simboliche della guerra (McAuliffe et al. 2015). Alcuni studiosi si sono inoltre concentrati sulla critica verso spiegazioni della guerra modellate sulla base di un orientamento biologico (Milner 1999). Quest’ultimo approccio intende la guerra come parte integrante della filogenesi umana (Fergus 1995). Altri sforzi sono invece rivolti verso una sintesi della letteratura esistente (Fergus, Farragher 1998). Alcuni studiosi si sono infine interrogati sulle categorie attraverso le quali una guerra può essere classificata come tale (Tooby, Cosmides 1998).
Queste riflessioni considerano la guerra come un fatto sociale, caratterizzata molto spesso da gruppi di persone organizzati per uccidere persone di altri gruppi. Attualmente questo approccio ruota attorno a due principali considerazioni. Da un lato la guerra viene intesa come una propensione ad eliminare una controparte potenzialmente o concretamente concorrente. Dall’altro, gli studiosi relazionano il conflitto armato con i cambiamenti delle condizioni sociali le quali sono considerate la causa prima che motiva la guerra.
Fergus (2008) evidenzia come molta letteratura esistente affermi il fatto che le manifestazioni di conflitti e violenza siano insite nel cervello umano. Per esempio, lo psicologo William McDougal sostenne che gli atti di violenza insorgono come risposta ad un istinto di combattività dell’uomo. Sigmund Freud affermò che una distruzione collettiva costituiva un fenomeno esteriore di un desiderio interiore di autodistruzione. D’altra parte, il drammaturgo Robert Ardrey sosteneva che la nostra innata propensione ad uccidere era ciò che ci differenziava dagli altri primati, mentre il primatologo Richard Wrangham precisava, al contrario, che non è tanto la nostra differenza, quanto piuttosto la nostra somiglianza con gli altri primati che rende gli uomini propensi alla guerra (Wrangham 2019). I sostenitori delle teorie intrinseche ed innate che predispongono l’uomo alla guerra si lamentano del fatto che le loro affermazioni vengono spesso osteggiate dai vari governi politici in diverse parti del mondo.
Altre riflessioni antropologiche si sono invece interrogate, in maniera più specifica, sui metodi etnografici da utilizzare in ambiti di guerra e sul ruolo, oltre che sulla sicurezza personale, del ricercatore all’interno di tali contesti etnografici. A tal proposito, rievocando il lavoro di Nancy Howell (1988), Jeff Sluka (1990; 1995) ha richiamato l’attenzione sugli impatti che forme di violenza e pratiche di guerra possono avere sulla ricerca etnografica e quindi sulle inevitabili conseguenze metodologiche ed etiche che tali problemi determinano all’interno della ricerca stessa. Carolyn Nordstrom e Tony Robben hanno inoltre pubblicato un lavoro intitolato Fieldwork under Fire (1995) in cui gli studiosi esplorano come pratiche di violenza e di guerra possano essere interrelate, dal punto di vista teorico e metodologico, con la ricerca sul campo.
Jeffrey Sluka (2015), esaminando la letteratura etnografica esistente sulla gestione dei rischi personali che corre un ricercatore sul campo in contesto di conflitto, fornisce agli studiosi di antropologia raccomandazioni pratiche su come poter portare avanti la propria ricerca all’interno di tali contesti. Un altro lavoro estremamente importante relativo a questi temi è il volume Ethnography as Risky Business: Field Research in Violent and sensitive Contexts (2019) curato da Dirk Kruijt e Kees Koonings. Tutti i contributi di questo volume presentano problemi critici vissuti dai ricercatori sul campo i quali hanno subìto battute d’arresto nel corso della loro ricerca etnografica.
Altri studi utilizzano invece un approccio più storico. Tra questi vi è per esempio il libro di Alessandro Cinquegrani, Francesca Pangallo e di Federico Rigamonti intitolato Romance e Shoah. Pratiche di narrazione sulla tragedia indicibile (2021). In questo volume gli autori analizzano il processo di conservazione e di diffusione della memoria storica del genocidio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. In particolare gli autori affermano che uno dei tratti principali per mantenere la memoria della Shoah è l’immedesimazione diretta nella vittima «che dunque fa leva sulle forme più ovvie ed ingenue di storytelling» (ivi: 14).
Sebbene in questi tempi il tema della guerra è tra i più dibattuti nei mass-media, il presente contributo intende interrogarsi sui parametri che stabiliscono come una guerra può essere ritenuta tale. Per riflettere su questo argomento, mi permetto di sollevare la questione delle residential schools in Canada tentando di cogliere come particolari pratiche di violenza sono state subite dalle comunità indigene canadesi. Nel sito “Indigenous Foundation” le residential schools vengono definite come istituzioni organizzate dal governo canadese e amministrate dalla Chiesa per “civilizzare” i bambini indigeni e indottrinarli allo stile di vita dei colonizzatori di origine europea.
Le residential schools, introdotte in Canada da Harry Guillod (missionario anglicano, agente indiano per il governo e dipendente di una compagnia privata locale di legname da costruzione) operarono ufficialmente dal 1880 fino agli ultimi anni del XX secolo. Il sistema istituito separava i bambini nativi dalle loro famiglie e dalle loro comunità e faceva in modo che essi dimenticassero la lingua e la cultura nativa. Chi tentava di parlare la propria lingua veniva severamente punito (https://indigenousfoundations.arts.ubc.ca/the_residential_school_system/).
