di Franco Pittau, Luca Di Sciullo e Antonio Ricci
Sono passati 24 anni dal 1991, quando, con il supporto dell’indimenticabile mons. Luigi Di Liegro, si diede l’avvio al Dossier Statistico Immigrazione. Con il tempo sono intervenuti continui perfezionamenti nella metodologia di ricerca e anche nella veste editoriale. I redattori più anziani si occupano del rapporto da circa quindici anni e altri se ne sono aggiunti successivamente, ma il gruppo è stato reso coeso dall’insistenza sul lavoro di équipe interdisciplinare e sull’apertura all’esterno, con il coinvolgimento di oltre un centinaio di autori, tra cui un significativo numero di immigrati. A tutti, e in particolare ai membri del Comitato scientifico e a quelli delle redazioni regionali, va un sentito ringraziamento.
Il 2014 è il secondo anno in cui il Dossier viene redatto con il patrocinio e il contributo finanziario dell’UNAR/Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali del Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dopo la fruttuosa esperienza precedente, questo trasferimento dall’ambito ecclesiale a quello pubblico ha consentito di rafforzare l’impostazione originaria. Le caratteristiche del rapporto consistono, infatti, in un rigoroso ancoraggio delle considerazioni ai dati, considerandoli una base non pregiudiziale per trarne dei concetti. Il messaggio è contenuto nel titolo stesso dell’opera: Dossier Statistico Immigrazione. L’affezione dimostrata dagli operatori, dai ricercatori e dai funzionari va a sostegno di questa affermazione.
I giornalisti sono soliti chiedere quale è la chiave più caratterizzante del nuovo rapporto. Non è così agevole riassumere in qualche parola il significato di migliaia di dati. Comunque, questi convergono nel portarci a ritenere che in Italia siamo arrivati a un punto di non ritorno. L’immigrazione è aumentata anche nel 2013, un ulteriore anno di grave crisi occupazionale, così come è aumentata in questi ultimi difficili sei anni, rivelando il suo carattere strutturale. Questo aumento, seppure ridimensionato rispetto a quello conosciuto nel decennio di inizio secolo, continuerà anche negli anni a venire e, se nel 2013 è stato raggiunto il livello di 5 milioni di presenze regolari, nel 2020 verranno superati abbondantemente i 6 milioni, più dell’attuale popolazione complessiva che si riscontra nel Lazio o nella Campania, mentre prima di metà secolo gli immigrati saranno più numerosi dei 9 milioni di abitanti che conta attualmente la Lombardia.
Il fattore quantitativo ha la sua importanza e non va trascurato. Non sono pochi a rendersene conto nel mondo politico-istituzionale e nel mondo sociale, ma in questi stessi ambiti continuano ad essere molti quelli che non percepiscono ancora questo andamento. La loro resistenza, più che ridimensionare la portata del fenomeno migratorio, contribuisce spesso solo a rendere più difficile le condizioni delle persone coinvolte nella mobilità, come attestano le inaccettabili asprezze nei confronti di chi arriva come profugo o chi vive stabilmente in Italia.
Il Dossier Statistico Immigrazione 2014 mette a disposizione i dati in grado di mostrare la superficialità con cui si affrontano i fattori di espulsione nei Paesi di origine e le condizioni di integrazione in Italia. In questa presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2014 faremo prima una rassegna dei principali dati, per poi passare a due approfondimenti dedicati, rispettivamente, alle cause che nei Paesi di origine influiscono sull’esodo e, quindi, ad alcuni aspetti del processo di integrazione in Italia, per poi esporre qualche riflessione sulle prospettive di una fruttuosa convivenza.
I dati più significativi del Dossier 2014
In Italia, gli stranieri residenti alla fine del 2013 sono risultati 4.922.085 su una popolazione di 60.782.668, con un’incidenza dell’8,1%. Le donne sono il 52,7% e i minori oltre 1 milione, mentre sono 802.785 gli iscritti a scuola nell’anno scolastico 2013/2014 (incidenza del 9,0% sulla popolazione scolastica complessiva), tra cui 11.470 rom. Il livello di istruzione è notevole: il 10,3% ha una laurea e il 32,4% un diploma (dati del Censimento del 2011). Nel 2013 i residenti sono aumentati di 164.170 unità al netto delle revisioni censuarie. Secondo la stima del Centro Studi e Ricerche IDOS la presenza complessiva degli immigrati in posizione regolare è però più alta e ammonta a 5.364.000 persone.
