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I Casali peloritani come luoghi identitari di rinascita collettiva

Gesso nel Messinese.

Gesso nel Messinese

di Mario Sarica

Nella centrifuga vorticosa della contemporaneità, che tutto azzera nel nome di oscuri algoritmi, ai quali ci si affida ciecamente in cerca di nuove fortune, producendo come effetti collaterali altre disuguaglianze sociali ed economiche e nuove povertà, sullo sfondo di un paesaggio ambientale e climatico sofferente, c’è da chiedersi, restringendo lo sguardo sui nostri orizzonti mediterranei e siciliani in particolare, sempre più periferia del “Nuovo Mondo”, quale sarà il destino della fitta rete dei borghi rurali siciliani modellati nei secoli dall’incessante opera del “pensiero” e “fare” umano profondamente legato alla centralità fisica e simbolica della Terra.

Trascinati irresistibilmente da un’energia oscura verso un “Dove” dai profili fumosi e tenebrosi, tentiamo di aggrapparci ai frammenti della cultura, materiale e immateriale, galleggianti sulla deriva planetaria, a noi più familiari, per tentare faticosamente di trovare un orientamento di “senso” allo stare al Mondo, mescolando “Lontano” e “Vicino” “Terra” e “Cielo”. È una ricerca affannosa e ansiosa, spesso individualmente interpretata, nel tentativo di comporre un Io, dunque, un’identità rassicurante, dall’equilibrio instabile, riconoscibile a noi e agli altri, dove sentiamo forte l’attrazione, in molti casi indistinta, verso le radici.

In ordine sparso, dunque tutti in marcia, ma per andare dove? Alcuni sembrano andare a ritroso, sperimentando un eccitante moto contrario alla veloce “freccia del tempo”, diretti al Passato prossimo e remoto, in cerca di un Futuro rassicurante. Zygmunt Bauman scrive che «sono gli anni della retrotopia. Abbiamo – aggiunge il pensatore – invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Il futuro è finito alla gogna e il passato è stato spostato tra i crediti, rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui le speranze non sono ancora accreditate». Altri invece, la stragrande maggioranza, in preda alle mode del consumo, si inebriano dinanzi al biologico, alle perdute tipicità dei prodotti del territorio, alle sedicenti eccellenze enogastronomiche, alle energie rinnovabili., alla tecnologia futuristica, alle mirabolanti trovate dell’informatica, affollando le brulicanti piazze virtuali, fino a sognare uno sviluppo sostenibile e una pace universale.

Formule magiche equivocamente vincenti che immaginano di colonizzare tutto il pianeta, il territorio e i borghi rurali, nel segno di un Impero buono per tutti, ad iniziare dai mercati economici e finanziari, che mai si era visto a memoria d’uomo. Il rischio di queste nobili aspirazioni è di triturare la storia e la cultura, nelle sue infinite sfumature e declinazioni, sedimentata dalla “Rivoluzione agricola” del Paleolitico, in poi, in ogni luogo del nostro malconcio Mappamondo abitato dall’uomo.

C’è una diffusa aria di sufficienza in giro. Di più, una manifesta arroganza, che fa rima spesso con ignoranza, nel ritenere assolutamente inutile servirsi dei tanti saperi del passato più o meno vicino, nonostante tutto, a portata di mano nei luoghi elettivi della cultura, indispensabili per rileggere il territorio attraverso, per esempio, le fonti demoetnoantropologiche. Ma lo slogan dei “forzati” al ritorno alla terra è quasi sempre:“Possiamo fare da soli”. Per i nuovi predicatori “tecnodigitalimprenditoriali” del territorio è, infatti, del tutto inutile avere a che fare con il “ciarpame” della tradizione, buono solo per animare, magari con invenzioni effimere e sedicenti storie ritrovate, sagre di piazza e feste parapopolari, con tanto di patrocini istituzionali e mecenati d’occasione.

