di Stefano Montes
Il libro di Khaled Khalifa, Morire è un mestiere difficile, mi è capitato tra le mani per caso mentre spolveravo, qui e lì, per casa. Non avevo niente di meglio da fare? Spolveravo forse più per rilassarmi che per vera e propria voglia di pulire o per necessario bisogno di riassetto casalingo. Spolverare mi aiuta a pensare, in ogni caso, comunque sia! Prima di finire tra le mie mani casualmente, il testo di Khalifa si trovava, in alto, nella scaffalatura di una stanza di casa in cui ripongo di solito tutti quei libri che accumulo, ormai da anni, sulla figura del padre. Ebbene sì, lo ammetto, è un’ossessione, per me, la ricerca del padre tramite i ricordi, così come lo è quella relativa all’iniziare e finire. E a ragione!
Mio padre è morto, infatti, quando avevo appena dodici anni. La sua vita è finita lì, interrotta bruscamente da una brutta malattia. E io, da sempre, attraverso la letteratura – oltre che con il ricorso a testi di varia natura saggistica – cerco di capire come avrebbe potuto essere il rapporto con mio padre se lui avesse continuato a vivere, se le cose fossero andate diversamente. Che ne sarebbe stato? Quali altre strade avrebbe intrapreso il mio corso di vita, se fosse stato accompagnato da mio padre? Cosa vuol dire essere padre dopotutto? Quale rapporto, nello specifico, ha un figlio con il proprio padre? Non si tratta di parlarne in generale o in base a principi teorici soltanto, ma di vedere in che modo una relazione particolare, tra un padre e un figlio, si sarebbe potuta instaurare. Ciò può avvenire soltanto in potenza, naturalmente, nel mio caso, visto che mio padre è morto e la sua vita è terminata: ciò può avvenire, comunque, attraverso i ricordi della sua figura e della nostra relazione di allora. Resta il fatto che io stesso sono divenuto padre nel tempo, ho una madre, amici e tanti altri ruoli sociali nella vita che aiutano a capire il mio passato, oltre che a tessere – e ritessere – relazioni possibili tra il presente e ciò che è stato, tra la mia identità di allora e la mia identità di adesso. È utile ribadire qui, per inciso, il principio che le relazioni instaurate con i nostri simili sono strettamente intrecciate con il senso che attribuiamo all’identità e alla sua – non secondaria – attuazione pragmatica nelle varie situazioni in cui incappiamo. Vale per me, in un contesto specifico legato all’esplorazione del ricordo, ma vale inoltre, più in generale, per qualsiasi altro individuo e tema preso in considerazione da uno studioso. Le relazioni contano, in ogni campo, soprattutto se si parla di identità, nozione ingannevole! Ed è bene precisare che «la relazione, anziché essere vista solo come conseguenza dell’identità [va] invece considerata come costitutiva di quest’ultima» (Donati 2013: 58). Non è irrilevante qui, tra le altre cose, notare il fatto che io sia antropologo, oltre che figlio e padre, e tenda inevitabilmente a coniugare le varie prospettive emananti dai miei diversi ruoli.
Agli occhi di alcuni, un antropologo è un ricercatore che studia le culture lontane e l’organizzazione sociale dei gruppi, ma non sempre la vita degli individui in particolare. Niente di più errato! Il rimpatrio dell’antropologia è ormai avvenuto, si è consolidato nel tempo, ha persino preso la felice piega dell’analisi degli spazi – e dei soggetti che riflettono negli spazi – della modernità e surmodernità (Augé 1992; Augé 1993). Gli antropologi hanno imparato, da tanto, a concentrarsi anche sull’individuo e sulla sua vita, in relazione agli schemi della cultura, all’interno della quale egli si inserisce in quanto membro produttore di significato e non unicamente come elemento trasparente o secondario di un insieme più vasto (cfr. Biehl 2055; Heiss 2015). Secondo Geertz, poi, l’essere umano è «un animale impigliato nelle reti di significati che [lui] stesso [ha] tessuto» (Geertz 1987: 11). In questa prospettiva, la cultura non diviene un oggetto da prendere in conto dall’esterno – elemento separato dall’individuo inteso come soggetto passivo – ma il prodotto stesso dell’essere umano che si trova attivamente avviluppato al suo interno, fin troppo preso dalla sua prossimità con il mondo per essere in grado di avere idee univoche o associate ad astrazioni universalizzanti. Se l’essere umano è impigliato nelle reti di significati, in una prossimità che risulta essere abbagliante, allora c’è una ragione di più per meglio rimettere a fuoco, strizzando gli occhi, su queste reti – che si impongono all’individuo nella sua adiacenza con il mondo – e trasformare l’antropologia in ricerca esistenziale e strumento di conoscenza personale. Nella stessa direzione, benché in una tonalità più riflessiva che mi è consona, ecco quanto dice Piette: «l’antropologia è diventata una ricerca esistenziale, sia personale sia scientifica, di informazioni sulle credenze degli altri, come pure un esercizio di conoscenza di se stessi che è al contempo una prospettiva globale sull’essere umano» (Piette 2005: 9).
Io ho deciso di parlare in prima persona, in quanto soggetto, e non mi nascondo dietro – sotto copertura di – una oggettività simulata o di principio anche se il mio scopo non è quello di fondare un tipo di soggettività originaria o precostituita, ma di «farne sorgere dall’esterno i limiti […] non tanto per afferrarne il fondamento e la giustificazione, ma per ritrovare lo spazio dove essa si dispiega, il vuoto che le serve da luogo, la distanza dalla quale essa si costituisce e dove sfuggono, non appena osservate, le sue certezze immediate» (Foucault 1971: 114). Lo spazio epistemologico dove la soggettività si situa maggiormente, dal mio punto di vista, è l’esistenza stessa nel suo complesso insieme culturale e individuale. Non è fuor di luogo sottolineare qui il fatto che, in passato, lo stesso Malinowski, da antropologo funzionalista, ha accennato al rapporto istituito tra cultura e individuo affermando che si tratta proprio di «studiare l’uomo e ciò che lo riguarda più intimamente, cioè la presa che ha su di lui la vita» (Malinowski 2004: 33-34).
Questo mio saggio, per quanto personale, intimamente vissuto, si inserisce in questo quadro teorico che trova corrispondenza in una antropologia dell’esistenza (cfr. Jackson 2005; Jackson, Piette 2015). Per chiarire, si può dire che l’antropologia dell’esistenza mette l’accento sul vivere, anche ordinario, e su una nozione di identità più processuale, legata alla vita dell’individuo stesso visto in primo piano e non come sfondo sbiadito della cultura. Per quanto riguarda la più classica nozione di cultura, significa, in quest’ottica, ridefinirla abbandonando l’idea di totalità coerente e compatta, abbracciando invece l’ipotesi di una cultura in quanto «insieme poroso di intersezioni» che consente un certo spazio di manovra all’individuo e alla sua vita vissuta (Rosaldo 2001: 61). Più particolarmente, per quanto mi riguarda, io cerco di mettere l’accento, nei miei scritti etnografici, anche sui flussi di coscienza dell’individuo e su una articolazione del pensiero più fluido, meno eterodiretto. Al pari di altri elementi costitutivi in antropologia, quali l’identità e le relazioni sociali, io credo che sia importante esplorare il disordine in tutti i suoi aspetti, ivi compreso quello relativo al pensare ordinario e caotico definito, da alcuni, in letteratura, come stream of consciousness. Questa è un’etichetta a cui faccio riferimento – presa in prestito da una corrente letteraria – giusto per dare un’idea al lettore, ma non vuol certo dire che intendo imitare James Joyce o Virginia Woolf.
Ciò che intendo fare – che già faccio e fatto in altri miei contributi – è dare spazio al pensiero meno ordinato e al vissuto più prossimo. Credo che sia utile rendere, in chiave antropologica, questo effetto di immediatezza da trasporre e di prossimità da trasmettere – persino mettendo in scena i ricordi, il passato e alcuni luoghi che lo hanno cristallizzato – senza necessariamente pensare nei termini di una oggettivazione preliminare e già costituita che smussi gli – ugualmente importanti – elementi soggettivi. Non si tratta di favorire un certo solipsismo o una chiusura al sociale e culturale, ma, al contrario, di intraprendere una «battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio» (Wittgenstein 1967: 66) che permetta di meglio comprendere la cultura come forma di comunicazione e conoscenza con diverse inclinazioni (spesso manipolatorie o poco visibili di primo acchito). A questo riguardo, un punto va senz’altro ribadito: siamo nel mondo, e questa prossimità «ci impedisce di coglierci come puro spirito separato dalle cose o di definirle come puri oggetti senza alcun attributo umano (Merleau-Ponty 2002: 39). Questa prospettiva è un ottimo punto di partenza antropologica, non soltanto filosofica. Persino nell’introspezione più profonda – apparentemente sganciata dal reale – non possiamo fare a meno di risiedere nella prossimità con il mondo, con gli oggetti e con gli altri esseri umani e non-umani. Che il nostro ego, in quanto ‘centro di osservazione ed esperire’, sia rivolto verso l’esterno o l’interno, poco cambia. Siamo esseri incarnati (con un corpo di cui non vogliamo e non possiamo sbarazzarci) e siamo pure esseri forniti di strumenti linguistici di cui ci avvaliamo costantemente per comunicare e conoscere (con gli altri ma anche con noi stessi in modalità endofasica).
Se parlo in prima persona qui, quindi, è anche perché non penso di essere una fotocamera che prende le distanze e registra il reale eliminando ciò che sta dietro, di lato o al suo interno (per usare la metafora spaziale). Penso di essere un soggetto da interrogare – che entra in relazione con gli altri soggetti etnografandoli – anche nel disordine del reale. Questo ‘intento decentrante’ che mira a mettere in valore il disordine vale anche per quanto riguarda i ricordi e la loro emergenza nell’individuo. I ricordi si presentano spesso, se non forse sempre, in modo disordinato. I ricordi consentono, a volte, di recuperare il passato ma è anche vero che il presente – ribadiamolo – interviene in questo processo modificandoli e trasformandoli nel tempo. Inoltre, i ricordi raramente emergono in quanto immagine isolata, separata: si rimandano l’un l’altro, sintatticamente e paradigmaticamente, associandosi anche ad alcuni luoghi che li ancorano e li tramandano in uno strano e affascinante coacervo. Un altro elemento interessante di cui tenere conto è la tendenza dei ricordi a rivelarsi in quanto immagine e non tanto come forma precipua di scrittura: si presentano sotto forma di immagini sintetiche che ne veicolano i più ampi valori e i processi in tenuta con la dimensione emotiva e affettiva. «Perché di rado ci accontentiamo di lasciar che le immagini arrivino a noi senza cercare […] di datarle, collocarle, collegarle, insomma d’imbastirne un racconto» (Augé 2000: 34). Non ultimo, dunque, è importante il fatto che i ricordi costituiscono materiale per la costruzione di narrazioni più ampie del ricordo stesso visto in solitudine, singolarmente: ricordi e narrazione sono un tutt’uno inscindibile a mio parere e vanno indagati insieme.