Nel 2013, i visti per soggiorni superiori a 90 giorni sono stati 169.055, di cui solo 25.683 per lavoro subordinato e 1.810 per lavoro autonomo. Attualmente hanno maggiore peso sull’aumento della popolazione straniera i visti per ricongiungimento familiare (76.164) e le nuove nascite (77.705 a fronte di 5.870 decessi). Notevole è anche l’incidenza delle famiglie con almeno uno straniero (2.354.000, pari al 7,1% di tutte le famiglie residenti in Italia), che in un quarto dei casi sono miste.
Nonostante il policentrismo delle provenienze (196 paesi), si riscontra una notevole prevalenza di alcune aree di origine: oltre la metà (51,1%) proviene da soli cinque paesi (Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina) e circa i due terzi (64%) dai soli primi dieci. Un quarto della popolazione straniera risiede in quattro province (Roma, Milano, Torino e Brescia). Gli stranieri residenti in Lombardia (oltre 1 milione) rappresentano il 22,9% del totale nazionale e quelli della provincia di Roma (oltre mezzo milione) il 10,3%. I permessi scaduti senza essere rinnovati sono stati 262.688 nel 2011, 166.321 nel 2012 e 145.670 nel 2013. Tuttavia, ufficialmente, le partenze per l’estero hanno coinvolto 44mila cittadini stranieri e 82mila cittadini italiani, tra i quali quelli residenti all’estero sono 4.482.115.
Al Censimento del 2011 in media la differenza di età tra stranieri e italiani è stata di 13 anni (31,1 rispetto a 44,2) e questo divario ad oggi fa sì che l’immigrazione influisca positivamente anche sul sistema pensionistico. Nel 2013, secondo la stima di IDOS, la quota di immigrati che raggiungeranno l’età pensionabile salirà al 2,6% rispetto al totale dei casi, per poi passare al 4,3% nel 2020 e al 6,0% nel 2025. I cittadini italiani per acquisizione, che erano solo 285.785 nel 2001, sono aumentati a 671.394 al Censimento del 2011, cui se ne sono aggiunti 65.383 che hanno acquisito la cittadinanza nel 2012 e 100.712 nel 2013.
Sono in aumento gli sbarchi dei profughi in provenienza dall’Africa e dall’Asia medio-orientale. Al 31 agosto 2014 le persone sbarcate in Italia sono state complessivamente 112.689, mentre diverse migliaia di persone sono morte in mare nonostante l’operazione “Mare Nostrum”, iniziata il 18 ottobre 2013, che, un anno dopo, ha permesso di salvare oltre 130mila persone. Anche nel 2013 le richieste di asilo sono state in Italia di numero contenuto (26.620) rispetto ad altri Paesi europei (127mila in Germania, ad esempio). Il 10 luglio 2014 è intervenuto un accordo Stato-Regioni-Enti Locali per un piano nazionale di accoglienza e i posti messi a disposizione dallo SPRAR (Sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati) sono stati portati a quasi 20mila entro il triennio 2014-2016.
Risultano in diminuzione le persone non autorizzate all’ingresso che sono state intercettate alle frontiere italiane (7.713), le persone rimpatriate (8.769) e quelle intimate di espulsione ma non ottemperanti (13.529), per un totale di 30.011 individui, in costante diminuzione dal 2006 (quando furono 124.381). Secondo la convinzione prevalente, la popolazione straniera in posizione irregolare è inferiore al mezzo milione, anche perché 430mila non autorizzati a stare in Italia sono stati interessati dai provvedimenti di emersione varati nel 2009 e nel 2012.
Una realtà molto problematica è quella dei Centri di identificazione e di espulsione. Su 420 Cie operanti in tutta l’Ue (37.000 posti in totale), 10 sono in Italia, dove nel 2013 sono stati trattenuti 5.431 uomini e 585 donne (inclusi 395 romeni e molti provenienti dal carcere), con un tasso di espulsioni eseguite pari al 45,7% e condizioni di vita critiche per quel che riguarda il rispetto dei diritti umani, come attesta anche l’organizzazione Medici per i diritti umani (MEDU) e come la stessa Commissione del Senato per i diritti umani ha riconosciuto.
