di Maria Sirago [*]
Introduzione
Il sistema feudale introdotto dalla monarchia normanno-sveva nel Mezzogiorno è rimasto in vigore fino al 1806, quando Giuseppe Napoleone promulgò la legge eversiva della feudalità. Tra i diritti esatti dai feudatari ve ne erano alcuni “di mare” per le dogane, l’approdo e la pesca, che, uniti a quelli statali, avevano limitato lo sviluppo commerciale del Mezzogiorno (Sirago, 1993).
Su queste tematiche si è interrogata la storiografia a partire dagli anni ’60 del Novecento. Ruggiero Romano in suo studio del 1989 ha riproposto le analisi formulate negli anni precedenti ribadendo che il fenomeno del feudalesimo ha mantenuto la stessa struttura per tutto il periodo, a partire dall’epoca normanno-sveva, anche nel corso del Settecento, quando si sono concretizzati i tentativi più decisi per liberarsi dalle maglie del sistema, ribaditi durante la Repubblica Partenopea del 1799. Anche Gerard De Lille in una indagine sulle strategie familiari del Regno ha tracciato un rapido excursus sul modello feudale del Mezzogiorno, dividendolo in tre fasi: nella prima, tra gli inizi del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento spesso si sono avute devoluzioni in favore del potere regio o per mancanza di eredi o per fellonia o ribellione dei baroni; la seconda, tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento ha visto un incremento di vendite di grossi patrimoni come quelli dei Sanseverino di Bisignano o Salerno, per fellonia o indebitamento; infine tra la seconda metà del Seicento ed il Settecento la carta feudale non ha subìto sostanziali mutamenti.
La stessa situazione si è verificata in Calabria. Il primo e il secondo periodo sono stati studiati da Giuseppe Galasso (1973) che ha tracciato una mappa dei possessi feudali. Fino all’inizio del Cinquecento la terra era concessa dal re e vi erano state continue devoluzioni sia nel periodo aragonese a causa della congiura dei baroni, sia ai primi del Cinquecento quando iniziò il dominio spagnolo, per cui furono redatte molte “reintegre” o “platee” (Berardi, 2021). Difatti Ferdinando il Cattolico confermò il possesso feudale anche ai baroni notoriamente “filoanzuini” come i Sanseverino, rispettando gli accordi di pace (Sirago, 1997b). Ma nel 1528 l’esercito francese capitanato da Odet de Foix, conte di Lautrec, assediò Napoli mentre la flotta di Andrea Doria, capitanata dal nipote Filippino, sbaragliava quella napoletana. Le sorti del Regno sembravano segnate: ma il generale francese morì di peste e Andrea Doria decise di passare dalla parte francese a quella spagnola per cui la città fu liberata. Molti baroni accusati di fellonia fuggirono in esilio e i loro beni, sequestrati, furono ceduti a nuovi feudatari, in particolare genovesi. Un caso esemplare è quello di Andrea Doria, passato dai francesi alla Spagna con la sua flotta di 12 galere, che nel 1531 ottenne il feudo di Melfi col titolo di principe, un feudo in cui si produceva abbondante grano, necessario per produrre il biscotto per la ciurma (Sirago, 2018)
Aurelio Cernigliaro ha sottolineato che la Corona nella fase iniziale di riorganizzazione del Regno aveva avviato un processo diretto ad indebolire i caratteri patrimoniali acquisiti nel secolo precedente. Nel Cinquecento il feudatario ha cercato di ampliare il suo potere giurisdizionale, con l’acquisizione della giurisdizione delle prime cause (primo grado) assumendo il ruolo di “iudex ordinarius loci”. Ma il potere baronale è stato limitato dal viceré don Pedro de Toledo, per cui i poteri giurisdizionali sono divenuti preminenti dal punto di vista politico e sono serviti per l’accrescimento della valutazione economica del feudo. Perciò il viceré tendeva ad indebolire le grandi casate, come quelle dei Sanseverino, da sempre “filoanzuine”, i cui patrimoni dalla seconda metà del Cinquecento furono parcellizzati (Cernigliaro, 1984: 460ss.).