Giampilieri-nel-Messinese

Giampilieri

Nell’era delle connessioni, mancano, paradossalmente, tante virtuose connessioni, necessarie per attivare una rete di conoscenze, dunque, uno scambio di saperi, per riconoscere il territorio nei suoi profili storico-artistici e demoetnoantropologici. Un passaggio necessario, questo, io credo, per tentare di ridare dignità al palinsesto di racconti di vita dei borghi, che per alcuni, evidentemente, pesa in maniera eccessiva. Solo rigenerando le forme della cultura di tradizione orale, sarà possibile insufflare nuova energia vitale alla campagna siciliana e ai suoi multiformi caratteri. E allora, oltre ad investire su un agriturismo di facciata, se non di “plastica” ed estraneo al territorio che lo circonda, tiriamo fuori dalle residue cassepanche tarlate delle remote case rurali assieme agli attrezzi di lavoro, la saggezza popolare, che ha difeso con strategie invisibili, ma efficaci i valori identitari. materiali e immateriali, relativi certo da sempre, contaminati indubbiamente per loro natura, ma per lo meno riconoscibili e familiari dalla comunità di riferimento, come la fragranza del pane di casa appena sfornato. E allora, dove conviene posare lo sguardo? In che direzione muovere i primi passi, e in compagnia di chi? Le “cento Sicilie” di Bufalino, così frastagliate, sorprendenti, misteriose, ma anche offese, stravolte, a volte irriconoscibili, rimangono lì mute, ostinatamente orgogliose delle loro esclusive storie patrie, in cerca di nuovi autori, in grado di scrivere nuove sorprendenti storie.

E allora, io, incomincio dal mio orizzonte geografico-culturale d’origine, che coincide con la cuspide nord-orientale dei Peloritani, sospesa fra mare e cielo, innervata da miti e leggende, ma oggi in grado solo di “vantare” i più alti consumi di suolo, con una sfrenata voglia di continuare a cementificare il territorio e tombare le fiumare. La portentosa e smisurata Pelorias non riesce più a sopportare le offese volgari e le violenze gratuite, che continuano a fagocitare, con un’accelerazione esponenziale, quel delicato equilibrio che, per secoli, ha determinato un rapporto virtuoso fra città e campagna. Davvero unicum, l’ecosistema peloritano, anche sul più vasto orizzonte isolano e mediterraneo, per la tessitura secolare certosina di un sistema di relazioni fra “campagna” e città”, “colto” e “popolare”, “mercantile” ed “immaginario-artistico”. Perduto per sempre nelle sue fortunate strategie economico-sociali-valoriali, della rete policentrica Città-Campagna, nonostante i tanti guasti edilizi e le devastazioni dei “nuovi barbari”, restano gli impianti urbanistici dei 48 Casali, con singolari architetture religiose e residenziali, gentilizie e rurali, con segni forti di antropizzazione esemplificati dai luoghi del lavoro millenario agro-pastorale, con emergenze, quali palmenti, trappeti, mulini a ruota verticale, neviere, dentro i confini amministrativo-topografici della Città di Messina.

Un inestimabile giacimento di cultura e natura in gran parte misconosciuto, e in molti casi rinnegato e offeso, ecco cos’è l’arcipelago dei 48 casali peloritani di “mezzogiorno” e “tramontana”. Per secoli in stretto, intenso e virtuoso dialogo con “l’anima nobile e mercantile” della città protesa sul mare per incontrare tutti i popoli del Mediterraneo, gli antichi borghi rurali peloritani hanno nutrito letteralmente la città, riversando a pieni mani quotidianamente, assieme alle primizie alimentari, nelle infinite relazioni interpersonali, i saperi, le conoscenze, la saggezza del saper vivere in consonanza con l’ambiente, traendo dal territorio aspro ma generoso dei Peloritani, i frutti migliori. Una società, quella messinese, dunque, che, sul lungo periodo storico, ha declinato la propria vicenda civica, sociale ed economica, ovvero il suo modo di essere e abitare il mondo, con la terra e le sue risorse agropastorali.

