di Enrica Fei
Una minuscola isola tra i giganti del Golfo Persico: il Bahrain
Il Bahrain è una piccolissima isola nelle acque del Golfo Persico, tra l’Arabia Saudita e l’Iran. Conta circa un milione e mezzo di abitanti, di cui più di 600 mila sono expat: indiani, filippini, pakistani, ma anche europei, attratti dalle possibilità di investimento. La piccola popolazione indigena, invece, è araba.
La prima volta che ho visitato il Golfo Persico è stata nel febbraio del 2016. Avevo appena iniziato un dottorato in Politiche del Medio Oriente e sentivo il bisogno di visitare la regione per scoprire le comunità sciite di cui scrivevo: quella del Kuwait, del Bahrain e dell’Iran.
Il primo Paese cui approdai fu il Kuwait. Il treno dalla stazione di King’s Cross a Londra, dove vivevo allora, e l’aeroporto di Kuwait City, dove atterrai; ricordo l’emozione ingenua della partenza, prima di prendere il treno, e l’arrivo in Kuwait. E l’assoluto shock. Sapevo che non avrei incontrato i suq marocchini, i mercati tradizionali, dove trovare la pentola del tajine, il piatto del Paese, ma non riuscire a comprarla perché incapace di contrattare. Che non avrei ripercorso la storia della civiltà a ritroso attraversando i vicoli di Damasco, in Siria, per tornare al tempo in cui Dio era uno, e le religioni monoteiste non si dividevano secondo i profeti. Che non avrei camminato tra le strade di Beirut, i suoi palazzi trivellati dai colpi, per rivivere trent’anni di guerra civile nei murales della città – gli angeli della speranza e della ricostruzione a fianco dei fantasmi dell’odio, e della guerra.
Sapevo che non avrei incontrato il mondo arabo che avevo studiato e visitato sino a quel momento: il mondo del Levante (Siria, Giordania, Libano) e del Nord Africa (Egitto, Marocco, Algeria, Tunisia). Che mi stavo recando tra i Paesi più ricchi il mondo, e mi addentravo in un deserto arido, brullo, inospitale ma ricchissimo, perché vi è il petrolio. Sapevo tutto questo, ma i grattacieli nella sabbia di Kuwait City mi sconvolsero. Le super strade in pieno centro, i Suv enormi che si spostano per cinque metri (sono deserte, le strade di Kuwait City: nessuno cammina). Le moschee “storiche”, costruite negli anni ’70; i luoghi di ritrovo e di svago, che sono centri commerciali.
Mi ammalai terribilmente, appena giunta in Kuwait, e credo che, più che l’influenza, sia stato lo shock a costringermi a letto. I Paesi del Golfo Persico (ad eccezione dell’Iran e, mi dicono – non ci sono mai stata – l’Oman) hanno conosciuto un’urbanizzazione e industrializzazione improvvisa, velocissima, che da una terra desertica di famiglie tribali nomadi – con i loro usi e costumi – nel giro di un decennio (approssimativamente intorno agli anni ’70) ne ha fatto Paesi ricchissimi. Il tempo dell’urbanizzazione, in questi Paesi, non ha seguito quello lento dei mutamenti sociali e antropologici. La società del Kuwait, da certi punti di vista, è ancora tribale. Ma la sua fonte di ricchezza, il petrolio, la colloca tra i primi ranghi nella gerarchia dell’economia globale. E quest’ultima non è quella dei versi pre-islamici, all’origine della poetica araba; è quella capitalista dei grattacieli di vetro.
Il Bahrain, in una qualche misura, è un caso peculiare. Dopo il Kuwait, andai in Bahrain, e fu un’esperienza molto diversa. Da vari punti di vista, è un Paese del Golfo Persico come tutti gli altri. Non ha un centro storico, non ha un’architettura che si possa definire “classica” in opposizione a momenti successivi o precedenti; ha enormi grattacieli svettanti in cielo e la sabbia ai piedi. Ma ricordo il mare, sempre intorno a me, e al-Riwaq, un caffè centro-culturale dove andavo a studiare. Ricordo una comunità accogliente, desiderosa di condividere; persone che mi portavano sul lungomare a discutere di politica, di diritti civili, di libertà e Primavere arabe.
Il Bahrain è più povero degli altri Paesi del Golfo Persico, molto più piccolo, molto meno potente. Ed ha una storia a sé, unica e complessa, e una popolazione indigena che non si può definire tribale. È forse per questo che, per il Bahrain, provo un’affezione particolare. Nonostante la ricerca del mio dottorato si sia evoluta in una direzione diversa e il Bahrain, per il mio lavoro, abbia perso rilevanza, vi sono tornata numerose volte. La passione per la piccola isola e la sua comunità, nel corso degli anni, è rimasta viva.