L’incidenza degli stranieri sul totale degli occupati era del 3,2% nel 2001 ed è aumentata nel 2011 all’8,2%. I dati dell’Istituto Nazionale di Statistica attestano che nel 2013 si è trattato di 2,4 milioni di lavoratori. Alla fine dello stesso anno sono stati 3 milioni 113mila i disoccupati complessivi nel Paese, con un aumento di circa 639mila unità nel corso dell’ultimo biennio. Tra i lavoratori stranieri il tasso di disoccupazione è salito nel 2013 al 17,3% e il numero di disoccupati a 493mila.
La crisi ha influito anche sull’invio delle rimesse che, pur rimanendo essenziali per le famiglie e i Paesi di origine degli immigrati, sono ulteriormente diminuite nel 2013 a 5,5 miliardi di euro, circa un quinto in meno rispetto all’anno precedente e molto di meno rispetto al picco raggiunto nel 2011 (7,4 miliardi di euro). Non sono mancati i casi di discriminazione segnalati dall’UNAR, che nel 2013 sono stati 1.142, dei quali 784 (pari al 68,7%) determinati da fattori di carattere etnico-razziale. L’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, attraverso il Dossier Statistico Immigrazione 2014 propone una lettura realistica del fenomeno basata sulle statistiche e libera dalle ideologie, in funzione di una gestione lungimirante in grado di valorizzarne il più possibile l’apporto nella società.
Un approfondimento sul contesto internazionale
Malgrado la crisi economica, i flussi internazionali continuano ad intensificarsi. Nel 2013 è stata raggiunta la soglia record di 232 milioni di migranti nel mondo (cioè 1 persona ogni 33). L’Italia, con 5,7 milioni di nati all’estero (di cui circa 5 milioni stranieri), si colloca nel panorama internazionale in undicesima posizione tra i Paesi maggiormente coinvolti.
In questo complesso quadro internazionale, sono numerosi i luoghi comuni da sfatare:
- è vero che 7 migranti su 10 sono partiti da un Paese del cosiddetto Sud del mondo, tuttavia di essi solo la metà si è diretta verso i Paesi del Nord (81,9 milioni) e altrettanti verso quelli del Sud (82,3 milioni);
- si assiste ad una coesistenza degli immigrati economici (oggi secondo l’ILO il 5% della forza lavoro mondiale) con una pluralità di altre tipologie: ricongiungimenti familiari (oltre 35 milioni di adolescenti coinvolti), migrazioni forzate di richiedenti asilo (16,7 milioni di rifugiati, 1,2 milioni di richiedenti asilo e 33,3 milioni di sfollati interni), migrazioni altamente qualificate e brain drain (un terzo degli immigrati nei Paesi OCSE – 27,3 milioni – è in possesso di un titolo di studio di livello universitario), ecc;
- gli immigrati in Italia provengono da aree differenziate: sia da Paesi a forte pressione migratoria come l’Albania (di cui il 45,1% della popolazione è all’estero) e da Paesi con un forte differenziale di sviluppo come per esempio l’India o la Nigeria (con un Pil pro capite a parità di potere d’acquisto 7 volte inferiore), ma anche da Paesi caratterizzati da una significativa prossimità geografica (come i Paesi del Maghreb o dei Balcani) o culturale (come la Romania), così come da grandi Paesi al tempo stesso di immigrazione e di emigrazione (come l’Ucraina, che conta oltre 5 milioni di immigrati e altrettanti di emigrati) o da Paesi per i quali l’Italia rappresenta una meta del tutto secondaria, nonostante la significativa comunità ormai residente (come i 223mila residenti cinesi, che rappresentano appena il 2,4% della propria diaspora);
- la dimensione dei flussi irregolari può essere colta solo attraverso l’attività di intercettazione da parte delle forze di polizia: in dieci anni, tra 2004 e 2013, sono stati 118.307 i respinti alla frontiera e 191.315 i rimpatriati. Questa componente rimane minoritaria rispetto a quella regolare, anche se la diffusa attività di sfruttamento (trafficking e smuggling) determina risvolti umanitari tragici: è questo il caso della missione italiana Mare Nostrum che tra ottobre 2013 e ottobre 2014 ha salvato nel Mediterraneo la vita a 150mila persone (di cui la metà provenienti da Siria ed Eritrea, aree particolarmente pericolose), mentre restano incerte le prospettive future della missione comunitaria Triton, affidata a Frontex con obiettivi molto più limitati, senza un piano di re-insediamento e senza il coinvolgimento delle autorità dei Paesi di partenza e soprattutto di transito.
