di Virginia Lima
L’armi canto e l’eroe che primo da terra Troiana venne, fuggiasco per fato, sugl’itali lidi lavini. Spinto da forze divine, per terre e per mari a lungo fu tormentato: per l’ira testarda dell’aspra Giunone; molto soffrì pure in guerra purché la città elevasse, pur d’introdurre gli déi nel Lazio: da ciò la latina stirpe, i padri albani, le mura di Roma gloriosa (Eneide, I: 1-7).Con queste parole il poeta Virgilio riassume l’argomento della sua Eneide: la fuga di un piccolo gruppo di Troiani guidato da Enea verso una nuova terra e verso un nuovo futuro, un futuro destinato a segnare per sempre la storia dell’Italia e dell’Europa intera. La causa della fuga improvvisa dell’eroe e dei suoi compagni di sventura è spiegata nel secondo libro, quando lo stesso protagonista racconta di
«come i Greci han distrutto la forza Troiana ed il regno degno di pianto» (Eneide, II: 4-6).
Enea è, dunque, un profugo, un fuggiasco che abbandona la città natale martoriata dalle fiamme e dalla violenza degli Achei per salvare la propria vita e quella della sua famiglia. Dopo varie peripezie, narra Virgilio, giunge a Cartagine dove la regina Didone, emigrata a sua volta da Tiro, accoglie gli stanchi migranti. Qui, il troiano visita il tempio di Giunone all’interno del quale è raffigurata la distruzione della sua città. Enea si commuove e afferma:
«sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt» (Eneide, I: 462).
Le lacrime delle cose, o meglio le lacrime provocate dalla vista di oggetti, altro non sono che la sofferenza e l’ineluttabilità della storia. Sono quelle stesse lacrime che suscita la visione dei relitti, usati per la traversata dei migranti, abbandonati in mare o nelle spiagge; sono le lacrime che emanano i tanti oggetti quotidiani, pezzi di vita spezzata, che i migranti lasciano per mare e che a volte riaffiorano sulle nostre coste come mostra egregiamente il film del 2011 di Emanuele Crialese Terraferma.
Sono tanti gli Enea contemporanei che fuggono un mondo, il loro mondo alla ricerca della felicità o solo di una vita dignitosa. C’è chi fugge da un Paese in guerra, chi dalla fame, chi dall’obbligo del servizio militare, chi più semplicemente lascia il Sud dell’Italia, la cui industrializzazione è rimasta, secondo il rapporto Svimez del 2015 agli inizi degli anni Settanta, per il Nord del Paese. Come il protagonista virgiliano anche gli esuli di oggi tentano un viaggio fisico e interiore costituito spesso da più tappe; tentano il più delle volte di affermare la propria dignità attraverso i simboli della propria appartenenza minacciata sempre di più dall’odio, dalla violenza e dal pregiudizio.
Per tali motivi l’Eneide non è solo il poema nazionalista del mondo romano, ma è riconoscibile come poema fondante l’Europa o meglio il modello sociale, prima che modello economico, che l’Unione Europea vorrebbe o, meglio, dovrebbe incarnare. Il messaggio europeistico venne compreso da una personalità eccellente come quella di T. S. Eliot, il quale in occasione della conferenza del 1944 alla Virgil Society sostenne che Virgilio è il «nostro classico, il classico di tutta l’Europa». L’Eneide come poema universale, come classico, dunque, che pur esaltando i principi guida e l’identità di un popolo antico, inconsapevolmente già nel I sec. a. C., gettava le fondamenta per la futura comunità europea oltre che per la nuova società augustea. In effetti, nel Preambolo del progetto della Carta dei diritti si legge: «i popoli europei nel creare tra loro un’unione sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni» (http://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf). Con la ratificazione di tale Carta gli Stati membri si impegnano cioè a sostenere, sviluppare e difendere i valori fondanti la comunità: dignità umana, libertà, giustizia, uguaglianza. Gli stessi valori che, in parte, sebbene in un contesto storico assai differente da quello contemporaneo, Virgilio ha individuato e auspicato per la propria società.