Infine, pur rimandando al mondo e ai suoi luoghi (o alle persone e agli spazi a esse associate), i ricordi sono una via privilegiata per la manifestazione dell’interiorità e dell’emotività degli individui. Alla luce di tutto ciò, non sembra strano quanto afferma Feld – legando ricordi, storie e soggettività – che «cucire insieme delle storie è al tempo stesso un’attività generatrice di senso, che denota una chiara consapevolezza analitica della continuità e delle discontinuità nei discorsi pubblici e privati. Ascoltare con attenzione le storie significa prendere sul serio la soggettività locale; ripeterle, porta a concentrarsi sul ricordo» (Feld 2021: 14). Quale che sia il rilievo assunto da ciascuno di questi elementi di cui parlo, l’immaginazione, in casi di assenza o di vuoto mnestico da parte del soggetto, interviene aiutando a riempire i vuoti esistenziali e a recuperare i ricordi sfuggenti e labili legati al passato, nonché a dare un senso alle figure sociali che tessono le relazioni di gruppi e culture nella loro interezza. L’immaginazione non è, come comunemente si crede, un volo pindarico nella fantasia stralunata che niente ha a che vedere con la realtà esterna e interna dell’individuo. L’immaginazione, essendo radicata culturalmente, non è altro che un modo – implicito o esplicito – per interrogarsi sul «nostro modo di aprire o di chiudere, il nostro modo di costruire, intenzionalmente o meno, orizzonti che determinano ciò che esperiamo e il modo in cui lo interpretiamo» (Crapanzano 2007: 11). Volgere lo sguardo al passato in maniera continuata, anche tramite l’immaginazione, significa tentare di gettare uno sguardo d’insieme sulla propria identità trasformando «un passato fatto di rotture e discontinuità in un tracciato che collega ciò che era slegato» (Candau 2002: 91).
È probabile, quindi, che, andando alla ricerca di mio padre attraverso i ricordi, io vada pure alla ricerca di una riorganizzazione della mia stessa identità che comporta, soprattutto, una accentuazione delle forme di continuità. Quale che sia la giusta ipotesi dietro la mia ricerca (ricerca di continuità da dare alla mia vita in società o un più semplice interrogarsi sulle discontinuità sociali al fine di meglio comprenderle), resta il fatto che, tessendo immagine su immagine, mi tuffo nei ricordi pensando in modo titubante – non espressamente o unicamente nostalgico – al mio passato. Quel che è certo è che vivo bene nel presente, mi interesso al passato per meglio conoscerlo, per meglio capire da dove vengo, ma non sono incline a rivederlo con la nostalgia di chi pensa a un triste tempo perduto, non più recuperabile. Insomma, il mio presente mi piace, mentre il passato mi interroga, benché in modo sofferto ma non sicuramente triste o disperato. Recupero ciò che posso, se posso, senza afflizioni. Il passato mi suscita sentimenti di tenerezza per un padre che ho conosciuto ma non tanto quanto avrei voluto. La questione più generale è: cosa posso ricordare al meglio di un passato tanto lontano? Cosa dovrei ricordare? Cosa non mi viene invece in mente che avrebbe la sua importanza? Cerco, come posso, di ricomporre frammenti del mio passato, dandogli altresì un ordine, andando indietro nel tempo, ancorandomi sovente ai luoghi associati a mio padre, al suo passaggio e risiedere. Mi aiuto con le immagini: le passo in rassegna. Mi aiuto con i luoghi: ci torno e li rivivo. Me ne servo: da persona comune e da antropologo. Li metto in relazione: con gli strumenti teorici che posseggo, con la mia stessa esperienza. So bene che il ricordo ha bisogno di oblio affinché i colpi del destino siano assorbiti senza lasciare tracce indelebili o troppo sofferte e affinché il presente possa essere gioia di vivere vissuta nel suo sciolto scorrere e discorrere. Come scrive Augé, «bisogna saper dimenticare per gustare il sapore del presente, dell’istante e dell’attesa» (Augé 2000: 11). Ma, nel mio caso, il pericolo di ricordare troppo non esiste perché l’oblio ha sovente la meglio sulla forza del ricordo ormai lontano ed evanescente.
Diversi anni sono trascorsi, dalla morte di mio padre, e ciò non è d’aiuto al processo mnestico! Io vorrei ricordare più che posso, in effetti, ma il tempo trascorso non me lo consente. L’articolazione usualmente instabile tra oblio e ricordo che caratterizza il processo mnestico, nel mio caso pende decisamente in favore della ricerca del ricordo. So bene, inoltre, che il ricordo interrompe quel flusso del vivere che si presenta in genere in divenire – a molti – e al quale io aderisco con piacere deliberato proprio perché sono consapevole del fatto che «non c’è termine da cui si parte, né uno a cui si arriva o si deve arrivare» (Deleuze 1998: 8). Senza imposta partenza o predestinato arrivo, mi sento più libero, più felicemente indisciplinato. Mi sento in sintonia con il mondo inteso nei suoi termini più fluidi. Accetto le trasformazioni in corso senza esitare. Non sono il solo ad agire in questo modo: sono in molti a vivere pensandosi in divenire, in un processo di azione continua. Tutto sta nell’accettarlo, avendone presa coscienza! Le trasformazioni, per quanto silenziose, sono ineludibili, volenti o nolenti, e portano il segno imprescindibile della cultura (Jullien 2010). Ma è anche vero che siamo – ci pensiamo spesso, noi stessi, individualmente e culturalmente – attraversati da soglie temporali e spaziali, teoriche e pratiche.
Il quesito che si pone è, allora, se si deve indugiare nel divenire irruente oppure ricorrere alla memoria del passato che, immancabilmente, lo interrompe e ne smussa l’irruenza della proiezione nel presente. All’articolazione di un equilibrio instabile tra oblio e ricordo, si deve quindi aggiungere questa ulteriore articolazione altrettanto variabile posta – e riproposta – tra divenire nel tempo presente e proiezione indietro nel tempo passato. Io, per quanto mi riguarda, sono consapevole di essere spesso sulla soglia tra le due forme di vita. Io penso al divenire come a uno straripamento che, decentrando, libera pure da quelle costrizioni attraverso le quali la società tende a inquadrarci. Naturalmente, il divenire è parte della cultura, accolto all’interno di schemi di pensiero e comportamento prodotti culturalmente. Il divenire è esso stesso elemento della cultura. Per questa ragione, intendo il divenire una indicazione di massima da seguire che mi consente di mettere l’accento su flussi ed elementi non discontinui. Sicuramente non scrivo «in qualità di guida a cui affidarsi, una guida che mette in ordine i collegamenti esistenti tra le categorie teoriche e il mondo reale, ma nella veste di chi espone punti di impatto, curiosità e incontro» (Stewart 2007: 5). Se è allora vero che il divenire – in senso deleuziano – è il mio principio guida, è anche vero che sono consapevole della forza del rituale la cui tendenza è quella di inquadrare l’individuo all’interno di norme e direttive.
Come tutti, non posso sfuggire integralmente alle norme sociali e al passato che torna alla carica sotto forma di rituali che inquadrano la vita degli individui in società. Non tutto il male vien per nuocere, si potrebbe dire, dal momento che conoscere i propri vincoli è anche un modo per liberarsene o, comunque, per agire con più consapevolezza: «chi pretende di conoscere fuor d’ogni vincolo è cieco ai propri vincoli» (Miceli 1990: 35). L’inquadramento di cui parlo, lungi dall’essere norma sterile, ha i suoi fini socialmente esemplari: l’individuo, che è «inquadrato, sincronicamente o per stadi successivi, in compartimenti diversi, e obbligato a sottomettersi, dal giorno della sua nascita a quello della sua morte, a cerimonie spesso differenti nelle loro forme, ma simili per il loro meccanismo: tutto ciò per poter passare da un compartimento all’altro, al fine di riuscire ad aggregarsi a individui classificati in compartimenti diversi» (Van Gennep 1981: 165).
Io sento, dunque, di stare in bilico tra queste due diverse concezioni del vivere e del pensare. Oscillo tra una cosa e l’altra. Oscillo ben sapendo che anche i riti più formali e regolati, nonostante il costante richiamo all’ordine, contengono elementi di disordine che contribuiscono alla resa performativa dell’evento. Oscillo avendo bene in mente che un elemento interessante, nei riti, risiede nel fatto che anche una regola nota e ben stabilita contiene spazi di libera manovra soggettiva che non entrano in opposizione con la regola stessa. In tutto questo, il caso interviene spingendo in un senso o nell’altro: perché «gran parte della vita sociale accade in modi non pianificati né attesi» (Rosaldo 2001: 147). Il caso interviene richiamando la mia attenzione sulla vita sociale, nei suoi vari aspetti, persino quelli non programmati, non intrisi di puro calcolo. Interviene mettendo l’accento sul pensiero in quanto elemento che prende corpo senza premeditazione, senza diretta intenzione. Interviene, com’è successo oggi, mettendomi in mano Morire è un mestiere difficile di Khalifa, convincendomi sempre più che bisogna «accepter d’introduire l’aléa comme catégorie dans la production des événements. Là encore se fait sentir l’absence d’une théorie permettant de penser les rapports du hasard et de la pensée» (Foucault 2004 : 61). Di suo, il testo di Khalifa è potente benché sia, per tanti aspetti, molto triste. L’incipit precipita il lettore, fin dall’inizio, nel cuore del dramma:
«Due ore prima di morire Abd al-Latif al-Sàlim guardò suo figlio Bulbul dritto negli occhi, come per strappargli una promessa solenne, e con le poche forze che ancora gli restavano gli ricordò il suo desiderio di essere seppellito nel cimitero di Annabiyya, il suo paese natale. Dopo tanto tempo, le sue ossa avrebbero riposato accanto alle ceneri della sorella Layla […]. Considerò quelle poche parole come un ultimo testamento […]. Chiuse gli occhi, estraniandosi dalle persone che lo circondavano, e sprofondò nella solitudine con il sorriso sulle labbra» (Khalifa 2019: 5).
La storia ruota attorno alla figura di Bulbul che, perso il padre, cerca in tutti i modi di portare il suo cadavere ad Aleppo per seppellirlo accanto a quello della sorella e mantenere, così, la promessa fatta. Bulbul deve viaggiare. Deve riuscire ad arrivare sul luogo designato, accompagnato da due familiari. Deve riuscirci ma non è facile. Deve superare, in piena guerra, controlli e frontiere, rischi e imprevisti. Deve farlo perché lo ha promesso al padre in punto di morte. Nonostante il pericolo incombente, il viaggio si trasforma in un’occasione per mettere insieme – in modo corale, tra i due fratelli e la sorella – i pezzi del ricordo ricomposto del padre, nonché il tipo di relazione che, ognuno dei figli, aveva col defunto ancora vivo nei loro pensieri. Il ricordo dei figli, all’interno del testo, incrocia e si sovrappone a un mio ricordo personale, realmente vissuto: è il ricordo che mi ha spinto a comprare il libro di Khalifa. All’epoca in cui ho comprato Morire è un mestiere difficile non conoscevo l’autore. Mi aveva colpito il titolo, mentre lo sfogliavo accuratamente in libreria. Era un testo, quello di Khalifa, che mi impegnava nella bella lettura, tenendomi al suo interno, ma allo stesso tempo mi portava da qualche parte, al suo esterno, soprattutto ancorandomi al titolo. Mi ricordava qualcosa, ma non capivo esattamente cosa. C’era qualcosa che mi frullava per la testa, ma non sapevo bene dove mi avrebbe portato, verso quali fantasmi – assopiti – del passato mi avrebbe spinto. Resistevo forse? Forse sì, senza saperlo! Finché, a un certo punto, mi è venuto in mente un libro e il ricordo, definendosi, ha preso spessore, divenendo immagine chiara e solida nella mia mente: Patrimonio. Una storia vera, di Roth, racconto autobiografico della vita e morte di suo padre. Una scena emergeva nitida: quella in cui, dopo una lotta impari contro un tumore, in fin di vita sul letto dell’ospedale, il padre sembra ancora resistere alla morte prossima:
« – Papà, devo lasciarti andare –. Era privo di sensi da parecchie ore e non mi poteva sentire, ma, scosso, sorpreso e piangente, glielo ripetei più volte, fino a crederci io stesso. Dopodiché, non potei fare altro che seguire la lettiga fino alla stanza dove lo collocarono e sedermi al suo capezzale. Morire è un lavoro e lui era un gran lavoratore. Morire è orribile e mio padre stava morendo. Gli tenni la mano, che almeno sembrava ancora la sua mano; gli carezzai la fronte, che almeno sembrava ancora la sua fronte» (Roth 2007: 184).