Questo articolo non intende soffermarsi su dati etnografici raccolti all’interno di particolari popolazioni native, quanto piuttosto ricostruire, sulla base di un approccio storico-antropologico, le forme di violenza poco esplorate negli studi, e quindi poco percepite anche livello globale, che le comunità indigene canadesi subirono dalla seconda metà del XIX secolo alla fine del Novecento. Nello specifico questo contributo intende prendere in esame il documentario “Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” (2006). Quest’ultimo narra le vicende di Kevin Annett, scrittore, antropologo e sacerdote canadese, quando, nelle vesti di reverendo, si scontrò, già dagli anni Novanta, con la Chiesa per il suo interessamento ai fatti accaduti nelle residential schools canadesi e sul genocidio commesso da responsabili religiosi in queste “scuole”. In tali contesti, centinaia di migliaia di bambini nativi vennero rinchiusi in nome di un’operazione civilizzatrice. Le testimonianze delle persone sopravvissute alle residential schools, documentano forme di violenza fisica, fino a raggiungere, in moltissimi casi, anche la morte, violenza sessuale, punizioni corporali tramite l’uso di elettroshock, sterilizzazioni ecc.
Il documentario ha ricevuto numerosi premi, tra cui il New York Independent Film e Video Festival nel 2006. Nel marzo del 2007 esso ebbe anche il premio come miglior documentario al Los Angeles Indipendent Film Festival. Ciononostante, Kevin Annett venne accusato di frode, di diffamazione e di spionaggio anche da parte di alcuni capi di comunità indigene legati, in vario modo, ad organizzazioni politiche e religiose. In generale comunque, questo documentario mostra chiaramente come la violenza continua sia stata riplasmata ed utilizzata a discapito della controparte politicamente più debole all’interno dei confini canadesi.
Un genocidio silenziato
«Quando Dio è dalla nostra parte possiamo commettere qualsiasi crimine, siamo assolti individualmente da quel crimine, perché riteniamo di avere un’approvazione morale dall’alto. Questo è il pericolo nascosto della religione, che permette alla gente di fare questo, anche uccidere senza uno straccio di coscienza» (Kevin Annett).
Con queste parole Kevin Annett inizia il documentario “Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” che si apre con la sua descrizione di un colloquio di lavoro per diventare ministro di culto per la Chiesa Unita in Canada a Saint Andrew a Port Alberni, in British Columbia. Annett racconta che al colloquio, così come in chiesa, erano presenti solo persone di origine europea, nonostante la popolazione della cittadina fosse per almeno un terzo indigena. Durante il suo primo sermone, il nuovo sacerdote chiese ai presenti dove fossero i nativi e molti di essi risposero che i nativi usavano radunarsi solo tra di loro.
Un giorno Annett venne chiamato da un uomo indigeno residente nella riserva Tseshaht che doveva celebrare il suo matrimonio. In quell’occasione il sacerdote gli chiese il motivo per cui gli indigeni non andavano in chiesa e l’uomo gli rispose che nella residential school di Port Alberni alcuni preti avevano ucciso il suo migliore amico attualmente sepolto su una collina (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 5.07). L’uomo indigeno affermò inoltre che i sacerdoti intimano agli indigeni di non entrare nelle loro chiese. Annett comprese quindi come ci fossero due mondi in Canada che vivono l’uno a fianco all’altro ma che non entrano in relazione tra di loro e non costruiscono alcuna forma di comunicazione. Durante il suo lavoro come sacerdote, Kevin Annett osservò inoltre l’esistenza di due tipologie di storia: una ufficiale e una nascosta e negata.
Durante il primo anno presso la chiesa di Saint Andrew, il reverendo impiegò il suo tempo a contattare molti indigeni e a farsi raccontare le loro esperienze nelle residential schools. Annett racconta nel documentario come, nel corso dei mesi, egli consentisse agli indigeni di testimoniare, durante la sua messa, le atrocità da loro vissute presso la “scuola” di Port Alberni che la Chiesa Unita gestì per più di cinquanta anni.
Nel video, tra le varie testimonianze, una donna indigena appartenente alla comunità Tse Bay Olt di Pacheedaht, racconta come alcuni membri della Royal Canadian Mounted Police, che lei chiama “terroristi” (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 9.04), arrivarono nel suo villaggio con una barca con un cannone montato sopra e all’età di cinque anni la strapparono alla sua famiglia. Questi agenti usavano passare per i villaggi indigeni per rastrellare i bambini. Un’altra donna testimonia come, nella residential school di Cranbrook, a ciascun bambino venisse assegnato un numero che era applicato a qualsiasi oggetto (asciugamani, lenzuola ecc.) appartenente a ciascuna persona indigena. Qualora un nativo venisse trovato con l’oggetto di qualcun altro, era frustato. Ai ragazzini non era permesso possedere libri, né leggere. Ai bambini che facevano la spia nei confronti di altri compagni, veniva conferito loro un trattamento preferenziale, mentre chi continuava a parlare la lingua nativa era costantemente punito.
Alcune persone nel documentario raccontano di punizioni anche attraverso scariche elettriche. Altri testimoniano che venivano legati con delle cinghie e drogati. Ad alcuni bambini venivano bruciate le mani, mentre altri erano messi all’interno di vasche dentro le quali venivano versati dei serpenti. Un uomo indigeno racconta come queste pratiche servissero a mantenere la disciplina nelle “scuole” (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 14.22). I bambini che sopravvivevano scavano le fosse comuni in cui gettare i corpi dei loro compagni morti (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.31.05).
Di fronte alla testimonianza di queste atrocità, Kevin Annett chiese appoggio ai suoi colleghi parroci i quali però negarono l’esistenza di queste pratiche violente all’interno delle residential schools nei confronti dei bambini nativi. Annett venne anche minacciato dai funzionari della Chiesa che gli imposero di attenersi al suo ruolo di prete e gli negarono anche la possibilità di far parlare i nativi durante la sua messa.