A livello di governance, esaurito nel 2014 il cosiddetto Programma di Stoccolma, l’UE stenta a trovare un nuovo accordo su una piattaforma condivisa, soprattutto dopo l’affermazione nelle ultime elezioni europee dei partiti politici più apertamente anti-immigrazione (25 maggio 2014). Nell’UE, con 50,9 milioni di immigrati e 34 milioni di stranieri, insieme all’euroscetticismo regna lo spauracchio dell’immigrazione senza controllo e si assiste ad un graduale allargamento della categoria degli “stranieri indesiderati”: prima lo erano gli irregolari, poi i richiedenti asilo, quindi gli immigrati non comunitari e in particolare quelli musulmani, fino alla stessa mobilità infra-europea (lo UK Indipendence Party, per esempio, ritiene che ci sarebbero “troppi italiani” sul suolo britannico).
All’acceso dibattito mediatico però non corrispondono politiche di livello europeo altrettanto incisive e, inoltre, come denunciato da Amnesty International, continua una spesa non equilibrata fatta più per proteggere le frontiere con l’acquisto di nuovi equipaggiamenti e infrastrutture tecnologiche che per il miglioramento della situazione dei richiedenti asilo, delle procedure e dei servizi di accoglienza e di integrazione (1 miliardo e 800 milioni di euro vs appena 700 milioni di euro durante il quadro finanziario 2007-2013). Non va trascurata l’altra faccia della medaglia rappresentata proprio dai 4,5 milioni di cittadini italiani che vivono all’estero, con una crescente mobilità riscontrata negli ultimi anni (82.095 emigrati solo nel 2013), anche se ancora bassa rispetto alla media UE a 28 (pari a solo il 3% della forza lavoro, secondo i più recenti dati Eurostat).
Ambiti di discriminazione a sfavore degli immigrati
Anche grazie all’impulso fornito dall’UNAR, in questa edizione del Dossier per la prima volta un capitolo specifico viene dedicato agli indicatori di discriminazione degli immigrati in Italia a livello territoriale. In effetti, le discriminazioni che gli immigrati subiscono ancora in diversi ambiti della loro vita, soprattutto in campo sociale e lavorativo, incidono pesantemente sulle possibilità dell’integrazione, dal momento che la condizione fondamentale perché l’integrazione abbia credibili chance di realizzazione è proprio che, almeno nelle dimensioni più importanti della vita civile, si riscontri una effettiva e verificabile uguaglianza di trattamento e di diritti tra italiani e stranieri. Ma la strada da fare, sotto questo aspetto, pare ancora molta. In effetti, facendo un confronto statistico tra la condizione degli immigrati e quella degli italiani in alcuni importanti settori di inserimento sociale e occupazionale, balza una differenza a svantaggio degli immigrati che dà la misura di quanto ci sia ancora da recuperare in termini di parità di condizioni.
Il primo degli ambiti di inserimento sociale in cui è stato condotto questo confronto è quello che riguarda l’accesso al mercato della casa, attraverso la misura dell’impatto economico che il costo medio annuo di affitto al mq ha sulla popolazione straniera e su quella italiana, a seconda delle zone abitative (centro o periferia) in cui si concentrano maggiormente: ebbene, a livello nazionale si osserva che in media gli stranieri sostengono, pro capite, un costo per l’affitto della casa che è superiore di un quinto (19,6%) a quello che sostengono mediamente gli italiani. Se a questo si aggiunge, come aggravante, che la retribuzione media pro capite dei lavoratori dipendenti immigrati è inferiore di oltre un quarto (27%) a quella degli italiani, ben si comprende come la casa resti un bene primario di welfare ancora largamente proibitivo per gli immigrati. Con tutto quello che l’abitazione rappresenta ai fini di una stabilizzazione familiare in Italia, e senza contare le varie forme di preclusione verso gli stranieri da parte dei proprietari.