I due testi di Khalifa e Roth sono collegati da almeno un elemento: in entrambi i casi, morire è una sorta di lavoro non soltanto per colui il quale muore, ma anche per i familiari che si prendono cura del morente in vita e, persino dopo la sua morte, per esaudirne i desideri e continuare ad averne un ricordo positivo e pacificato. Sembrerebbe, questo, di primo acchito, un paradosso perché la morte è sovente associata a un ‘venir meno delle forze e della vitalità’. In realtà, benché ciò sia in parte vero, se non altro biologicamente, è anche più vero il fatto che il morente ingaggia, a volte, una lotta con la morte affinché la sua vita duri il più a lungo possibile. Non è esattamente il caso del padre di Bulbul in Morire è un mestiere difficile. La lotta viene, però, ingaggiata dai figli al fine di mantenere la promessa fatta al padre di seppellirlo vicino la sorella morta. La promessa è un modo per tenere un legame con i figli in vita e, allo stesso, tempo per avere la certezza di potere essere là dove si vuole, in pace con se stessi. Comunque vadano le cose, nei due testi la morte comporta difficoltà certa. Detto questo, c’è una ragione d’ordine prettamente culturale che rende questo aspetto – la difficoltà del morire – più comprensibile in chiave antropologica.
La morte pone il problema della discontinuità tra il vivere e ciò che rappresenta il trapasso agli occhi della comunità. Viviamo nell’azione quotidiana, persino rutinaria, si potrebbe dire. Ed è indubbio. Ma è anche vero che, più surrettiziamente, viviamo nell’attesa della morte che, ogni giorno, con il passare del tempo, ce la rende più presente, imminente, con una scadenza, invecchiando, sempre meno approssimativa. Viviamo nello scorrere del tempo. Viviamo nella morte che si approssima. Viviamo tutti, senza distinzioni, sin dalla nascita, in questa attesa assurda della morte. L’assurdità della morte ci porta, inevitabilmente, al senso dell’esistenza: le due istanze sono collegate, benché il problema non venga risolto, di per sé, soffermandosi unicamente su questo legame. Jankélevitch, che ha riflettuto a lungo nei suoi studi sulla morte e sul possibile legame con la vita, è deciso a riguardo: «è inutile fare troppe speculazioni, meditare sul senso dell’esistenza in generale o della mia in particolare – perché questo senso non lo troveremo mai» (Jankélévitch 1995: 38). Jankélévitch crede inoltre che il rischio e il pericolo trovino fondamento nella ‘certezza’ della morte e che, questo, costituisca, a sua volta, il fondamento della vulnerabilità dell’essere umano: «L’uomo è fondamentalmente vulnerabile, e la morte può entrare in lui attraverso tutte le giunture del suo edificio corporeo» (Jankélévitch 1995: 35). Che sia questo, mi chiedo in sostanza, in termini di attribuzione di senso, il nesso stabile instaurato tra la vita e la morte? L’essere umano è vulnerabile e la morte ce lo ricorda imponendoci delle scelte. Possiamo, rischiando, sfidare la morte; oppure, evitando il rischio, possiamo accettarla come dato di fatto e vivere – apparentemente tranquilli, dimenticandocene – nella routine.
Resta il fatto che la morte, in quanto soglia, rimane un mistero: nessuno è mai tornato indietro per raccontare la sua esperienza e dare una valida pista di senso alla comprensione della sua presunta essenza. La questione si pone anche in chiave antropologica a partire da alcune domande che fungono da catalizzatori culturali: come porre rimedio a questa snervante attesa non sempre consapevole, comunque soggiacente, continuamente richiamata dalle morti altrui? Cosa significa morire per l’intera collettività e per l’individuo nella sua singolarità di essere purtuttavia sociale? Un modo per addomesticare la morte consiste nell’istanziazione di riti adeguati, culturalmente accettati e orientati. Come scrive Van Gennep, insistendo sulla connessione tra l’agire e l’attesa, determinanti per la definizione del rito e dell’esistenza stessa, «si tratta di agire per poi fermarsi, aspettare e riprendere fiato per poi ricominciare ad agire, ma in modo diverso» (Van Gennep 1981: 166). Si agisce, ci si ferma, si attende e, poi, si ricomincia. Il ricominciamento acquisisce allora un valore importante per l’individuo e la collettività, oltre che per la definizione stessa di rito. Nella scena di morte descritta da Khalifa, all’inizio del suo libro, l’addio non è straziante e il morente riesce a estraniarsi dalle persone che gli stanno intorno con un sorriso pacificato sia per i parenti sia per se stesso. Invece, nella scena descritta da Roth, il padre non è soltanto in fin di vita, è inoltre – benché privo di sensi – ancora attaccato alla vita. Nel caso di Khalifa, il morente si lascia andare abbandonandosi agli ultimi momenti vissuti, fiducioso del fatto che i figli cercheranno di mantenere la promessa; al contrario, nel caso di Roth sia il figlio sia il padre, pur manifestando segni di resistenza alla morte, devono rassegnarsi al sopraggiungere della fine. In entrambi i casi, tuttavia, si fa similmente riferimento al fatto che morire – anche di un soggetto allo stremo delle forze – richiede una certa energia (sia per chi muore sia per chi accudisce il morente o vuole esaudire i suoi ultimi desideri). Più in generale, lo sforzo dei parenti non solo è grande, in sé, in caso di morte della persona cara, ma è anche intriso di elementi contraddittori che sembrano irrisolvibili in prima istanza: i parenti cercano, nel tempo, di mantenere vivo il ricordo della persona scomparsa ma vogliono pure lasciarsi alle spalle il trauma dovuto all’assenza.
In sostanza, la morte, benché sia uno stadio finale e misterioso della vita, è circolo di fitti rimandi sociali – in un caso e nell’altro – che la rendono parte integrante della cultura e degli orientamenti rituali che la caratterizzano. La morte è una soglia per un altrove sconosciuto che richiede un trattamento rituale da parte di familiari e amici del morente. Attraverso il rito, la morte diviene la possibilità stessa del ricominciamento. Di soglie, ce ne sono tante nel corso di una vita. È bene ricordarlo. L’importanza delle soglie viene sottolineata da Van Gennep in un testo fondamentale sui riti di passaggio: «Sono sempre nuove le soglie da valicare: soglie dell’estate o dell’inverno, della stagione o dell’anno, del mese o della notte; soglia della nascita, dell’adolescenza o della maturità; soglia della vecchiaia; soglia della morte e soglia dell’altra vita (per coloro che ci credono)» (Van Gennep 1981: 166). Nonostante la vita sia attraversata da tante soglie, la morte è quella soglia alla quale siamo meno preparati perché ignoriamo cosa ci sia dopo effettivamente. La morte equivale a un non-ritorno, in ogni caso materiale, che abbisogna, per la sua elaborazione (compreso l’elaborazione del lutto), di un possibile ricominciamento che risolva culturalmente la contraddizione – la discontinuità apparente – tra il vivere e morire. Per un credente, quale che sia la sua adesione religiosa, il ricominciamento è più ovvio, meno traumatico: un cattolico, per esempio, sa di dover essere giudicato, una volta morto, affinché gli sia assegnato un luogo di appartenenza nell’eternità, e sa pure che la sua vita ricomincia in altri modi; per un buddista, a sua volta, il ciclo stesso delle reincarnazioni assicura altre forme di vita. Per un ateo, la possibilità del ricominciamento risiede, probabilmente, nel ‘passaggio di consegne’ ai figli o nella continuità della memoria che consente, talvolta, persino un dialogo tra i vivi e i morti. In che modo, più esattamente? In alcuni casi, come è stato sottolineato nella ricerca di Vinciane Despret – incentrata sul modo in cui i morti entrano nella vita dei vivi – i morti continuano ad avere «dei compiti da assolvere, ma loro stessi devono essere l’oggetto di un compimento» (Despret 2017: 16). Più che sbarazzarsene attraverso una elaborazione del lutto che tenderebbe a smussare il peso della memoria e ad attutire il dolore per le persone care defunte, si tratterebbe, secondo Despret, di prolungare la loro presenza in altro modo. Il riferimento teorico di Despret è Latour, il quale parla dei diversi modi di esistenza – caratterizzanti gli esseri umani e non-umani, gli oggetti e i soggetti – cercando di andare oltre le due sole categorie costituite da ciò che è fisico e da ciò che è psichico (Latour 2013). Scrive Despret:
«Se non ci prendiamo cura di loro, i morti muoiono del tutto […] Ci tocca l’onere di offrire loro un ‘plus’ d’esistenza. Questo ‘plus’ si intende certamente nel senso di un supplemento biografico, di un prolungamento della presenza, ma soprattutto nel senso di un’altra esistenza. Il ‘plus d’esistenza’, in altri termini, che è una promozione dell’esistenza del defunto, non sarà né quella del vivente che era, avrà altre qualità, né quella del morto muto e inattivo, totalmente assente, che potrebbe diventare in mancanza di cure o attenzioni. Continua a divenire in altro modo, cioè su un altro piano» (Despret 2017: 12).
Tra gli esempi che Despret cita, nel suo libro, vi è quello del commediografo Patrick Chesnay, il quale, avendo perso il figlio in un incidente, ha continuato a lasciare, dopo la sua morte, dei messaggi telefonici nella sua segreteria e, in seguito, a scrivergli anche delle lettere. Chesnay ha affermato che, grazie a queste lettere, suo figlio avrebbe vissuto ancora, in altro modo (Chesnay 2011). Nel mio caso, rispetto a Chesnay, il senso della relazione viene capovolto: sono io ad aver perso mio padre e a volerlo ‘mantenere’ in vita in altri modi. L’ho perso quando avevo dodici anni. Mio padre – la sua figura nella mia memoria – rappresenta una soglia tra il passato lontano che non ricordo più molto bene e il presente che vivo, fortunatamente, in buon ordine, senza scosse. Vivo bene, ma ho un occhio al passato che continua a interrogarmi. Questa è pure la ragione per cui intendo mettere su carta i miei ricordi: per interrogarmi apertamente sul loro valore e capire che tipo di connessioni si instaurano con la mia vita presente. In questo senso, sono io stesso una soglia oscillante tra una dimensione temporale e l’altra.