Molti studi hanno ormai descritto le conseguenze negative causate dalle residential schools, sia a livello fisico che mentale, nei confronti delle persone native del Canada (MacDonald, Hudson 2012). Molte ricerche mostrano come gli indigeni canadesi che hanno subìto pratiche di violenza nelle residential schools godono di una salute generalmente più cagionevole rispetto ai cittadini canadesi di origine europea a causa di malattie croniche. Gli effetti più specificatamente mentali includono invece gravi forme depressive, abuso di alcol e di droga e un’elevata percentuale di suicidi (Wilk, Maltby, Cooke, 2017). Altri autori hanno messo in luce anche gli effetti intragenerazionali provocati dalle residential schools. Questi studi mostrano come la frequentazione di queste istituzioni all’interno di una stessa famiglia sembra avere effetti cumulativi sul disagio delle persone. Molti autori parlano, a tal proposito, di “trauma storico” per descrivere l’accumularsi degli impatti negativi nel corso delle generazioni, i quali possono anche minare il benessere collettivo dell’intera comunità (Bombay, Matheson, Anisman 2014).
Manipolazioni per negare la violenza
Nel documentario, Jack McDonald, capo Métis, afferma che all’interno della Chiesa Unita di Port Alberni esiste un’istituzione che si è organizzata per screditare Kevin Annett, con il coinvolgimento anche dei residenti e delle popolazioni locali. Il timore della Chiesa Unita risiederebbe, secondo McDonald, in una richiesta di indennizzo da parte delle popolazioni native canadesi (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 17.07). Inizialmente, sostiene McDonald, i fastidi provocati dai dibattiti organizzati da Annett sembravano limitarsi alle chiacchiere da bar nella Alberni Vally, ma successivamente il sacerdote venne licenziato dal suo incarico senza alcuna spiegazione né preavviso. Nella storia della Chiesa Unita del Canada, quella di Annett fu la prima e unica espulsione pubblica di un pastore:
«Il 23 gennaio 1995, dopo quasi tre anni di ministero alla Chiesa Unita di St. Andrew, Kevin Annett fu licenziato senza motivo o avvertimento da due funzionari della chiesa, senza che la sua congregazione ne fosse messa a conoscenza o desse il suo consenso. Da uno dei funzionari, Art Anderson, gli fu detto che non erano state formulate accuse a suo carico e non era una punizione. Ma nonostante tutto doveva sottomettersi a quelle che Anderson chiamò “rieducazione pastorale e perizia psichiatrica”, se intendeva restare un ministro della Chiesa Unita. Anderson non fornì prove per motivare queste prescrizioni. Nel momento in cui fu rimosso, la chiesa di Kevin era completamente piena la domenica mattina e Kevin aveva appena ricevuto il voto di approvazione per il suo lavoro dal 90% della sua congregazione» (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 19.18-19.53).
Nel documentario, il sacerdote denuncia che la sua espulsione avvenne tramite un processo-farsa, il cui scopo era dare l’esempio di una punizione esemplare per chi non si fosse attenuto alle “regole” (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 48.02), le quali non erano relative al suo comportamento come pastore, quanto piuttosto erano rivolte alle dichiarazioni che Annett fece alla stampa ammettendo la morte dei bambini nelle residential schools. Lo scopo dell’udienza era quindi di processare qualcuno che possedeva troppe informazioni che invece dovevano rimanere celate. Per espellere Annett dal ministero ecclesiastico, la Chiesa Unita spese un quarto di milione di dollari.
Le denunce di Kevin Annett contro la Chiesa innescarono, nel corso degli ultimi anni, forti controffensive da parte del Governo canadese. Anche alcune popolazioni native presero le distanze da lui, nonostante altre bande native continuino ad appoggiarlo superando il timore di ritorsioni contro l’intera comunità da parte degli organi di potere. Per esempio, il 1° novembre 2012 Dennis Banks, insegnante ed attivista appartenente alla Leech Lake Band of Ojibwe in Minnesota e co-fondatore dell’American Indian Movement, emise un comunicato stampa molto duro nei confronti di Kevin Annett, ordinandogli di cessare di parlare e di operare a nome dei Nativi Americani. Da anni Annett denunciava crimini commessi nelle residential schools mettendo sotto accusa anche la Chiesa cattolica romana e i suoi vertici per i crimini di pedofilia. Pur riconoscendo tali crimini, nel comunicato di Dennis Banks si legge quanto segue:
«Dopo essermi informato circa le attività di Kevin Annett, sono consapevole del fatto che sta perpetrando una frode internazionale finanziaria, intellettuale, accademica, culturale, di identità su larga scala. In breve, Kevin Annett sta commettendo diversi livelli di frodi criminali contro i popoli indigeni della Turtle Island e che in nessun modo rappresenta uno dei nostri popoli, singolarmente o come rappresentante di una qualsiasi delle nostre Nazioni, qui o in Canada. Egli quindi non può in alcun modo agire per nostro conto in “Corti di Giustizia o Tribunali” in qualsiasi finti procedimenti che non abbiano appoggi legittimi di sorta, o ad agire per conto delle Nazioni per suo conto, a qualsiasi titolo, in modo legale o culturale o consultivo. Ciò include l’ordine di cessare immediatamente ulteriori scritti e pubblicazioni su Internet, compresi tutti i siti web, o qualsiasi altra forma di stampa e media, tra cui radio, YouTube e altri video o altro formato televisivo. Ordino a Kevin Annett e ai suoi congiurati come segue: (…) di cessare ogni dichiarazione e desistere da tutte le interazioni e attività e/o ogni e qualsiasi coinvolgimento riguardo gli indigeni del Nord America e Canada per qualsiasi motivo o pretesto. Dennis Banks, American Indian Movement, portavoce per i Popoli della Turtle Island» (Dennis Banks) [1].
Dennis Banks denunciò inoltre Annett per il fatto di non aver ottenuto un’approvazione da parte dei popoli nativi per compiere il suo lavoro di raccolta di testimonianze e lo accusò di spionaggio per conto dell’FBI e dei governi degli Stati Uniti e del Canada [2]. Annett fu anche accusato di aver diffuso notizie false sui sopravvissuti alle residential schools utilizzandole per scopi personali. Nel documentario, il pastore afferma che, dopo la sua scomunica, anche persone che fino a quel momento gli stavano accanto si dileguarono, per paura, a loro volta, di essere punite in vario modo dagli organi governativi (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 54.29). In tal senso, sostiene il sacerdote, l’intera società canadese sembra accantonare la necessità di affrontare il problema delle residential schools. Si tratta, in altre parole, di un modo per delegittimare l’evidenza, pur avendo numerosi documenti e testimonianze a disposizione.