Il momento di crisi ha dato il via ad un sostanziale mutamento della carta feudale, fenomeno studiato da Fernand Braudel fin dal 1949. Negli anni Sessanta Ruggiero Romano per spiegare tale fenomeno ha utilizzato il termine di “rifeudalizzazione”, un concetto ripreso poi da Rosario Villari. Giuseppe Galasso (1973) non era però d’accordo sull’uso di tale termine, che presupponeva, a suo parere una precedente “defeudalizzazione” con una conseguente rinascita della feudalità, cosa mai avvenuta perché la feudalità è rimasta in vigore con le stesse modalità lungo il corso dei secoli. Nel 1984 si è tenuta a Verona una giornata di studio sulla tematica della “rifeudalizzazione”. Giovanni Muto in tale occasione ha presentato gli esiti di una ricerca sulla feudalità meridionale e sulla discussione in merito all’uso del termine, concludendo che il problema resta aperto. Difatti esiste una “rifeudalizzazione” in quanto la feudalità ha assunto nuove caratteristiche derivanti dai nuovi ceti che si sono inseriti nelle sue file, i “nobili di toga”, desiderosi di assurgere allo status della antica “nobiltà di spada”. Ma anche se molte antiche casate, come i Sanseverino, perdono terreno per un preciso disegno politico, nel complesso si nota una tenuta dell’antica nobiltà.
I “diritti feudali di mare”
Per lo sviluppo delle attività commerciali mercanti, armatori, capitani di navi oltre i diritti statali dovevano pagare dei diritti feudali “di mare”, corrisposti anche da quelli che esercitavano le attività di pesca. Tra le strutture finanziarie fu creato l’ufficio di dogana, con funzioni deliberative, che concedeva i dazi e riscuoteva i diritti feudali. Il territorio meridionale in epoca normanna fu diviso in 11 Giustizierati, comandati dai Giustizieri, a cui re Ruggiero aveva delegato le competenze di natura feudale (Cuozzo, 1988: 662). Anche i porti furono organizzati col sistema feudale, sulla base del concetto medievale di “mare territoriale”, secondo il quale la distesa delle acque o il tratto di mare erano considerati parte di uno Stato rivierasco e pertanto soggetti alla sovranità del feudatario (Vismara, 1978: 693).
I Normanni stabilirono degli specifici diritti nei territori prospicienti il mare per l’approdo, il commercio e la pesca. In un porto grande dove si poteva calare l’ancora si pagava il diritto di ancoraggio, nei porti più piccoli, dove si levano le imbarcazioni alle falanghe o bitte quello di falangaggio. Anche in alcuni porti in demanio regio, come quello della Capitale, si pagavano diritti di ancoraggio, i cui proventi erano utilizzati per le riparazioni necessarie. Si pagavano poi diritti per il commercio, il diritto di dogana, pari a “18 grana a oncia”, quello di fondaco, lo ius scalaticii (dazio da pagare per ogni collo di merce da sbarcare a terra), che i commercianti dovevano pagare ogni volta che approdavano in un porto o scalo, anche in caso di tempesta (Sirago, 2014). Inoltre dovevano pagare il diritto di dogana statale esatto dai doganieri e credenzieri, controllati dal Mastro Portolano, che in Calabria Citra risiedeva a Paola, alle dirette dipendenze della Regia Camera della Sommaria (Sirago, 2004, tab. 3). Anche per la pesca si pagavano specifici diritti, la “decima del pesce”, cioè la decima parte del pesce pescato, la “fida di mare”, simile a quella pagata per il pascolo, ecc. (Sirago, 2014).
I Sanseverino principi di Bisignano
La famiglia Sanseverino era venuta verso il 1045 dalla Normandia nel Regno meridionale al seguito di Roberto il Guiscardo, che concesse loro la contea di Sanseverino, uno stato nello Stato per la vastità delle terre infeudate. Dopo alcuni anni si divise in vari rami, quello dei principi di Salerno e quello dei duchi di San Marco, poi principi di Bisignano, che parteciparono alle numerose imprese belliche in cui furono coinvolte sia la monarchia normanno-sveva che quella angioina (Brandi Cordasco Salmena, 2005).
Durante il periodo aragonese la famiglia Sanseverino di Bisignano aveva beneficiato della nuova politica economica perseguita da re Alfonso. Egli, dopo la conquista del Regno meridionale, aveva organizzato un piano di riqualificazione dell’area marittima napoletana, in vista dell’incremento dei traffici marittimi, per far assumere al porto di Napoli un aspetto simile a quelli di Barcellona e Marsiglia, proseguendo l’opera di rinnovamento avviata dagli Angioini (Schiappoli, 1972). In questo rinnovato incremento commerciale si inserirono potenti famiglie feudali come i Sanseverino di Bisignano, divenute in breve una delle famiglie più importanti del Regno meridionale. Luca Sanseverino, successo al padre Antonio, dopo aver aiutato la monarchia con sue truppe nel 1459, l’anno seguente ottenne alcune “grazie” per sé e per gli altri baroni che si erano alleati con il re. Poi per ampliare il suo Stato feudale nel 1462 acquistò Bisignano col titolo di principe. Inoltre ebbe la conferma del possesso di alcuni diritti feudali, tra cui la concessione di 100 once sulla gabella della seta, privilegio ottenuto dalla famiglia fin dal 1359. Aveva anche avuto il diritto di estrarre “1000 salme di grano dai propri territori” senza il pagamento di tasse e di estrarre sale per il valore di “60 once d’oro” dalle saline di Altomonte.