Sono una soglia che si avvale della scrittura per andare al fondo della questione auto-etnograficamente, mettendomi io stesso in gioco, in prima persona, rivelandomi. L’auto-etnografia ha stentato, in passato, ad affermarsi perché i suoi oppositori l’hanno considerata una sorta di auto-biografia personale che niente ha a che vedere con le interazioni dialogiche e le reti culturali che fanno solitamente l’oggetto degli studi nella disciplina. In realtà, l’auto-etnografia è un modo per includere nell’analisi e interpretazione anche il soggetto stesso che la compie e, quindi, ha una prospettiva molto più ampia, invece, di analisi e interpretazioni già date, in partenza, come oggettivanti. È in ogni caso utile rivelare la prospettiva del soggetto e il posto da lui occupato nell’analisi: c’è sempre tempo per oggettivare. Può sembrare strano, a questo riguardo, ma persino uno strutturalista quale era Lévi-Strauss – attento analista della struttura in termini di relazioni più oggettive – ha spezzato una lancia in favore dell’investimento soggettivo: «in una scienza in cui l’osservatore ha la stessa natura del suo oggetto, l’osservatore stesso è una parte della sua osservazione» (Lévi-Strauss 1950: XXXI). Un etnografo non è una macchina, in effetti, ma una persona che riflette, interpreta, sbaglia, si riaggiusta modificando la propria prospettiva anche in virtù delle interlocuzioni con i soggetti osservati che si trasformano, tra l’altro, a loro volta, in soggetti osservatori. Accettare il principio che l’etnografo ha un ego significa, di pari passo, accettare l’idea che il soggetto osservatore non è al di sopra delle parti, ma è, lui stesso, all’interno del quadro stesso che sta osservando. Accettare la riflessività dell’ego, vuol quindi dire rifiutare l’idea di soggetto in quanto macchina neutrale (cfr. Okely, Callaway 1992).
In questo senso, io sono certamente – su – una soglia che ha un debito con la scrittura e con l’antropologia: mi hanno insegnato, entrambe forme di ‘cattura’ del mondo, a mettermi in gioco riflettendo sul modo in cui sono soggetto, osservo, partecipo e divento, a mia volta, oggetto osservato da altri. Sono talmente soglia auto-etnografica che penso di dover confessare il fatto che esito qui a lanciarmi a briglia sciolta nei ricordi: esito a farlo come vorrei perché resisto a me stesso e ai miei ricordi. Per quanto debolmente, resisto. Inavvertitamente, resisto. Parlo e scrivo anche per resistere. Il chiarimento, relativo alla mia impostazione, va pure visto, tra le altre cose, come una forma di resistenza all’esplorazione, senza fronzoli, del mio passato. Aprirsi al passato può essere piacevole, ma rischioso: potrebbero venire a galla pezzi di vissuto che non si riconoscono come parti integranti dell’attuale identità del soggetto, creando attriti non facilmente risolvibili in un quadro d’insieme che tiene il tutto armonicamente. È rischioso tuffarsi nel passato, ma senz’altro fruttuoso perché, per conoscere, si «tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe» (Adorno 1979: 304). Dalla rivelazione di crepe e fratture può forse nascere, dietro riflessione, un insieme migliore.
Sarei rimasto bloccato su questa soglia instabile se mio figlio Mattia, opportunamente, non mi avesse sottratto al mio torpore oscillatorio. Mattia mi ha dato, in effetti, una mano oggi pomeriggio. Mi ha detto, a un certo punto, venendo improvvisamente fuori dalla sua stanza: cosa fai, papà? Usciamo? Andiamo da qualche parte a fare foto? È già da qualche tempo che lavoriamo insieme sui nessi possibili esistenti tra ricordi e spazi, tra ricordi e cesure di vita su cui interrogarsi fotograficamente e antropologicamente. Lui ci riflette da fotografo, attraverso le immagini e la loro possibile composizione paradigmatica e sintagmatica. Io, per mia parte, ci rifletto da antropologo scrivendo, sdoppiandomi, nel ruolo di soggetto rimembrante e di soggetto interpretante. Mi interrogo, nella mia ‘doppiezza’, richiamando alla mente i ricordi e i loro intrecciati significati: «si tratta di un esercizio di etnologia al contrario, giacché, di solito, chi è oggetto dell’indagine dà risposte, ma non pone domande» (Augé 2000: 11). Coniugare le due prospettive è utile non soltanto perché noi mettiamo in scena – reinstaurandolo, reimpostandolo, riflettendoci – il rapporto esistente tra un padre e un figlio nei nostri dialoghi, ma anche perché pensiamo che il confronto tra scrittura e fotografia sia estremamente proficuo al fine di un’esplorazione più approfondita del va-e-vieni stabilito tra questi due strumenti – in apparenza separati, ma in effetti convergenti – di vera e propria cattura del mondo. L’idea di Mattia è che la foto è un vero e proprio viaggio nel tempo. Chi viene ripreso nella foto non può che appartenere al tempo in cui viene fotografato, mentre il fotografo che ha scattato la foto, da parte sua, rivedendola, può tornare indietro nel tempo e prodursi – se è ancora in vita – in un andirivieni fruttuoso tra presente e passato che è, oltretutto, corrispondente a un certo modo di pensare la conoscenza in antropologia.
La fotografia non è soltanto uno strumento conoscitivo (guardare una foto ci consente di conoscere qualcosa che non sapevamo già) ma è anche un dispositivo concettuale che consente di riproporsi una domanda soggiacente a qualsiasi modalità adottata: che vuol dire conoscere? Come scrive Lévi-Strauss, «non sarebbe possibile nessuna conoscenza se non si distinguessero i due momenti [la prossimità e la distanza]; ma l’originalità dell’indagine etnografica consiste in questo va-e-vieni incessante» (Lévi-Strauss 1988: 214). L’ipotesi di Lévi-Strauss è che un dispositivo essenziale del conoscere è l’‘andirivieni’: nel dinamismo instaurato tra prossimità (alla quale si concede il dettaglio) e distanza (nella quale si lascia intravedere l’insieme), è possibile spiazzare – e rimpiazzare – il posizionamento dato sull’oggetto e la relazione con esso instaurata. Il dato diventa, così, un darsi. E il soggetto si trasforma felicemente in processo di soggettivazione più dinamico. Mettere l’accento sul processo – e sull’identità mutevole, in divenire del soggetto – non ha effetti importanti soltanto sulla nozione di identità e di soggetto in sé; è estremamente utile, epistemologicamente, perché consente inoltre una migliore riflessione dell’antropologo «su se stesso e sulla propria società nel descrivere le culture altre» (Marcus, Fischer 1994: 39).
In questa prospettiva, l’antropologia dovrebbe essere vista – io la vedo – come una disciplina indisciplinata che, lavorando sulle culture e sugli individui che le compongono, rivela le proprie e altrui categorie. E ciò per una ragione molto semplice che, però, non viene sovente messa in risalto: «L’antropologo conosce le prospettive culturali usando lui stesso prospettive che sono tuttavia culturali» (Miceli 1990: 131). Nella fotografia, questo effetto di svelamento è tanto più evidente perché si è confrontati con un’immagine apparentemente bloccata da un’inquadratura e con il mondo – all’interno del quale viviamo – che ce ne propone tante altre nello scorrere del tempo e del nostro vario posizionamento al suo interno e nell’approssimarsi tra ciò che è inquadrato (la foto) e il mondo che muta inquadratura (in relazione ai posizionamenti del soggetto). Nonostante il tempo irrimediabilmente corra e scorra, la foto diventa quindi uno strumento per rallentarlo e fissarlo in uno scatto singolo che incornicia parte del mondo secondo una prospettiva ben definita: quella del fotografo che è anche un individuo inserito in una cultura che lo orienta, in qualche modo, in un verso o nell’altro. Una foto può, dunque, essere equiparata a una interrogazione – implicita ed esplicita – sul divenire del tempo (e della cultura che lo modella): benché in movimento, il tempo presente chiede conto, infatti, del passato riprodotto persino in una semplice istantanea. La foto obbliga a pensare l’aporia del tempo – siamo nel presente ma oscilliamo verso il passato e la proiezione nel futuro – e la sua forza di penetrazione del reale. Barthes, a riguardo, scrive:
«niente può impedire che la Fotografia sia analogica; ma, nello stesso tempo, il noema della Fotografia non è affatto nell’analogia (peculiarità che essa condivide con ogni altra forma di raffigurazione). I realisti, fra cui mi schiero, e fra cui ero già schierato quando affermavo che la Fotografia era un’immagine senza codice […] non considerano affatto la foto una ‘copia’ del reale, ma la considerano un’emanazione del reale passato: una magia, non un’arte. Domandarsi se la fotografia è analogica oppure codificata non è un buon criterio di analisi. L’importante è che la foto possieda una forza documentativa, e che la documentatività della Fotografia verta non già sull’oggetto, ma sul tempo. Da un punto di vista fenomenologico, nella Fotografia il potere di autentificazione supera il potere di raffigurazione» (Barthes 1980: 89-90).
La foto obbliga a pensare l’aporia del ‘tempo che diviene’, ma che appare – nel vivere quotidiano, reiterato giorno dopo giorno – bloccato nella più ordinaria routine. La foto obbliga inoltre a riflettere su tutto ciò che è stato, ivi compreso le persone care che non sono più tra noi. La foto rimette, perciò, in circolo la complessa articolazione esistente tra la vita e la morte. Ma non è finita qui. La questione ha, inoltre, a che vedere con l’articolazione di ciò che viene mediato e di ciò che riteniamo essere immediato. Confrontando i nostri reciproci vissuti e modi di pensare durante le – mie e di Mattia – incursioni sul campo, ci siamo resi sempre più conto che i nostri modi di codificare la realtà – la scrittura e la foto – consentono un accesso mediato e incrociato alla realtà stessa. Se è vero che siamo nella prossimità del mondo, è anche più vero che non è facile – forse è addirittura impossibile – rendere questa prossimità nella sua immediatezza autentica. Si perde sempre qualcosa per strada sia con la foto sia con lo scritto.
Se la scrittura è forse più malleabile ma più distante dalla realtà, la fotografia ha invece il vantaggio di rappresentare un pensare per immagini che sembra aderire meglio, di primo acchito, alla realtà ripresa, ma è pur sempre effetto di scelte di un soggetto (il fotografo) che si muove anch’egli nel tempo e nella cultura. Pensare per immagini è uno dei modi salienti di essere nel mondo in ogni caso. Essere nel mondo è il solo modo che abbiamo di vivere. Vivere significa tante cose. Una di queste cose è proprio cercare di essere nell’immediatezza dei sensi mediata dagli strumenti che la traspongono in testo o foto: stare incollato a ciò che senti e pensi di lasciar passare, per esempio, in un’immagine o in un appunto. Per molti aspetti, quindi, le incursioni mie e di Mattia sul campo sono un modo di confrontare la presa che scrittura e foto hanno sulla realtà (il bilanciamento di ‘mediato’ e ‘immediato’), ma sono inoltre un ‘esercizio’ di traduzione del nostro pensare nell’immediatezza di ciò che sentiamo, vediamo e vorremmo riprodurre con i nostri, pur imperfetti, mezzi. Ci proiettiamo nel mondo. Dialoghiamo. Scattiamo. Ci appuntiamo qualcosa. Ci traduciamo reciprocamente parlando, scattando foto, prendendo nota, associandola a una foto, riscrivendo la nota, cancellandola, scattando nuovamente. Fare riferimento, in etnografia, all’appunto e alla foto risulta forse essere più direttamente comprensibile.
