È uscita finalmente a Beirut, nella primavera 2019, la traduzione araba del saggio di Pietro Egidi sui musulmani di Lucera, dal titolo La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione (1912). Dico “finalmente” perché questa traduzione aspettava da molti anni di essere pubblicata. Mi era stata commissionata dall’Accademia Beit al Hikma di Tunisi negli anni ’80-’90 del secolo scorso. Il testo era rimasto per alcuni anni nei cassetti dell’Accademia tunisina senza che si decidesse di passare alle varie fasi della stesura finale e quindi alla pubblicazione. Un giorno mi chiamarono per restituirmi il testo, pagandomi la metà del contratto e con il permesso di pubblicarlo se avessi trovato un editore per farlo. Come spesso succede con le istituzioni nazionali, i direttori che si succedono rivedono i programmi precedenti e riaggiustano il tiro secondo nuovi obiettivi e necessità di budget. Fatto sta che mi ritrovai con più di 300 pagine di storia poco conosciuta, almeno negli ambienti arabi, e senza un editore disposto a pubblicarle. Altri impegni mi avevano poi distolto dal progetto fino a quando decisi di tentare la cosa con l’editore che ha pubblicato le mie traduzioni di U. Eco e con il quale sto lavorando ancora su un altro testo di storia musulmana, Gli annali dell’Islam di Leone Caetani, di cui sono pronti i tre primi volumi. Così, in questi due ultimi anni abbiamo rivisto e corretto il testo iniziale e oggi il lettore arabo potrà conoscere la storia degli ultimi musulmani rimasti sul suolo italiano dopo la cacciata degli Arabi dalla Sicilia. La traduzione araba è uscita presso l’editore Dar al Madar al islami, Beirut 2019, con prefazione di Antonino Pellitteri.
Questo saggio di Pietro Egidi completa infatti la storia della presenza araba e musulmana in terra italiana, poiché Michele Amari, autore della monumentale Storia dei musulmani di Sicilia, aveva espresso il suo auspicio che altri prendessero in esame le vicende storiche degli arabi deportati in Puglia:
«Mi sono fermato alla deportazione dei musulmani di Sicilia in Puglia; parendomi opera insensata ad abbozzare le vicende della Colonia di Lucera su i vaghi cenni dei cronisti, quando stan sepolte nei registri angioini di Napoli centinaia di documenti su quella colonia; ché moltissimi ne vidi io stesso il 1840 e n’usai parecchi nella Guerra del Vespro Siciliano. Se un giorno avverrà che l’Archivio di Napoli sia aperto liberamente agli eruditi, altri, con migliori auspicii che i miei, intraprenderà così fatto lavoro» (Amari: XXXI-XXXII)
L’appello di Amari fu accolto molti anni dopo da Pietro Egidi, il quale giovandosi della raccolta di documenti fatta da Giuseppe De Blasiis, e di altri documenti provenienti dall’Archivio di Napoli, pur non essendo propriamente un arabista, si decise agli inizi del Novecento a scrivere la storia dei Musulmani di Lucera.
«È quindi mio proposito esporre quali fossero le condizioni in cui vissero i Saraceni in quel periodo (angioino), quali gli ordinamenti onde furono retti, quali i rapporti loro con l’autorità regia e con gli abitanti dei paesi finitimi, per scoprire se veramente la loro distruzione fosse ispirata da fanatismo religioso, o richiesta da impellenti necessità sociali e politiche, o se invece i motivi che ad essa persuasero il re, sian da cercare in ben altro campo; narrare poi come la miseranda dispersione avvenisse e in qual modo si cercasse di riempire il vuoto creato per essa nel cuore della Capitanata» (Egidi: 5).
Se qualcuno volesse dare un esempio di come la “ragion politica” sia stata spesse volte nella storia dell’Umanità alla base dei destini di popoli e Paesi, non troverebbe miglior esempio di Lucera musulmana, sia per spiegare la sua nascita per iniziativa di Federico II, sia per capire le ragioni della sua continuità e infine della sua distruzione sotto i due re angioni, Carlo I e Carlo II. La sua fondazione fu motivata solo in minima parte da considerazioni di carattere sentimentale o religioso, come l’amore di Federico II per la cultura araba e per il mondo musulmano, così come la sua distruzione nell’agosto 1300 per mano di Carlo II non fu dettata solamente da considerazioni di carattere religioso, altamente proclamate per giustificare lo sradicamento dell’Islam dall’Italia cattolica. Sia la nascita di Lucera musulmana che la sua distruzione furono dettate da necessità di carattere politico-economico.