Nel documentario Kevin Annett afferma come egli fosse inizialmente ignaro di camminare in un campo minato. Ben presto però il sacerdote si rese conto di come il potere politico della chiesa in Canada sia detenuto da una minoranza che continua ad avere relazioni con chi dirigeva le residential schools. Annett divenne consapevole anche del fatto che la chiesa, lungi dal volerlo semplicemente “rieducare”, si sarebbe spinta anche ad eliminarlo fisicamente (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 20.56) oppure ad attaccare la sua famiglia (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 21.19). Nel documentario Kevin Annett denuncia il fatto che i funzionari ecclesiastici appoggiarono la sua ex moglie durante il divorzio fornendole un sostegno finanziario e aiutandola ad ottenere l’affido esclusivo delle figlie (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 22.08-22.18).
L’obiettivo principale della Chiesa Unita denunciato da Annett era in pratica quello di farlo tacere ad ogni costo, quasi a ricordare le riflessioni di Eviatar Zerubavel secondo cui le persone possono silenziare collettivamente su qualcosa di cui sono, in realtà, a conoscenza. Evidenziando la differenza tra conoscere e riconoscere, lo studioso sottolinea la tensione, fondamentale ma sotto teorizzata, tra consapevolezza personale e discorso pubblico. Sia essa generata da paura, vergogna, imbarazzo, dolore ecc., la cospirazione al silenzio ruota attorno a ciò che il sociologo chiama “segreti aperti”, i quali sono conosciuti da tutti i membri di un gruppo ma che rappresentano verità scomode, in grado però, in taluni casi, di emergere nonostante il tentativo di nasconderle. Zerubavel sostiene inoltre che il silenzio, o co-negazione, nei confronti di qualcosa, implichi uno sforzo collettivo e collaborativo da parte sia del generatore che del destinatario di un’informazione che agisce come facilitatore (Zerubavel 2006).
Durante il suo ministero, il sacerdote creò un forum nella sua chiesa all’interno del quale emerse anche la testimonianza di come la Chiesa Unita vendesse le terre dei nativi a corporations private che, a loro volta, la finanziavano sistematicamente (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 26.43). Sollevando la questione delle terre confiscate agli Ahousaht durante un raduno presbiteriano nell’ottobre 1994, Annett lesse la seguente lettera, datata 17 ottobre 1994 ed indirizzata ai membri del Presbiterio di Comox-Nanaimo:
«Gentili membri del Presbiterio, scrivo questa lettera in seguito alla breve discussione sugli insediamenti degli Ahousaht, nata al raduno Gold River. Sono molto preoccupato per la reazione dei funzionari del Presbiterio e sul modo in cui la faccenda è stata affrontata. Il mio parere deriva da lunghe e preziose discussioni avute con gli Ahousaht e i loro capi. Il problema sembra riguardare più la fiducia che noi abbiamo tradito, che un fatto di origine legale sorretto da documenti, come suggeriva il Presbiterio. In poche parole, la terra dei nativi venne data alla Chiesa Presbiteriana e alla Chiesa Unita, solo per l’istruzione e la crescita spirituale degli Ahousaht, in particolare per i giovani. In seguito, la terra fu venduta dalla Chiesa Unita ad un privato bianco. Giustizia e decenza impongono che la nostra Chiesa rettifichi il torto chiedendo la restituzione della terra agli Ahousaht e ammettendo pubblicamente il nostro errore. Il problema è stato travisato dal Presbiterio, alcuni funzionari affermarono che gli Ahousaht hanno cercato di ostacolare il processo o che non sono stati capaci di dimostrare la proprietà delle terre. Purtroppo queste sono esattamente le accuse e le parole che il sistema coloniale ha utilizzato contro gli indigeni sin da quando portammo via la loro terra. Il fatto stesso che ci si aspetti che gli Ahousaht dimostrino a noi il loro possesso della terra, rivela nel migliore dei casi, mancanza di sensibilità verso la giustizia di Dio e quelli che abbiamo offeso. Nel male, rivela il perpetrarsi di un rapporto razzista ed oppressivo che è stato da sempre il nostro retaggio verso i nativi. Non è troppo tardi per capovolgere questo retaggio ed i torti da noi commessi verso gli Ahousaht e le loro terre. È necessario che lo si faccia presto, se sono nel nostro interesse la credibilità e l’integrità agli occhi dei nativi qui e dell’opinione pubblica fuori. Se non ammetteremo il nostro errore chiaramente e pubblicamente e non ci adopereremo attivamente per la restituzione della terra agli Ahousaht, troverò difficile associarmi alla Chiesa Unita su questo argomento. Invito pertanto i funzionari del Presbiterio ad un incontro immediato con gli anziani Ahousaht allo scopo di pervenire a una ragionevole soluzione che sostenga la nostra posizione sulla carta. Fare di meno significherebbe mostrare una profonda divergenza tra le nostre parole e le nostre azioni. Vostri in Cristo, il reverendo Kevin Annett» (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 28.30 – 30.52).