Salice-nel-Messinese

Salice

L’esito di questa ininterrotta relazione simbiotica fra “città” e “campagna”, fra “ascese” e “cadute”, un profilo identitario etnoantropologico messanensis  singolare, in grado di fare interagire l’“alto” e il “basso”, il “colto” e il “popolare” , “urbanità” e “ruralità”, dentro un quadro simbolico e valoriale fondativo sostan- zialmente condiviso dall’insieme variegato della comunità messinese, per intenderci, dalla classe del “contado” a quella “nobile-mercantile urbana”. E a rispecchiare lo scambio di forme culturali materiali e immateriali fra i diversi livelli della società messinese, in un fecondo scambio “verticale-gerarchico” e “orizzontale-paritario”, sedimentato fra mare e terra, lo sterminato patrimonio di cultura, nelle sue diverse accezioni che, fin dalle prime frequentazioni paleolitiche, passando per la fondazione di Zancle, da parte degli “immigrati” greci, si è andato stratificandosi sul territorio. Un eccesso di cultura, già in gran parte sfigurato dal tragico terremoto del 1908 − alibi ancora oggi per le negligenze colpevoli della cosiddetta classe dirigente − , troppo pesante da sopportare lungo il viaggio verso la modernità globalizzata. Marcia forzata, quest’ultima, intrapresa fra Otto e Novecento, con bruciante accelerazione a partire dal secondo Dopoguerra, inseguendo i falsi miti del contemporaneo, dagli effetti drammatici di “spaesamento” e “disorientamento identitario”.

Alla perdita fatale e progressiva delle inveterate e mai messe in discussione, fino allora, coordinate di vita individuale e collettiva, in grado di modellare armonicamente scelte esistenziali e comunitarie, fra “pubblico” e “privato”, in equilibrio fra “vizi” e “virtù”, si è opposta nel tempo una fuga nostalgica verso un passato dai colori spesso folkloristici, effimera, sostanzialmente consolatoria, incapace di incidere in profondità, perché troppo superficiale, in grado solo di suscitare emozioni passeggere, dando così spazio ai predatori rapaci del territorio, ovvero alla cementificazione brutale e al consumo del suolo, senza alcun rispetto per la fragilità dell’ecosistema ambientale e culturale dell’area peloritana.. Ad arginare la deriva complessiva della città e della campagna, trasfigurate da sventurate scelte amministrative, la ricerca silenziosa sui diversi versanti del sapere, dalla paleontologia all’archeologia, alla storia dell’arte, alla nuova storiografia, all’etnoantropologia, in grado di allestire una biblioteca messinese trasboccante di saperi, finora in gran parte frequentata solo dagli addetti ai lavori.

Pezzolo-nel-Messinese

Pezzolo

Fuori da questi rassicuranti confini, invece, una città lungo il declivio della decadenza del consumo globale indi- scriminato, da basso impero, in cerca di facili emozioni, incapace di riconoscere sé stessa, anzi negandosi volgarmente. E allora puntando sulle realtà culturali virtuose del territorio, che pure esistono, anche se da molti ignorati, sarà possibile, stringendo un patto virtuoso con le superstiti comunità rurali, immaginare una rinascita della città, insufflando, a partire proprio dai casali, un soffio vitale in grado di rigenerare la memoria storica, rispecchiata dalle tante emergenze architettoniche, artistiche, demoetnoantropologiche, moltiplicando gli sguardi del sapere, “includendo” invece di “dividere”, “valorizzando” invece di “svalorizzare”, “riconoscendo” invece di “disconoscere”, posando un nuovo e penetrante sguardo tra “reale” e “immaginario”.

Missione non facile, quasi impossibile, se non si rifondano metodi e strategie, liberandosi dai fantasmi del passato, riconoscendo “pensieri guida” vincenti, per trovare l’anima perduta dei Casali peloritani, battuti dai venti di scirocco e tramontana, ormai quasi del tutto dormienti, a parte qualche eroica resistenza, ed esemplari realtà culturali, quali ad esempio il Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani. Animati stagionalmente da sagre posticce e ridanciane, o da mostre effimere, o da fuochi fatui d’interesse, i Casali, hanno smarrito per sempre il genius loci, e allora fanno fatica a riconoscerci. Restano comunque in fiduciosa attesa per un futuro tutto da costruire con sentimenti e passione veri, da coniugare con l’ascolto attento del passato, per ritrovare una storia rinnegata, dalla quale c’è molto da imparare, per ripercorrere il sentiero perduto, per riconoscere senza pregiudizi i tanti segni del lavoro dell’uomo sparsi sul territorio, per rigenerarli recuperando l’armonia perduta fra paesaggio, natura e lavoro senza, tuttavia, rinunciare alle formidabili e mirabolanti opportunità offerte dall’era digitale in cui siamo immersi.

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018

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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).

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