Nel 1220, quando Federico II diventò padrone del Regno di Sicilia, si trovò a combattere su più fronti: in Sicilia, contro gli ultimi ribelli musulmani che minacciavano la stabilità del suo regno, e sul continente, in questa parte della Puglia stremata dalle guerre e impoverita, contro i baroni locali che spadroneggiavano ed usurpavano terre e beni; mentre non lontano dalle sue frontiere incombeva la minaccia dello Stato della Chiesa. Con una mossa degna dei più grandi strateghi, Federico II sradicò la ribellione in Sicilia deportando i musulmani a Lucera, e ivi fondò una città castello che diventerà il suo avamposto militare sul continente:
«Con veduta geniale, osando un’impresa che ci fa tornare con la mente a quelle degli antichi monarchi orientali, egli trapianto’ sui colli lucerini a diecine di migliaia i ribelli musulmani della provincia di Girgenti mentre in Sicilia trasferiva quelli cristiani di Celano. Troncava così ogni nervo alla resistenza nell’isola, stabiliva nel cuore della Puglia un nucleo potente, rapidamente guadagnato alla sua personale fedeltà con l’ostentato adattamento ai loro usi e alle loro credenze, e con le larghezze e coi privilegi di cui essi sentivano la necessità per la difesa, invisi com’erano ai paesani per la diversità della razza e della religione» (Egidi: 10).
Lucera costituiva dunque per l’imperatore svevo un posto di guardia avanzato in Puglia, che gli consentiva da una parte di trarre consistenti guadagni dal lavoro della terra e dal commercio, di cui gli arabi erano grandi esperti, e d’altra parte di usare la colonia lucerina come una riserva di guerrieri pronti a difenderlo contro i suoi avversari sul continente. Al primo appello del loro sovrano e protettore i musulmani di Lucera lasciavano la zappa e l’aratro e si armavano di archi e frecce. Per questo motivo Lucera doveva rimanere musulmana: né Federico II né Carlo I d’Angiò e suo fratello Carlo II, costrinsero i musulmani di Lucera a convertirsi al Cristianesimo: tale cambiamento della loro condizione avrebbe annullato tutti i vantaggi economici. In effetti, essendo musulmani erano considerati “servi camere”, cioè proprietà dello Stato, e dovevano perciò pagare la “gezia” ed altre imposte che i cristiani non pagavano. Inoltre essi fornivano Federico II, e dopo di lui gli angioini, di grano, di cavalli, di armi e di tende.
La stessa “ragion politica” guidò le decisioni dei due primi re angioini, poiché nonostante il sentimento cattolico dichiarato con forza nelle loro guerre contro gli Svevi, avevano mantenuto Lucera musulmana anche dopo la caduta di Corradino. Durante tutto il regno di Carlo I e sotto quello di Carlo II, essa rimase musulmana fino alla sua distruzione nell’agosto del 1300. Solo così potevano continuare a sfruttare la città e la sua popolazione araba e a riempire le loro casse dei proventi dei tributi imposti alla città per la sua particolare situazione, necessari ai due angioini per pagare i loro debiti ai banchieri fiorentini e al Papa. Quando poi Carlo II si trovò nella necessità di disporre subito di grandi somme di denaro per il pagamento dei suoi creditori decise nell’agosto del 1300 di prendere Lucera con l’inganno, vendere i lucerini come schiavi e mettere la mano sul grano appena raccolto e sul bestiame, presentando l’operazione come guerra santa contro gli infedeli.
Se tutto questo è più o meno noto agli storici, ciò che lo era meno e che ci sarà fornito da questo saggio di Pietro Egidi, sono le informazioni sulla vita di questa colonia, sulle sue condizioni giuridiche e sociali, sulle sue attività economiche, sui suoi rapporti con le altre città cristiane circostanti, ed infine sul numero degli abitanti di Lucera musulmana e sulle fasi della loro deportazione dalla Sicilia in Puglia.
Pietro Egidi, seguendo le orme del Winkelman, pone la prima deportazione tra il 1220 e il 1225, e una seconda deportazione nel 1246, rifiutando assolutamente l’ipotesi di un terzo spostamento proveniente dall’Ifriqia, dopo una spedizione contro le Gerbe. Francesco Gabrieli, dal canto suo, fissa le fasi della deportazione tra il 1220 e il 1230 (Gli ultimi saraceni in Italia: 145). Sul numero degli abitanti di Lucera i pareri sono molto discordi, da chi lo limitava a 15 mila unità, come appare dal racconto del Ferraria, a chi lo esagerava portandolo a 130 mila come fa il Malespini, o addirittura a 170 mila, come è stato riferito al Sultano d’Egitto.