L’aver pubblicamente dichiarato gli affari tra la Chiesa e le compagnie private tramite la vendita delle terre native, giustificò il licenziamento immediato di Annett. Il sacerdote sostiene inoltre che, dato il legame profondo che unisce le popolazioni indigene canadesi alla loro terra, il fatto di averla sottratta a loro ribadisce e dà forza ad una pratica di genocidio. In tal senso, il concetto di genocidio può essere concepito come segue. Esso si rifà alla definizione coniata da Raphael Lemkin secondo cui il genocidio è un’anomalia nel regime del diritto internazionale umanitario tipico del dopoguerra, dominato da discorsi e retoriche sui diritti umani. Alcuni studiosi, affermano come questa concezione di genocidio incorpori un’ontologia di società costituita in gruppi in cui vi è la distruzione non tanto degli individui in sé, quanto piuttosto dell’intera comunità. Lemkin pensava che le politiche naziste fossero radicalmente nuove, ma solo nel contesto dell’epoca moderna. Guerre di sterminio hanno segnato la storia dell’intera umanità sin dall’antichità fino a giungere alle conflagrazioni religiose della prima Europa moderna. Dal XVII secolo, la dottrina dominante che guidava gli scopi del genocidio passò dall’idea di una guerra contro intere popolazioni ad una guerra condotta contro gli Stati (Dirk Moses 2010). Nello specifico Raphael Lemkin contribuì a stilare la Convenzione sul Genocidio delle Nazioni Unite secondo cui il genocidio è costituito da una prima fase di eliminazione della struttura sociale originaria di una popolazione. A tal proposito vengono applicati mezzi per cancellare la lingua nativa, le attività tradizionali, i sistemi di culto fino a giungere alla sottrazione del territorio. La seconda fase è invece costituita dall’imposizione della struttura sociale del gruppo dominante.
Annett denunciò anche lo sterminio di molti bambini nelle residential schools a causa del vaiolo e della tubercolosi affermando come il personale di tali istituzioni esponesse volontariamente i piccoli indigeni sani alle infezioni costringendoli a dormire accanto ai bambini che stavano morendo a causa della malattia e a cui era sempre negata una cura (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 35.14).
In Canada il sistema delle residential schools per i nativi non fu altro che l’estensione e l’evoluzione della vecchia pratica del genocidio che ebbe inizio attorno al 1540 nella zona orientale del Paese per poi estendersi fino alla costa del Pacifico nel 1840. L’obiettivo di queste pratiche di violenza era lo sradicamento deliberato e sistematico di tutte le popolazioni indigene che non avessero voluto abbandonare i loro territori e le loro risorse, abolire i loro sistemi di credenze e attività di sussistenza tradizionali, oltre che le loro lingue native, per diventare dei cristiani. Questa strategia di violenza continuò nel corso dei secoli adattandosi ai contesti di volta in volta interessati. Dalla seconda metà dell’Ottocento le residential schools si stabilirono definitivamente in Canada e, nonostante le varie denunce da parte delle popolazioni indigene, queste pratiche di violenza vengono oggi solo marginalmente riconosciute.
Annett denuncia come i genitori dei bambini, per non essere arrestati, erano costretti a firmare un documento di cessione dei diritti di custodia legale sui propri figli a favore del preside della “scuola”. Da quel momento in poi il direttore della residential school diventava il tutore legale dei bambini a cui poteva fare ciò che voleva.
La legge canadese sugli indigeni è una legge razziale che comporta la segregazione legale dei nativi classificati come cittadini inferiori e sottoposti all’unico controllo del ministro federale degli affari indiani. Questa legge prevede che gli indigeni possano venire cacciati dalle loro abitazioni nelle riserve, incarcerati arbitrariamente, sottoposti a trattamenti medici non richiesti. Inoltre la legge razziale prevede che i nativi non abbiano il diritto di eleggere i propri leader, essi sono i custodi legali dello Stato canadese in perpetuo, ma hanno lo stesso status di persone minorenni o dei disabili mentali. La legislazione razziale è rimasta essenzialmente immutata sin da quando venne promulgata nel 1876. La sua filosofia e le sue regole furono tracciate sotto la guida delle Chiese cattolica e anglicana con la Commissione Bagot, creata nel 1845 dal Vaticano. Il governo canadese raccomandò la Commissione nel 1857 quando passò il “Gradual Civilization Act”. Tramite questa legge si obbligavano gli indigeni a cedere i loro territori, negando loro ogni futuro titolo di proprietà sulla terra, che era a quel punto interamente di proprietà della Corona Britannica.
A causa delle discussioni sollevate, Kevin Annett fu definitivamente espulso dalla Chiesa Unita il 7 marzo 1997, malgrado i funzionari ecclesiastici non fossero riusciti a dimostrare l’inadeguatezza del pastore al suo incarico. La sua espulsione fu definitiva e non si poté fare ricorso. Lo stesso giorno Annett ricevette una lettera dagli avvocati della Chiesa Unita, nella quale gli intimavano di non divulgare pubblicamente quanto successo nelle residential schools e di non rivelare nulla riguardo le faccende dei nativi e delle terre a loro sottratte. Kevin Annett ignorò quest’ordine e continuò a parlare pubblicamente del suo immotivato licenziamento e della sua espulsione, senza un giusto processo, da parte di una Chiesa responsabile della morte di migliaia di bambini indigeni in Canada.
Annett afferma nel documentario che la fiducia dei nativi nei suoi confronti aumentò ulteriormente quando egli non aveva più nessun vincolo con la Chiesa. Pertanto, iniziarono ad invitarlo alle cerimonie di guarigione nel quartiere della East Side di Vancouver per ascoltare le loro storie. Gli indigeni chiesero inoltre all’ex pastore di registrare le loro testimonianze in modo da poterle documentare. Questa documentazione comprovava non solo abusi sessuali e fisici, come riportava la stampa, ma anche sterilizzazioni forzate, esperimenti medici, esposizione alla tubercolosi. Gli indigeni realizzarono che raccontare questi avvenimenti non era sufficiente loro per guarire. Annett notò inoltre che c’erano anche molti avvocati e politici nativi che facevano soldi sul dolore di queste persone senza apportare alcun miglioramento nella vita di questa gente. Egli sosteneva l’impossibilità, per gli indigeni, di uscire da questi traumi in quanto sono da considerarsi esperienze sistematiche e protratte nel tempo.