Perché, però, parlare di traduzione nel contesto di un vissuto vero e proprio? A questo riguardo, un punto va precisato. La traduzione non ha a che vedere unicamente con la trasposizione di un testo scritto da una lingua all’altra (per esempio, dall’inglese in italiano o viceversa). Come spiega bene Jakobson, esistono diverse forme di traduzione: la traduzione endolinguistica che ha luogo all’interno di una stessa lingua attraverso sinonimi e definizioni, la traduzione interlinguistica che si produce nel passaggio da una lingua all’altra e, infine, la traduzione intersemiotica che «consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici» (Jakobson 1966: 57). L’impresa etnografica è stata ineluttabilmente improntata, fin dall’inizio, all’insegna della traduzione soprattutto interlinguistica. Poteva essere altrimenti? È impossibile dialogare e interagire con gli altri, sul campo, senza avere una lingua comune di scambio o un interprete che, in carne e ossa, fa opera di mediazione tra l’etnografo e il suo interlocutore. In un caso e nell’altro, si traduce comunque. Ma si dimentica spesso che si traduce pure quando si decide di filmare o fare foto: la realtà stessa è quell’elemento di partenza che viene trasposto, per quanto complicato sia, in immagini che cercano di renderne la complessità. Se la realtà è complessa, la traduzione è imperfetta. E bisogna farsene una ragione! Come scrive Lévi-Strauss, «trascrivendo un’osservazione, quale che sia, non si conservano i fatti nella loro autenticità originaria: li si traduce in un altro linguaggio e si perde qualcosa per strada. Ma che dobbiamo concluderne? Che non si può tradurre né osservare?» (Lévi-Strauss 1988: 214).
Nel caso mio e di Mattia, la questione non si applica soltanto alla realtà che, singolarmente, vorremmo tradurre in immagine e scritto. Noi intendiamo inoltre mettere a fronte scritto e foto producendo interazioni – Jakobson chiamerebbe, questa, traduzione intersemiotica – che sono anche rimandi traduttivi da un nostro strumento d’indagine all’altro. E, visto che si tratta essenzialmente di incursioni sul campo che mirano a tradursi in auto-etnografia, cerchiamo di essere inoltre visibili in quanto soggetti e traduttori: ci inscriviamo, cioè, il più possibile, nel testo e nella foto, mostrando i nostri posizionamenti e le nostre enunciazioni enunciate. Questo effetto di visibilità, a proposito di traduzione, non è per niente scontato, nemmeno nella più classica e canonica tradizione occidentale. Come scrive Darnell: «nonostante molti antropologi del linguaggio siano anche poeti a pieno titolo – da Sapir a Dell Hymes, Dennis Tedlock e Paul Friedrich – il nostro canone letterario continua a dare per scontato, in modo del tutto inadeguato, che i traduttori dovrebbero essere invisibili» (Darnell 2001: 375). La visibilità non riguarda soltanto il traduttore di testi letterari o i poeti, ma anche l’etnografo stesso che, avendo a che fare con diversi interlocutori sul campo, può decidere di rendersi visibile o invisibile nel trasporre la sua interlocuzione in testo scritto o visivo. Rendersi invisibili è una strategia che non assicura l’oggettività del punto di vista adottato; semmai, è una scelta discorsiva che camuffa il posizionamento dell’etnografo che si enuncia dietro l’assunzione di una forma impersonale del linguaggio.
Se io parlo di strategia, è proprio perché penso che, attraverso il discorso, si possono costruire forme di adesione alla verità che non necessariamente hanno un riscontro effettivo nella realtà: il soggetto dell’enunciazione, più che un discorso vero, cerca di produrre, in questi casi, «un discorso che produce l’effetto di senso verità» (Greimas 1985: 107). Greimas parlava, essenzialmente, di due strategie: il mascheramento soggettivante e il mascheramento oggettivante. Nel primo caso, il soggetto enuncia un discorso che contiene un piano di verità da decifrare che, proprio perché dissimulato e ‘nascosto’, si presenta come vero: Greimas fa l’esempio del ‘discorso per parabola’ di Gesù che richiede la collaborazione interpretativa dell’enunciatario per essere compreso. Nel secondo caso, si può pensare al discorso scientifico perché cancella, il più possibile, le tracce dell’enunciazione per darsi, subito, fin dall’inizio, come oggettivo e neutrale, come se non ci fosse una istanza enunciativa che se ne fa carico. Visibilità e invisibilità hanno a che vedere, strettamente, con queste strategie ed etnografi e fotografi dovrebbero tenerne conto. Si tratterebbe, dunque, di riflettere sul modo in cui un’esperienza – l’osservazione-partecipante per esempio – viene tradotta in un testo che non cancella completamente il contesto dell’enunciazione e della vita vissuta. Si tratterebbe di riflettere sul modo in cui, più in generale, si riproduce questa discontinuità ineludibile tra l’oralità e la scrittura, tra il contesto e il testo, tra l’enunciazione e l’enunciato, tra la verità e gli ‘effetti di senso verità’. Si tratterebbe, da antropologi, di ripensare il ruolo del contesto e dell’enunciazione e «ripensare qualcosa significa ricontestualizzarla, estrapolarla da precedenti cornici di significato per situarla in un nuovo insieme di relazioni e aspettative» (Duranti, Goodwin 1992: 31-32).
Io e Mattia abbiamo parlato un po’, oggi pomeriggio, di tutto questo, prima della nostra incursione sul campo, facendo una sorta di riepilogo propositivo delle nostre reciproche intenzioni. Abbiamo deciso, comunque, di tenere questi propositi teorici in una sorta di magazzino degli strumenti da utilizzare senza esagerare. Abbiamo deciso, soprattutto, di lasciarci guidare dal contesto e dalle situazioni concrete nelle quali ci imbatteremo. Vorremmo fare prevalere la pratica alla teoria, la situazione all’idea astratta. Siamo indecisi sul luogo specifico da scegliere per la nostra incursione – fotografica e auto-etnografica – da collegare ai miei ricordi del passato relativi alla figura di mio padre (che è il nonno di Mattia). Si tratta di andare insieme sul posto. Io lascerò emergere i miei ricordi. Ne parlerò a Mattia, nel frattempo, che scatterà delle foto sulla base dei suoi orientamenti traduttivi e delle nostre interlocuzioni. La prima idea che ci viene in mente, parlandone, è di andare insieme al cimitero dove è seppellito mio padre. Non ci vado da anni e sarebbe un modo per confrontarsi con la morte, con alcuni ricordi indelebili, di cui ho parlato poco nella mia vita, cercando di riflettere sulla mia assenza e sulle eventuali motivazioni da me addotte in passato e nel presente. Perché non vado al cimitero da anni? Non lo so. Potrei dire che, dalla morte di mio padre, ne è passato di tempo. Potrei dire che mi sono ‘distratto’ vivendo, forse proprio con l’intento di non pensare alla morte e a ciò che mi è successo da piccolo. Ma so bene che, per avere risposte efficaci, dovrei mettermi alla prova concretamente, etnograficamente, esplorando il mio stato d’animo presente e passato, se non altro perché «conoscere meglio la morte vuol dire ammettere la sua necessità per il rinnovamento della vita» (Thomas 1976: 567).
Si vive più pienamente e intensamente se si pensa che un giorno non saremo più in questo mondo. E io, in parte, lo faccio già, senza necessariamente pensare alla morte o a frequentare i cimiteri. Quale altra ipotesi potrei prendere in conto allora? Ripensando a Rosaldo, ripescando nelle mie conoscenze d’ordine antropologico, si potrebbe pure dire che non ho mai elaborato veramente il lutto dovuto alla morte di mio padre, anche se il tempo è passato e io sono, adesso, un adulto che vive la sua vita pienamente. Come scrive Rosaldo, ciò sarebbe, tuttavia, giustificato perché «i rituali veicolano processi che si realizzano sia prima che dopo la durata della loro esecuzione» (Rosaldo 1989: 60). In opposizione all’ipotesi ventilata da Van Gennep, l’idea di Rosaldo è che il rituale non trova la sua fine nell’immediata vicinanza del passaggio di status che usualmente avviene durante i rituali. Come è successo a Rosaldo, con la morte del fratello e della moglie, il rituale si è dispiegato negli anni e ha richiesto a Rosaldo di ristudiare ciò che pensava di sapere, oltre a ricorrere alla sua esperienza dedotta dal campo e dalla sua stessa vita personale. Detto in breve, per Rosaldo il rituale è dell’ordine del durativo e non del puntuale. E per quanto mi riguarda? Sarebbe l’occasione adatta, in ogni caso, per me, per chiedermelo scavando nella questione attraverso foto e dialoghi concepiti come strumenti di indagine per ‘libere associazioni’ d’ordine catartico. Ma il cimitero è già chiuso, apprendiamo. Decidiamo, così, di fare altro, di dirigerci verso il porto di Palermo. La nostra decisione non è comunque un ripiego.
Mio padre, per diversi anni, è stato un marinaio: ha lavorato sulle navi come elettricista. Si imbarcava in navi che andavano lontano, in paesi esotici, e io non lo vedevo per mesi. Me ne dimenticavo pure. Il primo vivido ricordo che ho di lui è frenetico e concitato allo stesso tempo: fa capo a mia madre che mi ripeteva, tutto il tempo, all’epoca, che mio padre sarebbe arrivato, da un giorno all’altro, e che finalmente lo avrei visto. Finalmente? Ma quando sarebbe arrivato? Il giorno del suo arrivo non sembrava mai arrivare e il tempo si dilatava. Nella frenesia dell’attesa, questo giorno fatidico mi pareva sempre molto lontano. Bisogna sottolineare il fatto che i tempi – e i mezzi tecnologici – erano diversi allora: non consentivano quell’effetto di maggiore immediatezza simulativo della presenza di oggi. Non esistevano le macchine fotografiche digitali, per esempio, ma solo le analogiche. E non se ne parlava nemmeno di ricorrere a piattaforme quali Facebook o Instagram. Cos’erano? Boh, avrei detto all’epoca! Si potrebbe dire che io vivevo, allora, davvero in un altro mondo se comparato con quello di oggi tecnologicamente più avanzato. Avrò avuto all’incirca quattro anni, se non sbaglio. Lo so perché mio fratello – minore di quattro anni – non era ancora nato. Mia madre mi parlava di mio padre continuamente; lei mi diceva che sarebbe arrivato presto, e io non vedevo l’ora di trovarmi al suo cospetto e di capire cosa fosse effettivamente un padre. Il tempo si sfaldava come forma piacevole dell’agire e vivere che poteva avere per un bambino, e prendeva invece una strana consistenza materiale, solida, più irrequieta. Più mia madre me ne parlava, e più l’attesa di mio padre cresceva freneticamente, giorno dopo giorno, mentre il tempo rallentava stranamente. In realtà, la verità dei fatti – al di là del tempo che sentivo sempre più rallentato – è che non soltanto non me lo ricordavo, ma non sapevo nemmeno cosa fosse un padre.
Che vuol dire essere padre? A che serve? Quale funzione ha? Ero piccolo, mio padre era assente da tanti mesi e io, vivendo soltanto con mia madre, lo avevo persino dimenticato. Non ne avevo esperienza diretta e mi facevo tante domande su cosa potesse essere un padre. Cosa avrebbe fatto mio padre non appena mi avrebbe visto? E cosa avrei fatto io in concomitanza? Come mi sarei dovuto comportare da figlio? Per presentarmelo al meglio – suppongo – mia madre mi ripeteva che mi avrebbe riempito di regali. E già, solo per questo, non vedevo l’ora che lui arrivasse e mi coprisse di tutti quei regali a cui accennava mia madre. L’attesa mi pervadeva. L’attesa mi interrogava. Attendere per un bambino è un elemento costitutivo delle sue azioni ed emozioni. Lo è per tutti, ovviamente, proprio perché l’attesa è un fenomeno dalle molteplici e complesse valenze. Il potere passa attraverso l’attesa, per esempio. Attraverso l’attesa alcuni di noi si impongono ad altri: disponendo del loro tempo. Come ricorda Bourdieu, «l’attesa è uno dei modi privilegiati di subire il potere» (Bourdieu 1998: 239). Ma l’attesa può inoltre avere un dettato positivo, nel caso, per esempio, in cui si attende l’innamorato e non si vede l’ora di vederlo: l’attesa qui diviene qualcosa di avvincente, inebriante. Scrive Barthes infatti: «L’attesa è un incantesimo» (Barthes 1979: 41).