Per determinare il numero degli abitanti di Lucera, se non con esattezza almeno con un’ipotesi vicina alla realtà, Pietro Egidi compie una serie di calcoli che gli permetteranno di giungere a cifre attendibili. Calcolando la superficie del territorio intorno a Lucera e l’estensione delle terre coltivate, soprattutto a grano, comparandole con i quantitativi di grano nei registri angioini, e mettendo a confronto questi dati con altri che riguardano la superficie sulla quale sorgeva la città, tenendo conto infine del fatto che le case erano di un solo piano o al massimo di due piani, completando questi dati con ciò che pagava la città al fisco sottoforma di tasse, contributi ordinari e straordinari, e in particolare il tributo della “gezia” che si pagava a testa (che gli arabi esigevano da chi non era musulmano e ora sono loro a pagarla ai cristiani), lo studioso giunge alla conclusione che gli abitanti di Lucera non dovevano superare i 35 o 40 mila, cifra leggermente inferiore a quella di Michele Amari, tenendo conto che l’arabista siciliano non includeva nella sua stima i musulmani rimasti in Sicilia:
«In vece de’ centomila Saraceni di Ruggiero De Hoveden, abbiam ora i ventimila combattenti di Lucera, secondo Giovanni Villani, e più autorevole attestato, quel di Riccardo da San Germano, cioè che diecimila soldati Saraceni moveano di Lucera a’ comandi dell’imperatore il milledugentrentasette, quando non erano stati per anco deportati tutti i Musulmani di Sicilia. Possiamo dunque supporre in quella sola terra di Puglia, atteso le circostanze peculiari, un cinquanta o sessanta migliaia di coloni. E altrettanti; per lo meno, è da credere siano rimasti nell’isola…» (Amari, III: 596).
La stragrande maggioranza della popolazione musulmana di Lucera era composta di “villani”, ossia contadini e piccoli artigiani. L’élite intellettuale aveva già lasciato la Sicilia all’epoca della cacciata degli arabi dalla Sicilia, per stabilirsi in Ifriqia o in Andalusia. La città aveva però la sua organizzazione interna e i suoi ordinamenti. Era capeggiata dai cosiddetti kâid (da al kâid, condottiero, detto anche alchaidus, o archadius, o anche archaidus, gaitus), appartenenti alle famiglie più potenti e più fedeli all’imperatore, e dopo la caduta dell’ultimo Svevo, ai sovrani angioini. Accanto a questi kâid, si fa menzione anche di “fichini”.
«Evidentemente l’università islamita aveva un suo corpo municipale, alla cui testa stavano gli anziani (sceik in arabo) e i “fichini”, parola in cui non sarei alieno dal riconoscere una deformazione del nome fakîh, con cui furono chiamati in altri paesi musulmani i notabili delle comunità. E fakîh significò appunto giureconsulto, e quindi per estensione può ben essere stato preso come equivalente di giudice (…) è da credere che rimanesse nelle loro mani la polizia della città e la giurisdizione delle cause minime, probabilmente secondo le costumanze della razza» (Egidi: 23).
La presenza di questi termini di origine araba che rimandano a funzioni amministrative, giuridiche o di polizia indica chiaramente che la città continuava a vivere sotto gli Svevi e gli Angioini come città islamica, autogovernandosi secondo le leggi islamiche. In effetti, sia Federico II che gli angioini avevano lasciato la città come un’isola musulmana circondata da un mondo cristiano spesso ostile, e non avevano cercato di convertire con la forza i lucerini alla fede cristiana, per motivazioni di ordine economico-militare. Agli Svevi servivano in tempo di pace come agricoltori e artigiani e in tempo di guerra come riserva di guerrieri pronti a seguirlo e a sacrificarsi per lui. Per gli Angioini, convertirli significava privare le loro casse, spesso vuote, di entrate provenienti dalla loro condizione di servi e dalle loro attività agricole e commerciali: essendo servi del fisco essi e i loro beni apartenevano al re, diventando cristiani diventavano liberi. Sia Carlo I che Carlo II avevano mantenuto Lucera musulmana fino a quando la loro eliminazione non fosse apparsa al sovrano angioino utile e necessaria.