Un secondo ambito sociale di comparazione tra italiani e stranieri è quello della scuola, e riguarda in particolare la massiccia canalizzazione degli studenti stranieri di scuola superiore in percorsi che puntano a un immediato inserimento nel mondo del lavoro, piuttosto che a un proseguimento degli studi a livello universitario: sono appena il 20,6% quelli che scelgono un liceo invece che un istituto tecnico o professionale, a differenza del 43,7% tra gli italiani (una percentuale più che doppia). Il che pregiudica, anche per le nuove generazioni di origine straniera, la possibilità di competere nel mercato del lavoro per posti di più alta qualifica, perpetuando così quel modello di inserimento subalterno (tipico del nostro mercato “duale”), in cui gli immigrati vengono relegati agli impieghi più dequalificati, faticosi, poco retribuiti e precari, che caratterizza l’occupazione straniera in Italia sin dalla prime generazioni. E rischiando, così, di tenere bloccata la mobilità sociale degli immigrati anche nel loro ricambio generazionale.
Del resto, che ci troviamo ancora in un mercato del lavoro a doppio passo per italiani e stranieri, lo confermano anche gli altri due indicatori di discriminazione considerati, entrambi riguardanti l’inserimento occupazionale, mostrando: da una parte, che ben la metà (49,0%) dei lavoratori immigrati che hanno iniziato il proprio rapporto di lavoro prima del 2013 lo hanno visto terminare nel corso dello stesso anno (perché licenziati, dimissionati o per mancato rinnovo del contratto alla scadenza) mentre tra gli italiani la quota è di ben 20 punti inferiore (29,0%), a dimostrazione della maggiore precarietà delle occupazioni riservate agli stranieri; e, dall’altra parte, che in media le ore di lavoro dichiarate in un anno da 100 lavoratori immigrati equivalgono a quelle di 82 ipotetici impieghi a tempo pieno per l’intero anno, mentre quelle dichiarate in media da 100 lavoratori italiani equivalgono a oltre 90 posti di lavoro continuativi e a tempo pieno, a dimostrazione di un impiego dei lavoratori stranieri maggiormente discontinuo e a tempo parziale (secondo un modello lavorativo “a singhiozzo”). Una discontinuità, lo sappiamo, spesso integrata con ore non dichiarate o con impieghi totalmente senza contratto, con tutto ciò che questo comporta sia in termini di tutela (anche previdenziale e infortunistica), sia sulla permanenza regolare in Italia dei non comunitari.
In conclusione, bisogna pensare in grande. L’immigrazione può essere un fattore di globalizzazione in positivo. Per i diretti interessati, assicurandone una vita dignitosa e la valorizzazione delle competenze, con interventi sulle norme e sul sistema produttivo e anche sugli atteggiamenti. Per i Paesi di origine, che trovano un sostegno nelle rimesse, nell’acquisizione di nuove competenze professionali, nei nuovi legami commerciali e nell’imprenditoria di ritorno. Per l’Italia, che tramite le diaspore economiche (2,5 milioni di lavoratori) e le élite formatesi nelle università italiane (circa 110mila giovani) può intessere più fruttuosi rapporti, funzionali alla sua economia e alla sua cultura. È già scritto per ragioni demografiche che l’Italia sarà un Paese di maggiore immigrazione. Bisogna preparare questo futuro con una mentalità adeguata, che impegna sia i decisori pubblici sia i singoli cittadini.
Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
______________________________________________________________
Franco Pittau è il fondatore (nel 1991) del Dossier Statistico Immigrazione e Luca Di Sciullo e Antonio Ricci sono i redattori con maggiore anzianità, inseritisi nell’équipe nella seconda metà degli anni 90. Questo rapporto, quello più diffuso in Italia, in precedenza realizzato all’interno della Caritas (di cui Pittau è stato anche dipendente per una decina d’anni), dal 2004 viene curato dai redattori del Centro Studi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico e nel 2014 (come anche nel 2013) è uscito sotto la sponsorizzazione dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri/Dipartimento Pari Opportunità. Gli autori hanno al loro attivo, singolarmente o in gruppo, numerose pubblicazioni: in particolare, Pittau sugli aspetti metodologici e sulla sicurezza sociale, Di Sciullo sui processi di integrazione e Ricci sul contesto internazionale.
_______________________________________________________________