Il valore dell’attesa dipende, quindi, dalla situazione in cui si è proiettati. In attesa del proprio padre che, in pratica, non si conosce, può diventare una vera e propria molla esistenziale: ci si interroga e si interroga la misteriosa figura del padre. Più attendevo, più mi interrogavo, e più il tempo rallentava spasmodicamente. Da parte di mia madre, forse inconsapevolmente, parlarmene era anche un modo per associare mio padre a un evento positivo, da gustare nel tempo rendendo qualcuno più prezioso. E io pensavo, difatti, che questa fosse una delle funzioni del padre: fare regali e, così, fare felice il figlio in attesa. Quando, finalmente, quel giorno arrivò, successe una cosa strana che io non avevo affatto previsto. Chi se lo sarebbe mai immaginato! Andammo, io e mia madre, a prenderlo al porto, il giorno destinato. E tornammo a casa in carrozza, nonostante abitassimo vicino il porto. Andare in carrozza era un mio desiderio da piccolo. Ne parlavo da tempo a mio madre: salire su una di quelle carrozze che si vedevano all’epoca a Palermo, con quei bei cavalli neri, era una specie di sogno per me. E mio padre – dietro suggerimento di mia madre – mi accontentò giusto il giorno del suo arrivo. Tutto sembrava magicamente coincidere. Ed era una ragione di più per farmelo vedere in una luce di fascino infinito e tenero. Il fatto è che, in carrozza, lui cominciò ad abbracciare mia madre, a sbaciucchiarla, e io non sapevo che fare. Ero, a dir poco, imbarazzato. Certo, mio padre abbracciava pure me, con affetto, e indubbiamente sentivo questo affetto scorrere senza freno. Ma non capivo perché un uomo – etichettato come padre – si prendesse quelle confidenze con mia madre. Ero geloso? Forse, sì! Ma è anche vero che mio padre era, in fondo, uno sconosciuto ai miei occhi e non pensavo che, quello che era un padre per me, era pure un marito per mia madre. Lui aveva due ruoli associati.
Con il senno di poi, da antropologo, avrei detto che un individuo è attraversato da un’identità in divenire composta – e ricomposta – dai molteplici ruoli assunti e persino abbandonati, a volte, strada facendo, nella vita. Nel caso di mio padre, alcuni dei suoi ruoli erano i seguenti: marito, padre, donatore, lavoratore, elettricista. Si sommavano, dunque, due problemi di non poco conto per un bambino di quell’età: associare ruoli in apparenza distinti e colmare il vuoto dell’assenza dandogli un senso. Un compito non facile! Ogni tanto mia madre, durante l’assenza di mio padre, mi mostrava qualche foto e me ne parlava. Ma non sapevo altro di lui. Mio padre era ciò che vedevo in foto, nelle navi, mentre era al lavoro. Mio padre era le foto. Mio padre era le immagini. Tutto qui, niente di più! Berger dice, giustamente, che «l’emozione che si prova osservando una fotografia è frutto di un trasalimento della memoria. È ovvio quando si tratta della foto di qualcosa che un tempo conoscevamo. La casa in cui abitavamo. Nostra madre da giovane» (Berger 2019: 31-32).
La fotografia è associata al mondo degli affetti e dei luoghi vissuti che, forse non più frequentati, prendono però, per il soggetto-osservatore, la forma emotiva della nostalgia e del ricordo dolce e meditabondo. Una foto è legata al passato, lo conserva, lo fa venire in mente, fa scaturire emozioni. In realtà, il mio caso era diverso, più raro. Osservando qualche foto di mio padre, io non avevo nessun trasalimento perché la sua persona, in carne e ossa, e l’immagine che mi rimandava la foto non erano associate, visto che non lo conoscevo veramente o, comunque, non me lo ricordavo più dal vivo, in presenza così com’era. La sua figura non era, insomma, associata a un deposito della memoria di vita vissuta insieme, una vita vissuta nel tempo che consente di sedimentare affetti ed emozioni. Non lo associavo, mio padre, nemmeno a mia madre: a una loro ipotetica unione sessuale e affettiva. Io associavo mio padre alle navi, ai lunghi pontili in cui si faceva fotografare, alle enormi leve e alle tubature delle macchine con cui lavorava. Anche il ‘mondo delle navi’ era, nonostante le foto, ignoto per me. Cosa si faceva in quelle navi tutto il tempo? Come passavano il tempo i marinai? Non si annoiavano? Le foto sembrano essere uno spaccato iconico di vita, ma, in effetti, ritagliano più di quel che si possa pensare: interrogano il soggetto che le guarda, rimandano a un contesto che è sempre, nel bene e nel male, inevitabilmente tronco. Io, perciò, chiedevo a mia madre; lei mi rispondeva, ma non mi capacitavo comunque. Comunque sia, la nave e mio padre erano, per dirla in breve, un tutt’uno nel mio distorto immaginario infantile.
Un altro elemento che faceva immancabilmente parte del mio immaginario infantile era il porto: era il luogo dove mio padre arrivava e partiva. Partire era sinonimo soprattutto di sparire per me. Se qualcuno partiva, voleva dire che spariva, forse per sempre, e mi dispiaceva ovviamente tanto. Sì, certo, sapevo che si arrivava in un altro luogo: da qualche parte, lontano nel mondo, in un altro porto, un altro paese. Per me, però, contava soprattutto il fatto che qualcuno sparisse e che non lo avrei più rivisto per tanto tempo e forse per sempre. Se, andando indietro nel tempo, devo parlare di emozioni, devo dire che, più che di nostalgia o speranza, nel mio caso si trattava di delusione e frustrazione. Il porto era, tra le altre cose, associato al ricordo di un mio zio al quale ero molto legato all’epoca: lo zio Nino. Anche lui era partito, e non lo avevo più visto. Sapevo che era andato a vivere in America, ma non capivo perché non potesse tornare, di tanto in tanto, a farsi rivedere da tutti noi, soprattutto da me, un nipote a cui lui era molto affezionato. Tornando indietro nel tempo, inoltre, mi rendo conto adesso – scavando e scivolando sui miei ricordi – che non era soltanto una questione di spazi quali il porto e la casa: due spazi molto rappresentativi, per me, in quel periodo. Si trattava anche di tempo e di elementi a esso associati. Io, infatti, all’epoca, non avevo la stessa sensazione odierna del tempo. Più che altro, allora, il tempo era legato al porto e alle navi, alle partenze e alle rare fotografie che ci mandavano coloro che partivano. Il porto è, pure oggi, la stazione marittima degli arrivi e delle partenze. Non può che essere collegato al tempo del viaggio per lavoro o per piacere! Ma, nel mio immaginario di allora, non esisteva qualcosa che si inserisse tra una cosa e l’altra. Non pensavo al viaggio in sé. Non pensavo al piacere che se ne potesse trarre. Non pensavo alla, talvolta faticosa, preparazione del viaggio. E, nemmeno, pensavo alla vita che le persone che partivano avrebbero avuto sul luogo di arrivo. Era come se tutto questo fosse sospeso ai miei occhi. Avevo soltanto in mente questa articolazione concreta, ma slegata da ogni altra cosa, relativa al partire e all’arrivare.
Ho parlato a Mattia di tutto questo. L’ho fatto in precedenza, in passato, per altri lavori che abbiamo fatto insieme. Gliene ho accennato nuovamente questa volta, sottolineando due punti sostanzialmente. Il primo punto è che non deve farsi scrupoli nel legare ciò che stiamo facendo e dicendo – in auto, al porto – ad altre questioni di cui abbiamo parlato le scorse volte: anche lui, se possibile, deve ragionare, se vuole, per ‘libere associazioni’ di pensiero. È un invito, il mio, rivolto a Mattia, ad approfittare dei lavori etno-fotografici che facciamo insieme per liberarsi, per investire se stesso nel lavoro con le sue competenze, ma anche per avviare una esplorazione di se stesso attraverso lo strumento della foto. È qualcosa che io faccio, è uno dei miei modi di intendere l’antropologia: come una esplorazione, tra le altre cose, del proprio Sé. Se io narro in chiave autoetnografica è anche per sottoporre a catarsi un frammento della mia vita particolarmente pregnante. Narrazione, pensiero ed emozioni sono strettamente collegati: come ribadisce Bateson, noi pensiamo per storie (Bateson 1984). La narrazione auto-etnografica risponde bene a questa affermazione di Bateson accettandola in toto. Il secondo punto, per Mattia, da tenere in mente è che il rapporto instaurato tra me stesso e i miei ricordi è debitore della mediazione offerta dallo spazio, ma, ancora più importante, è il risultato di una assenza: quella di mio padre che è, per lui, un nonno assente perché non lo ha conosciuto. Per quanto riguarda il primo punto, gli ho ricordato Deleuze, il quale sminuisce il valore di inizio e fine, mettendo l’accento sul divenire che consente maggiori associazioni: «Si è sempre nel mezzo di un cammino, nel mezzo di qualcosa» (Deleuze, Parnet 1998: 34). Per quanto riguarda il secondo punto, gli ho rammentato Assmann che valorizza le nozioni di traccia e di assenza: «il luogo si configura come mediatore della memoria attraverso la sua inalterabile fissità […] un qui senza ora […] che rileva in modo più o meno marcato la traccia di un’assenza» (Assmann 2002: 448).
Volevo, inoltre, che Mattia ci pensasse, parlandone qui e lì, proprio per fare delle foto che avessero a che vedere con questo strano sentimento – per un bambino di quattro anni – che consiste nel vedere arrivare e partire – apparire e sparire – le persone care. In auto, mentre ci spostavamo per andare al porto, ne abbiamo parlato ancora. Finché, a un certo punto, il cellulare, con un sibilo sordo, mi ha comunicato che era arrivato un messaggio. Era Tonino. Mi ricordava la scadenza di consegna dell’articolo e chiedeva a che punto ero. “Avanzi”, mi scrive gentilmente? Sto lavorando – gli rispondo – sui ricordi e sugli aspetti relativi non soltanto alla temporalità, ma anche ai luoghi che li cristallizzano e fanno, sovente, da catalizzatori mnestici in pianta più stabile, pervasiva, per una persona. Abbiamo cominciato, io e Tonino a scambiare una serie di brevi messaggi sul senso del vivere e morire. A proposito di luoghi della memoria, abbiamo parlato pure del cimitero: un posto che consente – ha ribadito Tonino – di relativizzare la dimensione dei problemi quotidiani e di tuffarsi in un momento vissuto e sentito come rasserenatore. Io, per quanto mi riguarda, non vado spesso al cimitero e, come ho già accennato, non so veramente perché. Chissà mai, per quale ragione! Compenso questa mancanza, comunque, in qualche modo, tornando indietro, nella mia vita, riflettendoci, scrivendo sulle sue derive nel volgere del presente instabilmente situato tra i tuffi nel passato e il volgersi programmatico verso il futuro. Scrivere sui ricordi, dico a Tonino, è un modo altrettanto efficace per riportare i problemi quotidiani a una scala più accettabile, meno sofferta. Di fronte alla morte, in ogni caso, gran parte delle sofferenze passa in secondo piano! Tonino risponde che, in fondo, io non ho tutti i torti: ricordare è un po’ fermarsi a pensare o ripensare – rallentando lo scorrere del tempo – all’articolazione del passato e del presente. Andare al cimitero, pensare ai propri morti, ridimensiona quelli che, di primo acchito, possono sembrare problemi insormontabili: di fronte alla morte, tutto passa in secondo piano!