La storia di Enea è quella di tanti uomini che come Enea hanno visto morire una moglie nella brutalità della guerra, che come Enea hanno perso un padre durante il viaggio per mare o per terra. È la storia di cui la cronaca quotidiana s’incarica di informarci spesso attraverso luoghi comuni, numeri e statistiche, ma per fortuna anche attraverso la solidarietà di parte degli italiani che, nonostante le retoriche razziste dei Salvini o dei Maroni di turno, offrono tempo e spazio alla accoglienza. Questi uomini, queste donne e questi bambini percorrono spesso la stessa rotta che migliaia di anni fa percorse l’eroe troiano. Come quest’ultimo anche i profughi di oggi vengono percepiti come una minaccia, ovvero come hostis, ma a differenza degli esuli contemporanei Enea nel corso della storia viene accolto, ad esempio presso la corte di Didone e di Latino, come hospes, ovvero come ospite di riguardo. Si tratta non a caso di due termini che, secondo lo studio di Benveniste, derivano dalla stessa radice: hostis prima di indicare il significato di rivale-nemico designava, infatti, l’ospite, ovvero il membro di un clan che in un rapporto egualitario intrattiene rapporti diplomatici con altri clan o con altre famiglie. Solo con la trasformazione di Roma in civitas, cioè in una società più complessa, spiega lo studioso, il vocabolo passa a indicare il significato di nemico, invasore. Gli esuli, i profughi di oggi non godono della duplice percezione di hostis e hospes, anzi spesso rimangono intrappolati in quel marchio di clandestino, extracomunitario o peggio ancora invasore e terrorista a cui alcune forze politiche, e non solo, si aggrappano per giustificare l’impossibilità all’accoglienza, come dimostra il manifesto elettorale di qualche anno fa proposto dalla Lega che paragona gli italiani agli indiani d’America e i migranti ai colonizzatori europei. In effetti, al momento del suo arrivo nel Lazio, Enea e il suo gruppo sono sommersi da ciò che oggi chiameremmo odio xenofobo da parte del latino Turno, il quale accusa i Troiani di voler rubare le donne – un po’ come oggi si accusano gli stranieri di voler solo rubare agli onesti cittadini e di voler violentare le donne italiane – tanto che la rivalità sfocia in una vera e propria guerra. Nella lotta che vede contrapposti Enea e Turno è il primo ad ottenere la vittoria e così si compie il destino: Enea pone a Roma i Penati e da tale gesto si realizzerà la fondazione di Roma e il suo lungo e glorioso cammino verso l’affermazione di capitale dell’Impero. Il poema innanzitutto del popolo romano che, ruota, tuttavia, intorno ad un non Romano, un non Latino, un extracomunitario, da cui tuttavia avrà origine Roma, la dinastia Giulia e il successo augusteo intelligentemente esaltato dal poeta.
È nella potenza della classicità già riconosciuta da Eliot che si riscontra l’universalità di un messaggio etico e l’affermazione di comportamenti umani che toccano un tema critico come quello legato all’immigrazione. Infatti, nei dodici libri virgiliani si assiste, ricorda Maurizio Bettini, alla presentazione di due modelli di immigrazione ancora oggi fondanti le società: da un lato la totale negazione del proprio passato funzionale ad un’assimilazione forzata nella società ospitante e, dall’altro, il testardo tentativo di ricostituire il proprio mondo mediante simboli religiosi, linguistici, alimentari e paesaggistici. Tali modelli sono visibili agli occhi del lettore contemporaneo nel terzo libro, quando cioè l’eroe sbarcando in Epiro si imbatte inaspettatamente in Andromaca, nel frattempo divenuta sposa del fratello di Ettore, Eleno. Qui l’eroe si trova immerso in un calco della grande Troia, in una riproposizione della città ubicata sui Dardanelli costruita ad hoc da un gruppo di esuli fuggiti da Ilio e stanziati appunto nell’Epiro (Bettini 2000: 223). Così, i fiumi Simoenta e Xanto, la porta di Scea, perfino la tomba di Ettore sulla quale Andromaca è intenta a celebrare i sacrifici in occasione dell’anniversario di morte del marito, richiamano i luoghi troiani e la costante volontà di vivere nel passato:
«lontano dalla propria patria, lontano cioè dalla terra e dalla città che lo identifica in un preciso sistema di riferimento, l’esule tenta di ristabilire la propria appartenenza attraverso le tromperies dell’immagine somigliante o dell’oggetto che proviene dalla sua terra» (Bettini 2000: 235.).