Prima della deportazione dei Musulmani le terre intorno a Lucera erano povere e incolte, scarsamente abitate a causa delle frequenti guerre e razzie e la pericolosa presenza della malaria. Grazie alla loro abilità nel dissodare la terra e nel renderla fertile, come avevano fatto in Andalusia, Lucera diventò il granaio di Napoli. Il suo grano era il migliore sulla piazza, ed era servito spesso a rifornire l’esercito dell’Angioino durante le sue imprese contro la Sicilia, e a sfamare Napoli e le altre città durante le carestie. Non a caso, quando Carlo II decise di sopprimere la Lucera musulmana aspettò che la mietitura fosse completata e che il grano fosse depositato nei magazzini, e la sua preoccupazione fu soprattutto quella di impadronirsi del raccolto prima che fosse venduto o nascosto. Lo stesso discorso vale per l’allevamento del bestiame dalla cui vendita (insieme a quella degli schiavi) avrebbe ricavato grosse somme di denaro, per cui Carlo II aveva insistito perché gli animali non venissero venduti o rubati.
Accanto a queste attività agricole vi erano naturalmente quelle attività necessarie alla vita di una comunità di circa 40 mila abitanti: cioè le maestranze e il commercio. Nei documenti si trovano menzione di
«bardarii, ossia fabbricanti di bardature per animali da tiro, e da sella e da carico, magistri tarsiatores indubbiamente maestri di tarsia, intarsiatori (…) , carpentieri, armaiuoli, fabbricanti di tappeti, cui si potrebbe aggiungere con certezza, benché ne abbiamo notizia solo al tempo angioino, figulinai, mattonai, piattai, calzolai, copertari, sarti, tessitori, tendai, muratori, cestai, fabbri de argento et de ferro» (Egidi: 43).
Di questi vari mestieri, che si trovano in tutte le città della dimensione di Lucera senza bisogno di accertarne la presenza, tre erano in qualche modo tipici della gente di Lucera: la fabbricazione delle armi, soprattutto degli archi «l’arma preferita da’ Saraceni», e la tarsia, «industria fin nel nome schiettamente orientale» (i tarsiatores di Lucera venivano chiamati a lavorare «a Melfi, Canosa e a Napoli, per conto della corte»), ed infine la fabbricazione delle tende, radicata nelle loro tradizioni e di cui erano maestri incontestati, a tal punto che al momento della presa di Lucera nell’agosto 1300, Carlo II dette particolari istruzioni riguardo ai tendai, che non dovevano essere venduti ma portati a Napoli, e fra le cose che l’angioino sequestrò e non permise la vendita sui mercati, ci furono due grandi tende che servivano alla corte.
I musulmani di Lucera praticavano anche il commercio: era naturale che i prodotti agricoli e artigianali fossero venduti altrove, e che Lucera acquistasse quei prodotti necessari alla comunità e che la città non produceva. Perciò i lucerini si spostavano con libertà, soprattutto ai tempi di Federico II, che li esonerò nel 1230 da ogni imposta su ciò che compravano o vendevano in Calabria, Puglia, Principato, Terra di lavoro, e nel territorio di Benevento. L’unico luogo dove era vietato loro recarsi era la Sicilia, e le ragioni di questo divieto sono evidenti: evitare che la nostalgia li riportasse in quelle terre. In questi spostamenti per i loro commerci, i musulmani di Lucera erano stati spesso vittima di atti di violenza e di ruberie da parte dei loro vicini Cristiani, soprattutto negli ultimi anni, prima della loro dispersione.
Che cosa determinò allora Carlo II a compiere l’atto di eliminare i Musulmani di Lucera e di appropriarsi dei loro beni? I motivi religiosi non sembrano sufficienti a spiegare tale atto, o allora non si capisce perché ha aspettato così tanto. È possibile che dopo 40 anni di dominio angioino il sentimento religioso si sia ad un tratto risvegliato e abbia spinto Carlo II ad attuare la “soluzione finale”?
Le ragioni, come dimostra Pietro Egidi, conti alla mano, sono altrove, e sono spiccatamente economiche. Carlo II, da quando salì al trono, era sempre stato coperto di debiti: primo fra tutti il prestito per il suo riscatto, poi ingenti somme per finanziare la guerra contro la Sicilia, una guerra che gli aveva svuotato più volte le casse, e che ingoiò come un pozzo senza fondo il denaro preso in prestito dal Papa, dalle città toscane, dai banchieri come i Bardi… senza risultato. Nel 1300 la situazione era diventata insostenibile, ma la vittoria sulla Sicilia sembrava così vicina, bastava trovare i fondi. Il Papa però aveva chiuso il rubinetto, le città toscane, i Bardi si rifiutavano di dare altri soldi. L’Angioino intravide l’unica soluzione: quella di prendere Lucera: agli occhi del Papa e del mondo Cristiano avrebbe compiuto un atto degno di lode, e la vendita dei Musulmani e dei loro beni avrebbe riempito le sue casse. Non è un caso che la data scelta sia quella di metà agosto, perché in questo modo nel bottino ci sarebbe stato anche il raccolto del grano già pronto e immagazzinato. Però per riuscire nell’impresa i Musulmani di Lucera non dovevano aver sentore di ciò che li attendeva, dovevano essere presi alla sprovvista, per evitare le fughe, e per non lasciar loro il tempo di organizzarsi e di mobilitarsi per resistere fino all’utimo respiro, non avendo più nulla da perdere.