Ripensandoci ancora, in auto con Mattia, credo che – l’andare nei cimiteri, volgendo lo sguardo interrogatore sulla morte – abbia almeno due risvolti compresenti: da una parte, si pensa al valore della vita e ci si sente giustificati a interpretarla al meglio, a pieno ritmo, forse pure con allegria; dall’altra, si pensa pure al fatto che, prima a poi, la vita avrà fine e, forse non ci sarà continuazione possibile (almeno per un non credente). La morte – il pensiero della morte – ci rende, in ogni caso, vulnerabili perché getta «un dubbio sulla ragion d’essere radicale di questa continuazione, ci costringe a scuotere il nostro torpore continuazionista» (Jankélévitch 2009: 450-451). A conti fatti, penso pure che, oltre la dimensione più personale e intima, la morte – il pensiero della morte – ponga un problema d’ordine politico che è stato largamente affrontato, in passato, da un noto antropologo e tanatologo: L. V. Thomas. Lo studioso afferma in maniera efficace che «lottare per una vita migliore, senza sfruttamento-appropriazione del dominato da parte del dominatore, per una società nuova che preferisce l’accumulazione d’uomini, a quella di beni, vuol dire nello stesso tempo rifiutare il tabù della morte in quanto mediazione del potere che sopprime» (Thomas 1976: 569-570). Mi riservo, ovviamente, di approfondire la questione in futuro usando lo stesso approccio che seguo negli ultimi tempi: oltre che lasciando parlare i libri scritti, ricorrendo al mio vissuto proiettato in una concreta situazione di campo in cui il mio sguardo da etnografo si pone il compito di interrogare il mio stesso vissuto e il confronto che ne scaturisce lasciando intervenire i ricordi.
Resta un punto da discutere. Agli occhi di un lettore ignaro la trasposizione del mio dialogo con Tonino può sembrare un inciso che riporta una voce dall’esterno su un tema, quale è quello del cimitero, che non affronto, qui, in primo piano, direttamente. In realtà, questo è un elemento integrante dell’approccio più fluido e polifonico che uso: «Scrivere determinati testi con l’esplicazione di una molteplicità di voci all’interno tenendo continuamente presente la molteplicità e la diversità dei lettori, è forse lo stimolo più energico che dà impulso allo sforzo sperimentale attuale nella letteratura antropologica» (Marcus, Fischer 1994: 251). Alla luce di questa affermazione, di felice orientamento postmodernista, io direi che l’antropologia è quella sperimentazione incessante che esercita una forza di decentramento su se stessa, sulle proprie teorie e sui soggetti che la praticano persino nel trambusto di un momento vissuto con dolore o disappunto.
Arrivati al porto, io e Mattia ci siamo messi a passeggiare senza una meta precisa. Io, in effetti, gli avevo parlato di un vecchio bar dove venivo in un passato remoto a fare colazione e a lavorare. Cercavamo questo bar, senza impegnarci troppo, andando alla deriva. Ma invano! Il bar non esiste più e il porto è completamente cambiato rispetto a come lo ricordavo. Dopo averlo cercato per un po’, ci rendiamo conto che è inutile e continuiamo verso una zona del porto che pare, a prima vista, più tranquilla. Io vago con i pensieri. Vago, ma non troppo. Mi rendo conto che la mia mente segue un percorso comparativo. È un contesto, il porto, che mi porta istintivamente a comparare: il passato e il presente, me stesso come sono adesso e me stesso come ero da bambino, le dimensioni temporali e spaziali del vissuto, i ruoli da me assunti nel tempo e le diverse reti di relazioni che mi attraversano. Ho detto a Mattia di prendersi tutte le libertà possibili nel fotografare e di essere creativo, come lui vuole, senza necessariamente ancorare le foto a ciò che gli ho raccontato sui miei ricordi e su suo nonno. Il mio racconto, relativo alla mia infanzia, non voleva essere altro che un rimando che tocca, con alcune sensazioni, il suo atto fotografico senza impegnarlo in modo referenziale.
Vorrei, se possibile, che le sue foto fossero un racconto parallelo al mio, tangente, ma non sottoposto. Vorrei che le sue foto mi facessero riflettere sul porto: su un luogo utopico della mia infanzia ormai assente e cambiato nel tempo. Il luogo è, insomma, per me, il luogo della presenza e dell’assenza, del presente e del passato. Man mano che passeggiamo al porto, sia io sia Mattia, sentiamo uno duplice esercizio di strana attrattività del porto nei nostri riguardi. Da una parte, è come se le linee orizzontali di alcune sue configurazioni ci attirassero in una sorta di pacata compostezza dandoci un senso di pace e di equilibrio. Dall’altra, è come se il porto manifestasse tutta la sua forza su di noi e ci facesse sentire piccoli, insignificanti. Questa ossimorica sensazione viene amplificata, man mano che passeggiamo, dalle varie forme che incontriamo: alcune piacevoli, altre meno, comunque tutte spiazzanti. Le forme si impongono, alternando varie simmetrie, mentre io continuo a pensare al bar. Impossibile che non ricordi più nemmeno dove sia lo spiazzo! A un certo punto, passeggiando, mi sembra di riconoscere il luogo dove si trova: è un sito vuoto, recintato, con enormi palazzi che si vedono alle sue spalle. Tutt’altra cosa rispetto al mio ricordo di tanti anni fa quando ci andavo a fare colazione apposta perché era un luogo tranquillo con pescatori, marinai, che entravano e uscivano e ispiravano la mia scrittura contrappuntistica. Potrei dire che ho trovato, più che il bar (che non esiste più), la presenza ossessiva degli spazi della modernità e del cambiamento.
Il porto è, in effetti, in subbuglio, ci sono lavori dappertutto. E, poi, cosa mi aspettavo di trovare dopotutto, dopo tanti anni? Nel bene e nel male, tutto diviene! Io avrei voluto, forse, un pizzico di nostalgia, di passato intonso. Ciò che ricavo, da questa incursione fotografica, invece, non è altro che uno straripamento degli edifici, alti e freddi, oltre che una bizzarra eterogeneità di forme e oggetti che non mi attendevo di trovare. Il porto non è più, come nei miei ricordi d’infanzia, il luogo delle partenze e degli arrivi, ma una sorta di ibrido eterogeneo in cui diversi elementi si mescolano: auto, parcheggi, palazzi, navi da crociera, recinti e manufatti per costruzioni. Se, nei miei ricordi, partire equivaleva a sparire – pur sempre in uno spazio legato alla navigazione, ai marinai e alle navi – adesso direi che partire è cedere alla presenza esuberante delle forme e degli spazi dell’attendere. Il porto, nel sommovimento che lo caratterizza oggi, è, per me, ‘presenza’ che scaccia ogni traccia di memoria dell‘assenza’. Anzi, direi, che presenza ed assenza si combattono in questa, pur bella, passeggiata che facciamo io e Mattia. Strano a dirsi, ma l’unico momento in cui mi sento di essere a mio agio è quando vado in bagno per i miei bisogni fisiologici. Il bagno è una casupola che sembra piombata lì da un altro mondo. Com’è possibile, mi chiedo, che non l’abbiano rimossa? È mai possibile che, un cesso, sia l’unico luogo in cui mi sento proiettato nel passato, nei ricordi? No, non è così!
Un momento intenso in cui sento di afferrare briciole di memoria è quando Mattia si ferma a fotografare una nave, piccola, ma con tante tubature visibili. E, allora, sono repentinamente trasportato nel passato, nelle foto che mio padre mandava a mia madre in cui, lui, si vedeva tra tubi e macchine oppure su pontili deserti e interrogatori. Un momento straniante, se non altro per me, è invece quando – ormai si era fatto tardi – il sole è cominciato a tramontare dietro un albero di palme. Direi che questo è uno dei pochi momenti in cui mi sono sentito in un luogo altro, non tipicamente connotato dalla surmodernità. Il bagno e il tramonto, in effetti, benché tematicamente diversi, sono un tutt’uno nella mia immaginazione volta alla ricomposizione degli spazi di allora e di adesso. Inconsueto? Mi rendo conto, a un tratto, che, pensando al porto, avevo in mente, fin dall’inizio due luoghi: il bar e le navi con tubature (così le chiamavo e le chiamo ancora). In effetti, la nostra, mia e di Mattia, incursione è implicitamente proceduta seguendo l’ordine di una quête narrativa ed esistenziale continuamente sovvertita dall’imporsi degli spazi altri – diversi da quelli che cercavamo – e dall’irrompere del caso.
Con questo pensiero in mente – sarebbe mai possibile vivere lasciandosi andare totalmente al caso, annullando ogni quête? – arriviamo nel nuovo bar, sito in una zona del porto molto tranquilla. Ma è certamente tutt’altra cosa rispetto al bar che desideravo trovare! Io e Mattia beviamo qualcosa. Poi, torniamo indietro. Mattia, nel tornare, attira la mia attenzione su un individuo che parla al telefono in assoluta tranquillità: sembra l’emblema dell’uomo moderno, continuamente impegnato in una comunicazione a volte priva di senso denso. L’immagine è, però, bella: con le gru sullo sfondo e con dei cordami che paiono tagliare trasversalmente il mondo. Scatto anch’io qualche foto, più che altro per annotare delle idee e usarla come contrappunto rispetto alle immagini di Mattia. Foto come appunto e contrappunto? Ci impegniamo, allora, io e Mattia, in una lunga discussione sulla funzione della foto. Mattia pensa che l’idea di Barthes – la foto come «emanazione del reale passato (Barthes 1980: 89) – sia affascinante ma colga solo un aspetto della questione: l’aspetto posto in rilievo da chi si pone come ricevente dell’immagine e non come soggetto attivo che crea. La foto è una ‘macchina del tempo’, ma è anche, per il fotografo, un mezzo per ‘imprimere’ sul mondo un segno della sua esistenza e agentività. Così la pensa Mattia! Se è vero che il mondo esterno esercita una forza sul fotografo, è altrettanto vero – continua – che il fotografo agisce sul mondo con il suo atto di ritaglio del mondo stesso. Inoltre, mi ha fatto notare Mattia, una foto – nella sua prospettiva – è comparabile all’articolazione del vivere e morire perché, con ogni scatto, ci si lascia dietro le spalle qualcosa e si intravede qualcosa di nuovo: è come se, scattando, una parte di lui morisse e un’altra parte nascesse.