Gli esuli guidati da Eleno hanno, quindi, riproposto l’immagine di Troia perduta attraverso una serie di effigies con le quali da un lato alleviare il senso nostalgico per la patria ormai distrutta e dall’altro ristabilire il vincolo sacro della fedeltà alla propria origine. Anche Enea nell’arco dei suoi errores cerca più volte di fondare una nuova Troia, ma tutti i tentativi messi in atto dall’eroe si rivelavano vani in quanto il destino che gli déi gli hanno riservato è ben altro. Lungi, infatti, dal volere creare «un pezzo del passato vivo, abitato da gente che viene dal passato, e soprattutto dai fantasmi di coloro che nel passato si erano o (sembravano?) persi» (Bettini 2000: 223), gli dèi non mirano alla fondazione di una parva Troia, cioè alla ripresentazione di una città, definita da Bettini, in deterioribus, ma alla formazione di una nuova città, di una nuova discendenza, di una nuova lingua, in una parola, di una nuova cultura. Ed è proprio per realizzare l’impresa divina che l’eroe virgiliano utilizza i Penati mediante i quali affermare la propria identità.
Sebbene siano trascorsi secoli da quando il poeta augusteo ha elaborato la vicenda narrata, i processi metaforici e metonimici non sono mutati: moschee, centri di culto in genere, centri di aggregazione sociale e culturale, sono tutte strutture concrete attraverso le quali veicolare tanto una memoria individuale quanto una collettiva come dimostrano i vari quartieri cinesi o italiani sparsi per le città del mondo. Ma, prima di potere fondare nuove comunità, nuovi modelli di interazione, è necessario giungere sani e salvi, seppur sopraffatti dal dolore e dalla fatica, nella terra in cui si cerca ospitalità e nuove opportunità. E allora sono tanti Enea quelli che su zattere, non poi così moderne, solcano il Mediterraneo, sono tanti Enea quelli che hanno lasciato l’Italia per gli Stati Uniti, sono tanti Enea quei migranti che negli anni Novanta hanno raggiunto l’Italia dai Balcani, sono tanti Enea, ci ricorda la cronaca di quest’estate, anche quei ragazzi che, spesso invano, cercano di varcare il confine franco-britannico attraverso l’euro-tunnel di Calais.
L’insegnamento trasmessoci da Virgilio e incarnato dall’eroe troiano consiste, dunque, in un messaggio umanitario, un appello di pace e di solidarietà. In effetti, Enea non appare come i tipici eroi omerici, non è un uomo incline alla violenza e all’egoismo, ma al contrario ricerca una pace non solo interiore e, come un militare, accetta solo per senso del dovere la necessità della guerra. Come un personaggio verghiano, egli in un certo senso è vittima di un destino che lo conduce continuamente verso prove difficili per superare le quali deve sacrificare se stesso e i propri desideri di quiete:
«Non torturare, perciò, con lamenti sia me che te stessa. Non di mia volontà me ne vado in Italia» (Eneide, IV: 360-361)
dice all’affranta Didone per giustificare la propria partenza all’insegna dei piani celesti che mal si adattano ai desideri individuali dell’Enea uomo. Un uomo come tanti, che sembra non avere ha scelta, in preda alla sofferenza e alla nostalgia, un uomo che se avesse potuto decidere liberamente non avrebbe abbandonato né Troia prima né Cartagine successivamente:
«Se mi fosse concesso dai fati di condurre la vita come vorrei e disporre le cose secondo ciò che mi piace, ora sarei a Troia tra i cari resti dei miei, alta ancor sorgerebbe la rocca di Priamo: ai vinti io, di mia mano, avrei levato una Pergamo nuova» (Eneide, IV: 340-345).