Il compito fu affidato a Giovanni Pipino, uomo di fiducia del re, astuto e senza scrupoli. Per non destare sospetti i suoi uomini entrarono nella città in un numero ridotto, come per un’ispezione di routine. Una volta preso il controllo della città, arrestati i maggiorenti, cominciò l’operazione vera e propria. Pipino si impossessò della città senza nessuna resistenza. Ma ciò che premeva al re era l’appropriazione di tutto ciò che i Musulmani possedevano, oltre il beneficio di venderli come schiavi. Perciò i suoi controllori ed ispettori cominciarono subito l’inventario di tutti i beni, mobili e immobili, e il sequestro di tutta la popolazione per mandarla a piccoli gruppi nelle varie città, dove furono venduti al più offerente. Durante gli spostamenti questi miserabili gruppi furono, inoltre, attaccati lungo le strade e depredati delle poche cose che gli erano rimaste e, talvolta, uccisi. Di più, la sete di guadagno spinse il re a far accompagnare alcuni di loro dai suoi sbirri alle case abbandonate per farsi indicare i nascondigli dove erano stati depositati quantitativi di grano ed oggetti preziosi.
In questo modo drammatico ebbe fine la presenza degli ultimi Musulmani sul suolo italiano. La città prese per poco tempo il nome di “Santa Maria” ma fu subito dimenticato e anche nei documenti ufficiali si continuò ad usare il nome di Lucera. Le famiglie che Carlo II attirò a Lucera con varie promesse e sovvenzioni per ripopolare la città, dopo poco tempo l’abbandonarono: la città si spopolò, le terre rimasero incolte e tornò la malaria. Lucera non visse più quel momento di prosperità quasi orientale, ed anche il ricordo dei Musulmani di Lucera si è sbiadito, fino a scomparire.
Senza questo lavoro di Pietro Egidi la storia di Lucera musulmana sarebbe rimasta ignota al grande pubblico. La nostra traduzione rientra in questo sforzo di riportare alla memoria vicende e drammi di uomini e donne sacrificati alla “ragion di Stato”, e di mettere a disposizione del lettore arabo un pezzo della sua storia che non conosce e di cui non sospetta neanche l’esistenza. È vero che rispetto alla grande Storia dei Musulmani in Sicilia, ed in Spagna, la storia dei Musulmani di Lucera appare una “piccola storia”. Ma nelle piccole storie si nascondono spesso grandi lezioni, e si correggono errori e pregiudizi. L’immagine del Saraceno predone, assetato di sangue, barbaro è chiaramente smentita in questo saggio di Pietro Egidi. Egli gli rende giustizia, e li mostra come gente pacifica, dedita al lavoro della terra, ai loro mestieri e ai loro commerci. Durante gli ottant’anni della loro presenza Lucera ha vissuto probabilmente il suo momento di splendore.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Riferimenti bibliografici
AMARI, Michele, Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze, Felice Le Monnier, 1854. Traduzione araba a cura Moheb Saad Ibrahim, تاريخ مسلمي صقليّة , Le Monnier, Firenze, 2003.
EGIDI, Pietro, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, 1912.
Traduzione araba di Ahmed Somai, مستوطنة لوشيرة الإسلامية وسقوطها 1220-1330 , Prefazione di Antonino Pellitteri, Dar al Madar al Islami, Beirut, 2019.
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Ahmed Somai, insegna lingua e letteratura italiana moderna e contemporanea alla Facoltà di Lettere Arti & Umanità – la Manouba (Tunisi). È co-autore di tre manuali per l’insegnamento della lingua italiana in Tunisia (1995-1997). Autore di una Bibliografia italiana sulla Tunisia (ed.Finzi), ha curato per la collana “I Classici” i volumi: G. Verga, Vita dei campi; L. Capuana, Il marchese di Roccaverdina. Dalla metà degli anni ’80 è impegnato in una costante attività di traduzione in arabo di opere e autori italiani: I. Calvino, G. Bonaviri, N. Ammaniti, U. Eco. Ha curato ultimamente l’Antologia di Poeti Tunisini tradotti in italiano.
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