Mattia mi dice tutto questo mentre io cerco di non dargli molto conto: ero venuto, qui, al porto, in cerca di memoria rivitalizzante e non volevo parlare ancora di morte e assenza. Siamo, tutt’e due, d’accordo nel dire che, in fondo, il porto non è altro che un luogo – come tanti altri – delimitato da frontiere di accesso e di uscita. La finanza controlla chi entra e chi esce. E le frontiere, come altrove, non sono affatto immobili – come si pensa comunemente – ma in azione: sono agentive, fanno fare. Vorrei soltanto – dico a Mattia – che l’ultimo scatto del nostro saggio foto-etnografico riassumesse alcuni di questi aspetti coniugando l’ombra e la luce, i passi miscelati di una presenza e di un’assenza. Vorrei, allo stesso tempo, che fosse una sorta di rete – mi viene in mente Geertz – che tiene conto delle relazioni e allo stesso tempo dell’impossibilità, per il soggetto, di una forma di conoscenza chiara e limpida. Ma dico a Mattia che non so bene nemmeno io a cosa mi riferisco in termini di immagini. In realtà, parlo – e scrivo di reti – senza pensarci più di tanto: perché mi sono prefisso di lasciare interagire le associazioni che mi passano per la testa e si dispiegano in situazione. Ma so bene, per avere studiato e insegnato per tanti anni antropologia del linguaggio, che ogni concetto chiamato – da me stesso – in causa ha molteplici valenze teoriche e altrettante rispondenze pratiche. Secondo Latour, per esempio, la nozione di rete – alla quale lui stesso ha dedicato tanta attenzione teorica in passato – è insufficiente se si prendono in conto le persone stesse nel loro effettivo situarsi. Sarebbe preferibile, dal suo punto di vista, la nozione di attaccamento perché, oltre alle connessioni più specifiche della rete, valorizza le singole associazioni – d’ordine più lineare e personale – di un individuo (Latour 2000). Non si può che essere d’accordo con Latour! È, in fondo, quello che facciamo io e Mattia, scavando sui diversi strati del ricordo e cercando di tradurli in immagini incentrate su una forma o l’altra di attaccamento. Io ho amplificato questa rete di relazioni (nel senso che ne dà Geertz) e di attaccamenti (nel senso che ne dà Latour) perché sono antropologo e il mio mestiere ha a che vedere proprio con questi aspetti relazionali. Ho chiesto a Mattia di accompagnarmi perché lui è fotografo e contavo – come è effettivamente stato – di decentrare, grazie alle sue foto – il mio punto di vista e i vari posizionamenti da me adottati.
Di fatto, la nostra incursione, mia e di Mattia, si dispiega – si è dispiegata, in tutto – nell’arco di un pomeriggio al porto. Io ho continuato a prendere appunti, Mattia scattava foto mentre dialogavamo, ci fermavamo, riprendevamo, ci interrogavamo sul valore del cambiamento, facevamo una pausa per prendere un caffè, mettevamo a punto un piano d’azione, lo rifacevamo, e via di seguito. Siamo nel processo, siamo situati, prendiamo «in esame il modo in cui il linguaggio dà forma alla percezione nel contesto di un’attività situata» (Goodwin 2003: 194). Non sarà facile mettere su carta tutto quello che succede, pensiamo, osserviamo. Non sarà facile ricorrere a tutte le foto che Mattia scatta. Non sarà facile? Sarà impossibile, direi! È impossibile, nei fatti, trasporre interamente il vissuto e le interazioni correlate in testi e immagini. Nel bene e nel male, è necessaria una selezione. Ma è questo il nostro fine? Trasporre l’interezza dell’esperienza e la totalità del vissuto? Certo che no! I nostri fini erano molteplici ma non avevamo né la presunzione né l’ambizione di tradurre la densità del mondo – e l’irreggimentato fluire dei pensieri individuali – nella costrizione limitante di immagini e testi, per quanto numerosi essi siano. Io e Mattia abbiamo utilizzato i miei ricordi come ‘pretesto’ per un ulteriore affondo – ne abbiamo già prodotti altri tre, in altre occasioni, con fini altri – vertente sulla dimensione polisemantica del tessuto esperienziale di un individuo – me stesso – concentrato sul suo passato, ma irrimediabilmente ‘costretto’ a vivere nell’improrogabile divenire presente.
Se richiamo il ricordo, in effetti, non posso che oscillare tra una dimensione temporale e l’altra: tra il passato che si presenta sotto forma di ricordo e il presente nel quale agisco e mi situo. L’interesse del ricordo – elemento tematico su cui è principalmente incentrato il nostro saggio foto-etnografico – nasce da un’esigenza personale che io ho definito auto-etnografica per il fatto stesso che, attraverso il ricordo esperito, si mette in scena, sottilmente, la cultura nei suoi raffinati meccanismi di presa in carico dell’ordine e disordine del mondo (e del soggetto). Il ricordo è uno di quegli elementi che, più di ogni altro, si collega al senso di identità. Il senso della nostra identità proviene, per lo più, dalla memoria depositata nei nostri ricordi personali e impalpabili, così come nelle varie forme materiali che la codificano culturalmente, trasponendone il tessuto di esperienza volatile in altro: una foto, un libro, un museo, una poesia, un brano musicale, un ballo, una edicola votiva, etc.
Il ricordo, comunque sia, ripropone sistematicamente l’interrogazione sul tempo sospeso tra oblio e rimemorazione, presente e passato, nonché sullo spazio che lo accoglie e lo mette in scena nel divenire incessante e irrequieto dell’essere umano. Non ultimo, come si è visto, il ricordo ha un rapporto stretto, benché poco esplorato in termini auto-etnografici, con il suo stesso divenire immagine nella memoria non soltanto individuale, ma anche materiale, cristallizzatasi persino – nel nostro caso – attraverso un luogo quale una ‘semplice’ stazione marittima. Non per niente, grazie all’ausilio di Mattia, ho cercato di tradurre in immagini concrete – le foto da lui scattate – ciò che all’inizio era la mia immagine introspettiva e personale. La foto ha il vantaggio certo di rendere palpabile un elemento che, altrimenti, rimarrebbe evanescente, legato all’immaginario ‘privato’ di un individuo. La foto ha un limite però: incornicia una fetta di spazio e un trancio di tempo tagliando fuori altri elementi, ugualmente importanti, del contesto. È inevitabile che questo avvenga! Con Mattia, tuttavia, ci siamo posti l’obiettivo – nel connubio ricomposto di relazioni instaurate con il testo scritto – di rinviare anche a quegli elementi che sfuggono alla cornice effettivamente posta. Un po’ per scherzo, un po’ seriamente, abbiamo definito le foto di Mattia ‘degli oltre cornice’: le sue foto, quindi, andrebbero viste, lette e decodificate in questo modo plurale. Ciò è in linea con l’intento generale che ci eravamo riproposti di attuare inizialmente: mettere in risalto i processi, più che i risultati o i punti finali del nostro pensare, ricordare e fotografare. Più che agli oggetti e ai soggetti, io e Mattia siamo interessati, infatti, ai processi di soggettivazione e oggettivazione. Questo aspetto vale anche per altro. Io ho lasciato correre i miei ricordi situandoli nel processo stesso in cui mi sono situato: non ho cercato di dare loro un ordine prefissato, mi sono affidato al disordine. Ho dato per scontato – seguendo l’ipotesi di Deleuze – che i ricordi fossero il tracciato, necessariamente ricontestualizzato, di un divenire senza né inizio né fine presupposti in cui imperversa il dialogo con la mia stessa coscienza e quella d’altri.
Io non ho il controllo dei miei pensieri; anzi, direi che, sovente, essi prendono il predominio e portano là dove essi desiderano, quasi a mia insaputa e diretta intenzione. Ragion di più, allora, per cercare di osservarli: osservare i flussi di pensiero nel modo in cui prendono corpo nelle varie situazioni retroagendo. Sembrerebbe difficile, se non proprio impossibile, farlo. In realtà, io penso alla cognizione in una prospettiva situata e non come un elemento racchiuso unicamente nella testa del parlante. La cognizione è, per me, situata e realizzata nell’interazione che si instaura con altri soggetti e oggetti, materiali e interazioni. Il contesto, dunque, acquisisce un’importanza considerevole – nel nostro lavoro e altrove – non soltanto in sé, ma anche in vista di mettere a fuoco sui flussi di pensiero e di azione. Un bell’orientamento, a noi consono, in questo senso è quello di Goodwin, secondo cui il presupposto di base è che pensare e agire – nonché significato e categorie – sono strettamente interrelati (Goodwin 2003).
Io e Mattia ci siamo prefissi questo fine in altri contributi sul ricordo con una prospettiva larga che intende recuperare quelle che sono due debolezze della ricerca nelle scienze sociali a nostro parere: la riflessione sulla soggettività dell’etnografo e la possibilità di una etnografia del pensare. Gli elementi relativi alla soggettività dell’etnografo dovrebbero essere presi in conto, debitamente, in ogni caso; l’etnografia, nella nostra prospettiva, dovrebbe essere vista come uno spaccato sulle regolazioni soggettivanti e oggettivanti in divenire. Ciò non sempre avviene nelle scienze sociali. Per quanto riguarda la possibilità di realizzare etnografie del pensare, noi siamo convinti che non ci si dovrebbe limitare a testi visivi che inquadrano soltanto il mondo esteriore, ma si dovrebbe prendere in conto – in tutti i modi possibili – il rimando all’interiorità del soggetto. Ciò non deve sorprendere, in ogni caso, se si tiene conto del fatto che l’ego non è un’entità sovra-culturale ma il risultato di orientamenti culturali. A titolo d’esempio, si può fare riferimento a Nakagawa, il quale afferma che, nella cultura giapponese, «l’io è definito, in funzione della circostanza, dal suo rapporto con l’altro: la sua validità è occasionale, al contrario di quanto accade nelle lingue europee, dove l’identità si afferma indipendentemente dalla situazione» (Nakagawa 2006: 19-20).
Ci sarebbero, in conclusione, tanti punti da riprendere e discutere in lungo e largo, incrociando le prospettive e le tematiche in parte affrontate man mano che i ricordi si presentavano e chiedevano conto delle questioni inevitabilmente interrelate: il valore culturale della morte, il senso catartico della scrittura, l’attribuzione di effetto dirompente all’auto-etnografia, il posto da riservare a un’antropologia della conoscenza oggigiorno, la prospettiva antropologica incentrata sul divenire e la possibilità stessa dell’etnografia del pensare, la rivisitazione del significato di cultura, l’apporto della letteratura alla conoscenza della cultura, la funzione sociale del caso, l’interazione tra continuità e discontinuità nella ricerca, la semantica e pragmatica della figura del padre. Ma non vogliamo, riprendendo tutti questi punti, trasformare questo saggio di foto-etnografia in un libro vero e proprio. L’intento, più che altro, era quello di scommettere sulle pratiche e sulla loro retroazione teorica. Invece, solitamente, succede il contrario: si dà preminenza alla teoria e si pensa la pratica come conseguenza diretta. Noi abbiamo capovolto l’assunto privilegiando la pratica e l’osservazione-partecipante. Ovviamente, nel tessuto che collega le varie tematiche individuate e collegate prende corpo soprattutto quella del ricordo e del ruolo che, possibilmente, occupa l’immagine nella sua circoscrizione effettiva.
I lettori, del resto, privilegeranno, come sempre, l’interesse da manifestare alle varie questioni sollevate. Io e Mattia vorremmo, però, che – quale che sia la ricezione individuale – i lettori tenessero in mente queste parole di Bateson che mettono avanti quella è stata la materia di fondo che ha animato alla base i nostri propositi: «l’epistemologia è il grande ponte che collega tutte le branche del mondo dell’esperienza – intellettuale, emotiva, osservativa, teorica, verbale e non verbale. Dal punto di vista dell’epistemologia, la conoscenza, la sapienza, l’arte, la religione, lo sport e la scienza sono collegati. Ci distacchiamo da tutte queste discipline per studiarle, e tuttavia siamo proprio nel centro di ciascuna di esse» (Bateson 1997: 359).
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Riferimenti bibliografici
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
Mattia Montes, viaggiatore fin dalla tenera età, prima in famiglia, poi da solo, ha sviluppato una passione di lunga data per la fotografia che ha trasformato, nel tempo e nei diversi luoghi in cui ha vissuto, in una riflessione sulle immagini e sull’immaginazione, nonché sulle modalità attraverso cui la fotografia stessa diventa sedimentazione della memoria ed elemento di soggettivazione individuale e sociale nel mondo. Oltre che alla pratica e teoria della foto, si interessa agli oggetti, al loro ruolo simbolico, e si considera appassionato collezionista di macchine fotografiche d’epoca.
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