Sono giorni strani, questi della quarantena. Le quattro mura di casa sono impermeabili alla malattia, ma non ai fantasmi. Ho ripensato tanto, in queste settimane, al 2016, al 2017, agli anni in cui scoprivo il Golfo Persico, così diverso dal mondo arabo che conoscevo. Nonostante l’entusiasmo della scoperta, sono stati anni difficili. Non me la passavo molto bene. Mi muovevo nella nebbia, ma stavo così male che, invece di fuggire, procedevo a passi decisi e determinati, scivolando, sempre più a fondo, nella palude.
Sono giorni strani, questi della quarantena. Le quattro mura di casa sono impermeabili alla malattia, ma non ai fantasmi. Ho ripensato tanto, in queste settimane, al mio tempo in Bahrain, alle mie frequenti visite. Al 2016, al 2017, agli anni in cui scoprivo il Golfo Persico, così diverso dal mondo arabo che avevo studiato e visitato sino a quel momento: il mondo del Levante (Siria, Giordania, Libano) e del Nord Africa (Egitto, Marocco, Algeria, Tunisia). Nonostante l’entusiasmo della scoperta, sono stati anni difficili. Non me la passavo molto bene. Mi muovevo nella nebbia, ma stavo così male che, invece di fuggire, procedevo a passi decisi e determinati, addentrandomi, sempre più a fondo, nella palude.
Questa, però, è un’altra storia: non voglio raccontare dei fantasmi della quarantena. Voglio scrivere, semmai, di un poeta che ho conosciuto in Bahrain, Ahmad al-ʿAjmii, al quale devo moltissimo. Nel suo poema “Sariʿan Iataharrak al-Alam” – “Si muove veloce, il dolore”, di cui sto curando la traduzione dall’arabo, Ahmad ha dato forma ai suoi fantasmi. E chissà, forse se ne è liberato.
I “Baharna” e gli al-Khalifa
Il caso del Bahrain è insolito, bizzarro, e sconosciuto ai più. Fino alla fine del diciottesimo secolo, la piccola isola e i suoi abitanti erano sotto il dominio dell’Impero Persiano (l’odierno Iran). A differenza delle bellicose tribù dell’Arabia centrale (l’odierna Arabia Saudita), la sua popolazione era pacifica, sedentaria, e dedita alla pastorizia e all’agricoltura. Erano i “Baharna”, come si fanno chiamare ancora oggi. Le tribù del Najd, invece, (Arabia centrale), erano nomadi. L’ostilità climatica delle loro terre li portava spesso a spostarsi e, a seguito di invasioni e guerre, a conquistare territori più miti. Nel 1783, secondo la tradizione, la famiglia tribale degli al-Khalifa (parte degli Bani ʿUtub, una grande tribù) migrò dall’Arabia centrale e conquistò l’isola. Poco dopo l’insediamento, fu imposto un sistema feudale, che discriminava i Baharna e favoriva le famiglie tribali. Con l’avvento degli al-Khalifa, infatti, molte tribù si erano mosse dal Najd al Bahrain: essendo un’isola, il clima era più mite, le terre più redditizie e la pastorizia possibile. La famiglia degli al-Khalifa è ancora la famiglia regnante. Sarebbero diventati monarchi nel 1820, quando i Britannici (sotto la cui sfera di influenza rientrava il Bahrain), al fine di sigillare un’alleanza che controbilanciasse l’Impero Persiano nella regione, li dichiarò tali.
Molti dei Baharna, già dai tempi della conquista, erano fuggiti in Iran (allora, Impero Persiano). Soggetti a discriminazione, costretti a lavorare la terra e a cederne i frutti alle famiglie tribali alleate degli al-Khalifa, il risentimento nei confronti dei regnanti, percepiti come illegittimi invasori, si sarebbe formato già nel diciannovesimo secolo, per poi incancrenirsi nel corso del secolo successivo. I monarchi e le famiglie alleate, non solo non erano indigene; non solo, a differenza dei Baharna, gli autoctoni, che erano sempre stati sedentari, erano di tradizione tribale e beduina (vale a dire, prima di insediarsi nell’isola, erano nomadi); professavano anche una corrente dell’Islam che non era la loro. Erano, infatti, sunniti; mentre i Baharna, da sempre, sciiti.