In Canada, sottolinea l’ex pastore nel documentario, i nativi non riescono a guarire anche perché l’intera società di origine europea sembra essere programmata per scagliarsi contro di loro (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 58.10). L’unica strada percorribile è quindi quella di raccontare la verità, nonostante la consapevolezza che Annett non avrebbe mai fatto carriera nel mondo accademico e non avrebbe mai più trovato lavoro in Canada. La Chiesa Unita fece in modo infatti di impedire la continuazione del suo dottorato alla University of British Columbia bloccandogli i fondi per la ricerca e ogni volta che l’ex sacerdote si proponeva per un impiego, i datori di lavoro venivano sistematicamente contattati dai responsabili ecclesiastici. Annett ammette l’esistenza di una campagna magistralmente orchestrata contro tutti quelli che dichiarano affermazioni contrarie alle cosiddette “regole” vigenti.
Dopo il suo licenziamento, Annett racconta nel documentario che il tribunale inviò un rapporto alle Nazioni Unite e all’Alto Commissario per i diritti umani a Ginevra. Parallelamente, l’ex sacerdote inviò agli stessi organi più di quattordici ore di registrazioni di testimonianze, oltre che documenti che aveva acquisito negli anni (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.07.55), ma non ricevette alcuna risposta da parte loro. Dopo qualche tempo, lo stesso Annett venne a sapere che il Governo canadese fece pressioni su queste istituzioni affinché tali questioni rimanessero silenziate.
Oltre a raccontare la verità sui fatti accaduti ai nativi nelle residential schools, l’ex parroco si rese conto che era fondamentale anche chiedersi il motivo per cui è stata consentita tutta questa violenza. A tal proposito, egli pensò di organizzare un’indagine nell’estate del 1998, invitando a Vancouver i gruppi indigeni di tutto il mondo oltre che l’IHRAAM (International Human Rights Association of American Minority): «In quell’occasione tutto quello che uno poteva immaginare sui campi di sterminio nazisti era accaduto anche nelle residential schools» (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 59.41). Da queste testimonianze emerse che nelle residential schools canadesi erano presenti, dal 1939, anche medici tedeschi che iniettavano ai nativi una sostanza chimica sul petto che causava la morte nella stragrande maggioranza di loro.
Nel documentario un uomo indigeno testimonia infatti che i bambini nativi venivano portati negli ospedali, nonostante non fossero malati, e venivano trattati come cavie da laboratorio (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 59.58). Un altro uomo racconta che, dopo averlo immobilizzato, dei medici gli infilarono degli aghi nella testa collegandoli alla corrente elettrica (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.01.07). Inoltre lo stesso uomo indigeno denuncia il fatto che nelle residential schools venissero messi, nel cibo, strani medicinali e se un bambino vomitava lo costringevano a mangiare ciò che aveva vomitato (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.02.02). Alcune donne parlano di sterilizzazioni forzate, terribili pratiche giustificate dal fatto che esse erano indigene e non frequentavano la chiesa. Una donna nativa infatti testimonia nel documentario che non è mai riuscita a rimanere incinta dopo aver incontrato un medico bianco. Quest’ultimo, recatosi nella comunità della donna, annunciò che a chiunque non si fosse presentato in chiesa la domenica avrebbe riservato un trattamento speciale (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.04.42). Molti indigeni si rifiutarono in quell’occasione di andare in chiesa in quanto consapevoli dei reati commessi dai preti in Canada. Il medico bianco era anche un missionario e quindi la sua parola valeva come legge. Così la polizia rastrellò molte donne, tra cui anche la testimone nel documentario, che furono consegnate al medico che fece loro un’iniezione. La testimone ricorda di essersi ritrovata distesa su un letto di ospedale piena di lividi e dolorante. Le avevano prelevato i suoi denti d’oro e aveva la sensazione che dentro di lei fosse cambiato qualcosa. Da quel momento la donna indigena non riuscì più a rimanere incinta. Dopo alcuni anni, la testimone andò da un altro dottore che le disse che era stata sterilizzata. Altri indigeni affermano che nelle residential schools furono sottoposti, per circa 20 minuti, ai raggi X nella zona pelvica e nessuno di loro poté avere figli.
Tutte queste pratiche di violenza miravano ad infliggere alla vittima il maggior dolore possibile con un accanimento metodico. Tali pratiche di crudeltà potevano considerarsi delle tecniche di annientamento della persona che mettevano in atto una combinazione di violenze fisiche e morali per disintegrare pezzo a pezzo il senso di identità. Per i sopravvissuti, lo statuto della sofferenza ha avuto la tragica peculiarità di non avere origine, per esempio, da una malattia o da un incidente, ossia da un’avversità percepita come esterna alla persona, ma di essere stata provocata consapevolmente e in maniera sistematica da altri esseri umani.
Come parte del movimento sull’eugenetica che si diffuse globalmente dopo il 1920, venne approvato in Canada un piano di sterilizzazione sessuale di donne, uomini e bambini indigeni. Le Chiese cattolica e protestante facevano pressione affinché venisse applicato, all’interno dei confini canadesi, questo piano. Per esempio, nello Stato dell’Alberta tali normative vennero applicate nel 1928 e in British Columbia nel 1933. Medici missionari delle Chiese cattolica, anglicana e la Chiesa Unita sterilizzarono migliaia di persone indigene negli ospedali sparsi in tutto il Paese, con lo scopo di spopolare le terre dei nativi e consentire l’insediamento di coloni e di aziende europee. L’obiettivo principale della campagna di sterilizzazione cominciava dai leader indigeni. I capi e le loro famiglie venivano infatti selezionati per lo sterminio. La campagna di sterilizzazione contro i nativi in Canada è durata fino ai giorni nostri. Nel documentario viene riportato che, negli anni Cinquanta, il governo canadese dava 3000 dollari ai medici per ogni persona indigena sterilizzata (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.06.52).
Annett dichiara l’esistenza di documenti scritti sui fatti accaduti all’interno delle residential schools canadesi conservati, per esempio, negli archivi dell’agenzia per gli affari indiani in cui si parla di medici che collaboravano con l’ordine cattolico gestore di queste “scuole”. Annett ricorda inoltre che quando fu giudicato, vennero convocati in tribunale anche varie Chiese in Canada, il Governo e l’RCPM (Royal Canadian Mounted Police) per rispondere alle accuse, ma nessuno di loro si presentò.