L’umanità di Enea non si smentisce neanche alla fine del poema quando, inaspettatamente, l’eroe va contro il proprio ideale di pace e, in preda al desiderio di vendicare la morte dell’amico Pallante, uccide Turno, il quale invano invoca pietà:
«sei tu vincitore. Gli Ausoni m’han visto tendere, vinto, le mani. Lavinia sarà la tua sposa. Non inasprir la vendetta!» (Eneide, XII: 936-938).
Dunque, Enea, un profugo, un hostis, un hospes, un eroe, un uomo che in quanto tale non è immune dalla malvagità e dalla sete di vendetta che lo conduce ad uccidere un rivale inerme e sconfitto, ma anche un fondatore che ha dato le origini ad un vero e proprio impero e che ha consentito la fusione tra la cultura troiana e quella italica. E allora, è proprio un poema risalente al I sec. a.C. a ricordare a tutti noi, individui e collettività, il sacrificio, l’impresa e l’umanità di quel profugus di guerra che, come tanti profughi oggi, fu costretto ad abbandonare la propria terra distrutta e data alle fiamme. Nello scorrere delle generazioni egli è diventato il simbolo di una eterna speranza, spesso infranta tra le onde di quello stesso Mediterraneo solcato secoli fa da un gruppo di esuli troiani, i quali, tuttavia, a differenza dei migranti contemporanei, non hanno avuto bisogno di affidarsi a cinici trafficanti.
Ecco, dunque, al di là di facili buonismi e di ancor più facili razzismi veicolati dalle più svariate formazioni politiche, dalla lezione ereditata da questa straordinaria storia un augurio possibile: come Enea ha portato sulle proprie spalle il vecchio padre Anchise e il piccolo figlio Ascanio, simboli rispettivamente del passato e del futuro, anche l’Europa tutta sostenga sulle proprie spalle le speranze vecchie e nuove non solo dei cittadini europei ma anche dei profughi, nella memoria di quell’ideale di pace, di solidarietà e di condivisione di valori su cui si è pensato di ricostruire il Continente uscito dalla barbarie e dagli orrori commessi durante la Seconda Guerra Mondiale. Chissà poi se tra i tanti migranti che raggiungono oggi faticosamente le nostre coste, prima tappa dell’agognata speranza, non ci sia un nuovo Enea destinato a grandi imprese!
Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
Riferimenti bibliografici
E. Benveniste, Il vocabolario della istituzioni indoeuropee. Economia, parentela, società, I, ed. italiana a cura di Mariantonia Liborio, Einaudi, Torino, 1976: 64-75.
M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Einaudi, Torino 2000.
T. S. Eliot, Che cos’è un classico, in Sulla Poesia e sui Poeti, Bompiani Milano, 1993.
P. Virgilio Marone, L’Eneide, versione in esametri ritmici a cura di Giuseppe Vergara, F.lli Conte Editori, Napoli 1985.
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Virginia Lima, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e specializzata in Antropologia culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha orientato parte dei suoi interessi scientifici verso l’antropologia del mondo antico, approfondendo la funzione culturale del prodigium inteso non solo come momentanea rottura dell’ordine cosmico ma anche come strumento della memoria culturale del popolo romano.
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