Fin dai tempi della scissione tra sunniti e sciiti, la popolazione del Bahrain aveva sposato la causa di ʿAli bin Abi Talib, cugino e genero di Maometto, ed era quindi sciita [1]. Ad oggi, gli sciiti rappresentano la netta minoranza del mondo musulmano (non costituiscono più del 15%). Sono, però, la maggioranza in Iran, Iraq e, appunto, in Bahrain. In quest’ultimo Stato, in realtà, ormai non più. Si stima un approssimativo 50%. La popolazione dell’isola, infatti, ha subìto varie ondate di “social engineering”, come viene chiamato in inglese dagli addetti ai lavori. Attraverso l’espulsione e la rimozione della cittadinanza di varie figure sciite di spicco, o l’elargizione della doppia cittadinanza a Sauditi, Pakistani, Giordani (presumibilmente sunniti), il regime degli al-Khalifa è riuscito, nel tempo, a cambiare la demografia del Paese. Molti giovani sciiti, inoltre, subendo forti discriminazioni, sono stati costretti all’esilio. Moltissimi lasciano il Paese non riuscendo a trovare lavoro a causa, evidentemente, della loro confessione religiosa.
È difficile riuscire a comprendere la natura del conflitto tra sunniti e sciiti, non solo in Bahrain, ma in numerose realtà del Medio Oriente. Sono tensioni, infatti, che si manifestano su più livelli e che, anche se il conflitto è pressoché il medesimo tra Paesi diversi (tra sunniti e sciiti, cioè), assumono connotati che necessitano una conoscenza approfondita, e specifica, del contesto in questione. È facile indulgere nell’assunto orientalista secondo il quale, trattandosi di musulmani, la religione ha un ruolo centrale e, nonostante le differenze tra sciiti e sunniti non siano poi così cruciali, scoppino addirittura guerre guidate da uomini fanatici e barbuti. La realtà è più complessa e, nel caso del Bahrain, non prende le forme di una discriminazione religiosa: ciascuna festività propriamente sciita è consentita e rispettata; il Re, anzi, manderà perfino i suoi migliori auguri. È, semmai, di natura politica, e in una fattispecie molto singolare. Gli sciiti sono politicamente discriminati; ma questo, per quanto estremo, non è un caso isolato nel mondo arabo (il principale partito d’opposizione sciita in Bahrain, al-Wefaq, è stato sciolto nel 2016 e i suoi membri sono stati banditi dall’arena politica. È stato infatti emanato un decreto che impedisce a membri di ex congregazioni politiche di ricandidarsi alle elezioni). Semmai, e questa è la specificità del caso, possedendo il Bahrain una rilevanza geopolitica molto ridotta rispetto ai suoi vicini, le tensioni confessionali nell’isola, e le conseguenti discriminazioni sulla popolazione sciita, sono fortemente influenzate dal contesto regionale. Arabia Saudita e Iran, le due superpotenze della regione (la prima sunnita, il secondo sciita), con i loro giochi di alleanze nei vari Paesi della regione (in Iraq, Kuwait, Emirati Arabi, e così via), e i loro conflitti più o meno militarmente “espliciti”, hanno quindi in mano le sorti della piccola isola. E del suo popolo.
Ahmad al-ʿAjmii
In Bahrain ho incontrato e intervistato numerosissimi politici, attivisti e uomini religiosi sciiti. Nessuno di loro è più in politica: in quanto ex parlamentari di al-Wefaq, il regime li ha banditi. Alcuni di loro, oggi, sono in prigione. Altri, in esilio. I fantasmi di Ahmad al-ʿAjmii, poeta sciita conosciuto a Manama, la capitale del Bahrain, si nutrono di questo dolore. Quello del suo tempo, delle lotte tra sunniti e sciiti; quello dell’ISIS, delle guerre fratricide; quello dell’odio fra fratelli. Uomini e donne che pregano lo stesso Dio.
I versi che seguono sono l’inizio del suo poema, “Si Muove Veloce, Il Dolore”. Segue un’intervista al poeta che ho condotto via email e ho tradotto dall’arabo.
Si muove veloce, il dolore
Questo non è il mondo per cui sono nato
Un altro tempo, non è quello che sognai
Non era all’altezza, il tempo, del suo compito
Nel trasformarmi, in un uomo degno.
Un tempo che, presto, ha tagliato la mia lingua
Sono rimaste in ostaggio, le mie parole
Come seppellite, nel suo profondo.
Con attenzione ascolto ancora, l’oscenità di questo tempo
Il suo testamento, le sue parole certe
I miei pensieri nascono, dalle sue ossa fini, e fragili.
Mi porta via, il tempo, fino al limite del mio sangue
Muoio
Divento amico, delle larve della notte
È stretta, l’oscurità, nella grande menzogna
Della salvezza, e della pace.