Il Governo canadese sabotò tutto il lavoro di Kevin Annett, gettando fango sulla sua reputazione. Alcuni membri dell’RCPM inoltre, dopo le testimonianze rilasciate dagli indigeni durante l’indagine avviata dall’ex parroco a Vancouver nel 1998, fecero irruzione in molte delle loro case senza alcun mandato. Dopo aver testimoniato, molti indigeni vennero minacciati dalle forze dell’ordine. Altri invece persero il lavoro all’interno delle riserve e Annett stesso venne aggredito un paio di volte due mesi dopo il suo processo. Egli sostiene che tali aggressioni non sono semplicemente il risultato di violenze avvenute in passato, ma sono la punta dell’iceberg di pratiche violente ancora oggi perpetrate a danno degli indigeni e di coloro che difendono la loro posizione.
Annett si ritrovò quindi solo in questa battaglia. Alcuni capi indiani legati alle corporations e al governo cominciarono ad isolarlo, mentre altri nativi non osavano più testimoniare per paura di ritorsioni. Negli anni seguenti Annett continuò comunque a mostrare pubblicamente i documenti che comprovavano il genocidio e la pulizia etnica in Canada nei confronti delle popolazioni native. Nel 2001 l’ex sacerdote pubblicò il libro Hidden from History: The Canadian Holocaust. Truth Commission into Genocide in Canada, in cui aveva accumulato tutte le testimonianze raccolte nel corso degli anni sulle atrocità commesse nelle residential schools canadesi. Una dozzina di case editrici rifiutarono di pubblicare il libro, così Annett lo stampò e lo divulgò da solo. Più di un migliaio di copie andarono immediatamente nelle librerie, nelle mani dei membri del governo così come dei gruppi per la difesa dei diritti umani, oltre che ai membri delle comunità native. Nell’autunno del 2005, Annett completò la seconda edizione del suo libro e per la prima volta nella storia del Canada egli pose le cruciali questioni: perché il Canada acconsentì che avvenisse questo genocidio legalizzato? Perché questo Paese sta continuando tali pratiche di violenza? La tortura così perpetrata si inscrive in una trama di circostanze in cui tutto è coerente.
Nonostante i vari tentativi di fare uscire allo scoperto la verità, i membri della Chiesa Unita hanno continuato a zittire i giornalisti e ad impedire le pubblicazioni su questo argomento. Nel 1999, il “New Internationalist”, una rivista acclamata internazionalmente, pubblicò un breve articolo su Kevin Annett e sul genocidio canadese. In risposta a tale pubblicazione, un funzionario ufficiale della Chiesa Unita fece arrivare alla stampa mondiale 14 pagine di testo calunnioso contro Kevin Annett, minacciando anche di boicottare il “New Internationalist” se la redazione non avesse smesso di pubblicare articoli sull’ex sacerdote e sui crimini nelle residential schools. La redazione si piegò sotto questa pressione e non vennero più pubblicati riferimenti alle vicende di Annett (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.17.12).
Nel marzo 1999, la rivista scientifica canadese, “Canadian Dimention”, venne zittita allo stesso modo dopo la pubblicazione di un articolo sulla confisca delle terre degli Ahousaht da parte della Chiesa Unita e della corporation di legname. I membri ecclesiastici minacciarono il giornale di denuncia ultramilionaria se non avessero ritrattato l’articolo pubblicamente, cosa che avvenne prontamente. Nel settembre 1997, il “Vancouver Courier” pubblicò in prima pagina un articolo di Annett che parlava nel dettaglio del furto della terra agli indigeni e degli altri crimini perpetrati dalla Chiesa a Vancouver Island. Il funzionario della chiesa che aveva cacciato l’ex sacerdote, tentò di costringere il giornale a ritrattare e provò a liquidare l’autore dell’articolo, Claudagh O’Connell. Non riuscendoci, il funzionario si recò da O’Connell minacciandolo nella sua stessa casa.
Gli impatti sugli indigeni causati dalle residential schools hanno avuto ripercussioni anche sull’educazione dei figli. Nel documentario Annett testimonia di aver visto una bambina indigena di circa sei anni con una grande cicatrice sulla testa. Era stato il padre ubriaco a lanciarle un’ascia addosso e tale violenza veniva passivamente accettata nella comunità (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.21.22). A tal proposito Annett maturò importanti riflessioni su cosa può provare una persona sopravvissuta ad uno sterminio di massa. Presto si rese conto come, in questa circostanza, un individuo poteva correre il rischio di essere torturato in qualsiasi momento e l’unica sua salvezza era nascondersi.
Annett, nel documentario afferma che chiedere scusa pubblicamente o distribuire soldi a queste popolazioni è un insulto per loro. La vera giustizia sarebbe portare i colpevoli in tribunale affinché ammettessero i reati commessi (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.26.46 – 1.28.00). Nonostante i crimini compiuti siano sottoposti alla Legge di Norimberga, l’ex sacerdote sottolinea come la Chiesa in Canada sia esente da procedimento giudiziario per queste pratiche di violenza contro i nativi (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.33.37).
Oggigiorno i parenti delle vittime chiedono di sapere dove sono sepolti corpi dei bambini indigeni rastrellati nelle loro comunità. Molti di loro riflettono inoltre sulla similitudine tra i fatti accaduti nei campi di sterminio della Germania nazista e ciò che avvenne in Canada (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.32.32). Davanti a tali atrocità, l’unica strada percorribile secondo Annett per sensibilizzare il pubblico mondiale è quindi diffondere documenti e testimonianze di tali eventi. Egli suggerisce inoltre di organizzare boicottaggi verso produzioni di merci made in Canada (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.30.14).