Fuggendo dal terrore
Le sue valli
Un padrone selvaggio, ho costruito per me
Ho paura, mi spaventa il suo intelletto
Il suo piacere, per il mio dolore.
Per un attimo, non vedo la ratio delle stelle
In questo libro antico
Degli uccelli, dei rapaci.
Nella tristezza, la mia mente è trafitta dal secolo, il corno del divino
Con parole inquinate e sporche
Ho lasciato la mia immaginazione raccontare la sua fragilità.
Della verità, il più grande dei fantasmi
Dentro di lui la mia anima, ho seppellito
Nel suo petto il mio cuore, per un tempo
Più lungo, dell’ultimo respiro.
[trad. mia dall’arabo]
Due parole con Ahmad al-ʿAjmii
Dove è avvenuta la tua formazione poetica? Cosa ti ha spinto a dedicare la tua vita alla poesia?
Ho studiato Letteratura Araba all’Università di Beirut. Sono diventato poeta perché ho seguito una passione, qualcosa che animava il mio spirito. Volevo nutrire la mia anima con la poesia, con la bellezza. Grazie alla poesia e al potere e alle meraviglie del linguaggio, entro in contatto con la vita, con l’esistenza, con i suoi interrogativi più profondi.
Nella storia della letteratura araba, la tradizione poetica, anziché di prosa, è centrale. In che misura la tradizione antica ha influenzato la tua poesia?
Ho cercato di rompere con la tradizione, in realtà. La poesia araba classica possiede un’identità estetica e culturale propria del suo tempo, che non va a pieno d’accordo con il secolo contemporaneo. Credo che mi abbia arricchito, però, nella misura in cui ho teso a rafforzare un mio linguaggio e un mio sguardo, che ha rielaborato la poetica e il gusto del passato.
Conosci la tradizione poetica occidentale? Ci sono autori ai quali penseresti come importanti per la tua formazione?
Sì, conosco la poesia occidentale moderna come quella più classica, ne ho studiato i movimenti e le varie correnti. Direi, però, che la mia conoscenza rimane modesta, nonostante li abbia profondamente amati. Ho letto numerosi autori in traduzione, provenienti dai Paesi più diversi. Tradotti in arabo, ho letto poeti francesi, tedeschi, spagnoli, portoghesi, inglesi, russi e americani. Ho amato anche grandi poeti italiani, classici e più moderni. Tre nomi che mi vengono in mente: Dante Alighieri, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti.
A tuo avviso, in quali modalità, e perché, la poesia può rappresentare un veicolo per il dialogo e la conoscenza reciproca tra Occidente e mondo arabo?
La comprensione e il dialogo fra popoli è, sicuramente, uno dei regali che la poesia ci può fare; uno fra moltissimi. Anche adesso, fra me e te. Quando si pensa all’Europa e al mondo arabo, non dimentichiamoci quanto vicini in realtà siamo, anche geograficamente. Pensa al Mediterraneo: in realtà siamo parte di un’unità. Possediamo quindi un bagaglio estetico e culturale molto prossimo. Molta della poesia occidentale che ho letto, infatti, ha lasciato un grosso segno anche nella mia poetica. Al di là di questo, la poesia ci mette in contatto con le emozioni, con la nostra umanità. E questo ci avvicina.
Pensi che ci siano state influenze reciproche fra letteratura araba e occidentale?
Sì, senza dubbio. Ogni esperimento poetico, più o meno sofisticato e più o meno di valore, avrà un qualche impatto su altri esperimenti. Per quel che riguarda la letteratura araba e occidentale, il ruolo della traduzione, in questo senso, è centrale. Nell’epoca attuale, mi sembra che ciò stia avvenendo più da parte della letteratura occidentale su quella araba che il contrario. E penso che ciò sia dovuto ad un livello più alto e sofisticato di traduzioni.
In “Si Muove Veloce, il Dolore”, il dolore è profondamente intrecciato al “tempo”. Cosa intendi per “tempo”?
Il “tempo”, sì, è uno dei protagonisti del mio poema. Il “tempo” umano, quello che viviamo, e i suoi risultati, vicini e lontani. Nel mio poema affronto il tema del “tempo” che non siamo riusciti a superare. Il tempo in cui la nostra civiltà è morta: il tempo che ha prodotto il pensiero terrorista, il nichilismo esistenziale. Il tempo che ha rovinato i nostri sogni, le nostre aspirazioni per il futuro. Il tempo che ha bruciato i nostri ricordi, che ci ha reso ciechi.
In “Si Muove Veloce, il Dolore”, come rappresenti te stesso?