Oggi le persone indigene, sia in Canada che in generale nel Nord America, muoiono per strada, nell’indifferenza generale del resto della popolazione, a causa di abusi di alcol e di droga (“Unrepentant: Kevin Annett and Canada’s Genocide” minuto 1.3704), i quali sono il risultato diretto delle torture subite nelle residential schools. Studiosi hanno inoltre osservato un alto tasso di mortalità tra i nativi anche a causa dell’HIV e dell’epatite (Koehn et al. 2021).
Le pratiche di violenza contro gli indigeni canadesi possono essere classificate nella categoria di “guerra”?
Il dizionario Merriam-Webster descrive la guerra come «uno stato di conflitto armato ostile solitamente aperto e dichiarato tra Stati o nazioni». La Stanford Encyclopedia of Philosophy afferma che «la guerra dovrebbe essere intesa come un conflitto armato reale, intenzionale e diffuso tra le comunità politiche». L’Oxford Dictionary amplia la definizione includendo «qualsiasi ostilità o lotta attiva tra esseri viventi; un conflitto tra forze o principi opposti». Carl von Clausewitz definisce la guerra come «un atto di forza per costringere il nostro nemico a fare la nostra volontà» (1976: 75). Tutte queste definizioni si allineano a ciò che comunemente viene considerato “guerra”. Tuttavia, alcuni autori notano che queste concezioni sono troppo semplicistiche per esprimere la complessità delle molte sfaccettature del conflitto (Friedman 2005).
Alcuni studiosi sostengono che il concetto di guerra sia cambiato dopo l’11 settembre 2001 (Glowacki, et al. 2020). Michael Howard (1983) riassume il cambiamento della percezione della guerra attraverso il passaggio da un controllo territoriale ad un controllo sullo sfruttamento delle risorse, il quale è più consono ad una teorizzazione delle relazioni globali. Come ha messo in luce lo studioso, con le crisi finanziarie, le economie non possono più essere gestite e controllate semplicemente dall’interno di una nazione, ma subiscono influenze dagli eventi e dalle decisioni prese in tutto il mondo.
In conclusione quindi i «sistemi interconnessi di commercio, finanza, informazione e sicurezza richiedono una prospettiva più ampia quando si considera l’impegno di imporre la volontà nazionale agli altri» (Friedman 2005:14). Suggerisce Friedman che per comprendere il concetto di guerra, è indispensabile considerarlo all’interno di un continuum i cui apici esterni sono occupati dal conflitto armato sfrenato e dalla pace mondiale. È semplice quindi intuire che quando una nazione si avvicina alla pace armonizzandosi con i valori, gli obiettivi e gli ideali condivisi dalla popolazione c’è una sospensione delle ostilità. Ciò non significa che l’idea di guerra sia definitivamente debellata, in quanto permane comunque il desiderio da parte di un Paese di imporre la propria volontà su altre nazioni. Piuttosto, una tregua alla guerra può significare che, durante un determinato periodo di tempo, non viene richiesto un conflitto armato per raggiungere determinati obiettivi. Questa concettualizzazione incorpora quindi la capacità di una nazione a cambiare la propria posizione sulla base della volontà delle persone, del panorama politico, nonché della forza, della capacità e del desiderio di estendere il suo potere all’interno dei confini di un altro Stato.
Le residential schools sono però da considerarsi come istituzioni costruite su pratiche di violenza legalizzata a danno delle comunità indigene canadesi. Attualmente tale sistema è considerato dalla maggior parte della popolazione di origine europea come un’istituzione passata. L’ultima residential school venne chiusa in Canada nel 1996 e, sebbene ora tali “scuole” non esistano ufficialmente più, i loro effetti continuano ad avere impatti sulla salute mentale e fisica di numerosi nativi canadesi. Come annota David Le Breton: «L’uomo guarito da una malattia riprende in mano la vita con il sollievo di non provare più dolore; il sopravvissuto alla tortura, invece, rimane segnato dalla violenza subita e la sua sofferenza persiste» (2014: 132). Lo stesso studioso afferma che dopo una tortura il senso di identità dell’individuo assomiglia ad un campo di battaglia devastato. I fondamenti valoriali sono distrutti dal lutto permanente nel tempo. I comportamenti del sopravvissuto rimangono influenzati dalle torture degli aguzzini e il torturano non riesce ad uscire dall’orbita simbolica della situazione di tortura.
In questo modo quindi le residential schools si erigono a doppio persecutore anche quando, come oggi, sono state concretamente chiuse, poiché la loro realtà non è esterna bensì interna e continuano a divorare la vittima. Il danno per il dolore provato dalle vittime durante le torture rimane, come si è visto, indelebilmente inciso nei ricordi. Raccontare la sofferenza da parte degli indigeni è rivivere il dolore passato nel momento presente ed ammettere la vittoria dei persecutori. Come riportano i testimoni nativi nel documentario, i postumi della tortura sono numerosi e suscitano dolori costanti e visibili, anche dopo la liberazione: denti rotti, cicatrici, arti mutilati, sterilizzazioni, ustioni. La tortura legittimata nelle residential schools può quindi considerarsi un atto di guerra cronicamente incorporato nella società e manifestato esplicitamente dal potere. Questi tipi di tortura possono inoltre essere descritti come esercizi di violenza assoluta praticata su altre persone che non hanno modo di difendersi e che sono in completa balìa dell’aguzzino. Nota Vidal-Naquet (1972) che la tortura è l’archetipo per eccellenza del potere esercitato su una società o su un individuo, è la forma più diretta, più immediata di dominazione dell’uomo sull’uomo che costituisce la base, l’essenza stessa della politica colonizzatrice.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] http://www.avventismoprofetico.it/modules.php?name=Content&pa=showpage&pid=910
[2] http://www.genuinewitty.com/2012/10/09/a-warning-about-kevin-annett-from-dennis-banks-royce-white-calf/?fbclid=IwAR1LRTbwFDEsgyrXnxmYZPtAlB95FT59pLQqLmq1nwxx2L87IsDJamV6YEg
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.
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