Sono la voce della poesia; l’io che, il dolore, lo prova e lo mette in versi. Questo “io” è quello di un uomo che combatteva con gioia, che guardava verso il futuro con speranza. Sognavo una luce lontana. La mia visione del mondo, e del futuro, è finita sotto il giogo dello Stato Islamico. Ha vinto il Nulla.
Ti senti libero di scrivere su qualsiasi argomento?
Sono libero: nella mente, nel cuore e nella coscienza. Se non fossi libero, dentro di me, non potrei scrivere. Le meraviglie del linguaggio, in questo senso, mi offrono grandi opportunità. L’immaginazione, l’indefinitezza artistica, l’invisibile…la libertà di cui si nutre la mia mente è quella che mi permette di sviluppare una scrittura poetica che parli senza parlare, che inganni senza mentire.
La situazione politica in Bahrain è molto tesa. Hai mai scritto di questo?
Sì, ho sempre scritto di questo. Scrivo di questo dai miei esordi in poesia, quando ero uno studente della Kuwait University e mi occupavo di attività sindacale come membro della National Union of Bahrain Students. Ai tempi scrivevo canzoni di lotta; la dimensione politica era esplicita e gli obiettivi quelli della battaglia politica. Ho continuato a scrivere della repressione, della privazione delle libertà. Ma l’ho fatto con l’anima della poesia, non con quello della politica in senso stretto.
Il Bahrain ha vissuto una sua Primavera Araba, e molto importante. È un tema, questo, di cui hai scritto?
Ho vissuto l’esperienza della Primavera Araba in prima persona. È stato un bagliore luminoso del sogno lontano di cui ti parlavo prima. Il primo lungo poema che ho scritto nasceva dall’ispirazione della Primavera Araba: Nisf Kaʿs al-Alam [letteralmente: “mezzo bicchiere di speranza”].
Il tema del “dolore” e della “bellezza” sono temi centrali nella tua poetica. Sono intrecciati in qualche modo? Se sì, come?
La poesia, più che rivelare la bellezza della vita, crea la bellezza della vita. La poesia che non è in grado di fare questo, non è poesia. Esploro molto il tema del dolore, sì, ma non soccombo ad esso scrivendone. Semmai, esponendolo, rappresentandolo, mostrando la crudeltà del dolore, creo bellezza. Lenisco le ferite umane, semino la piantina della speranza e della determinazione. È quella di cui abbiamo bisogno. La speranza e la determinazione; per correre dietro alla pace, e all’amore.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
[1] Nel 632 d.C., infatti, Maometto, il Profeta, era morto senza eredi. Alcuni sostenevano che il nuovo leader dovesse essere scelto per consenso della comunità (i futuri “sunniti”); altri, invece, per discendenza dinastica (i futuri “sciiti”). In assenza di figli maschi, il primo erede era ʿAli, cugino e genero di Maometto, il quale, quindi, era sostenuto da coloro che sarebbero diventati gli “sciiti”. Chi parteggiava per un’elezione da parte della comunità, invece, sosteneva Abu Bakr, amico e suocero del Profeta. Non si giunse ad un accordo, ma lo “Shiʿat ʿAli” – il partito di ʿAli, era quello della minoranza. Abu Bakr, quindi, divenne il primo califfo. Nel 680 d.C., il figlio di ʿAli, Hussein, e i suoi seguaci, si scontrarono con l’esercito del califfo Umayyade Yazid nella pianura di Karbala, in Iraq. La terribile carneficina si concluse con la tragica morte di Hussein e della sua famiglia. Il martirio di Hussein è ricordato ogni anno, nella fede sciita, come una delle festività più importanti, la Ashoura.
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Enrica Fei, arabista, studentessa di dottorato in Politiche del Medio Oriente, analista su Iraq e Iran per un’agenzia di consulenza, è scrittrice di racconti, testi teatrali, recensioni e articoli su Medio Oriente e società. Divisa fra la passione per la letteratura e quella per il settore socio-umanitario e gli affari internazionali, studia lingua e letteratura araba e francese, mediazione inter mediterranea e relazioni internazionali. Viaggia molto, soprattutto nel Medio Oriente (in Egitto, Marocco, Siria, Giordania, Libano, Bahrain, Kuwait e Iran). In Giordania studia per più di un anno all’Istituto Qasid, dove perfeziona il suo livello di arabo che, ad oggi, utilizza correntemente per lavoro. Ha vissuto a lungo a Londra ma, nel 2018, si è trasferita a Berlino. Vive tra Berlino e Firenze. Sta curando la traduzione dall’arabo del poeta Ahmad al-ʿAjmii, conosciuto in Bahrain.
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