Tali prerogative avevano permesso al principe di incrementare le attività “protoindustriali” dei suoi feudi, creando uno “Stato” capace di rendere autonomo lo stesso principe, che aveva ottenuto anche di tenere 200 uomini armati a difesa dei suoi vasti territori (Galasso, 1973). In un primo momento sembrò esserci un accordo tra i re aragonesi e i principi di Sanseverino. Così Luca poté dare un forte impulso all’economia locale, facendo sviluppare il commercio del sale, dello zucchero (cannameli) e della seta esportati dai porti dei suoi feudi marittimi tirrenici di Abbatemarco, Grisolia, Buonvicino, Belvedere col casale di Diamante, Sangineto col casale di Bonifati, Sangineto [1]. Inoltre incrementò la coltivazione delle terre, trasformando il suo principato in una delle regioni più fertili della Calabria (Savaglio, 1997). La rendita maggiore derivava dalla gabella della seta acquistata dalla Regia Corte per 18.000 ducati, il che permise di consolidare tutto lo Stato, come si vede dal testamento stilato il 14 gennaio 1471 (Brandi Cordasco Salmena, 2005: 19-24).
Anche il figlio Gerolamo si occupò della gestione dei beni feudali rivendendo i prodotti dei “terraggi” (soprattutto grano, olio e vino) ai mercanti stranieri [2] insieme ad alcune manifatture che si producevano nei suoi feudi, in primis a Morano, dove erano stati impiantati dei “battinderi” o gualchiere, utilizzati per la lavorazione dei panni (Sposato, 1958). In tal modo aveva accresciuto ulteriormente la potenza economica del suo Stato. Egli era anche impegnato in questioni politiche come Gran Camerario del Regno ed aveva instaurato buoni rapporti con re Ferrante. Nel 1477 il re lo aveva inviato in Spagna insieme ad altri baroni, tra cui il principe di Salerno per accompagnare il duca di Calabria Alfonso che doveva condurre a Napoli Giovanna d’Aragona, sua futura sposa (Russo, 2017). Ma negli anni Ottanta si ebbe una svolta nella politica di Ferrante che mostrava di voler gestire il potere in modo molto più autoritario rispetto ai suoi predecessori, per cui la pacificazione promossa a partire dal 1459 si rivelò effimera. Inoltre i baroni ben sapevano che il suo successore Alfonso, duca di Calabria, aveva idee antibaronali poiché non aveva dimenticato la ribellione in Calabria negli anni tra 1459 e 1464 fomentati da Antonio Centelles. Perciò cominciarono a mostrare malcontento insieme alla popolazione civile nei confronti della politica accentratrice del re e dell’inasprimento fiscale per cui la situazione politica si deteriorò. Difatti in quegli anni si stava raccogliendo il denaro per il riarmo della flotta necessaria per contrastare gli assalti dei turchi che nel 1480 arrivarono ad assediare l’isola di Rodi, sede dei Cavalieri Gerosolimitani e poi sferrarono un cruento attacco ad Otranto, in Puglia (Sirago, 2018: 40ss.)
In questa situazione di crisi i feudatari decisero di passare all’offensiva organizzando nel 1485 la cosiddetta “Congiura dei baroni”, incoraggiata da papa Innocenzo VIII, Giovanni Battista Cybo, che voleva indebolire la monarchia aragonese (Porzio, 1964). Uno dei principali animatori della congiura fu proprio il principe Girolamo, risentito del comportamento del re. Pian piano il sovrano, vedendo l’aumento del suo potere, aveva cominciato a porvi dei limiti, non concedendogli di avere con sé gli uomini d’arme, privilegio già inserito tra le numerose prerogative feudali. Nel 1484, durante la guerra contro Venezia, al principe fu concesso di difendere le coste calabre nella contea di Cariati, saccheggiate dai nemici, coadiuvato da altri importanti feudatari, come il conte di Sarno Francesco Coppola, e funzionari regi come Antonello Petrucci. Ma poi i feudatari decisero di agire contro il re: così il Coppola e il Petrucci nel 1485 lo contattarono anche tramite il cugino Antonello, principe di Salerno (Colapietra, 1985: 45ss.) per organizzare un sommovimento chiamato appunto la “congiura dei baroni”.
A Miglionico, feudo del principe di Bisignano, si svolsero le trattative tra i baroni decisi alla ribellione e i delegati del re, riprese a Melfi. Poi Girolamo raggiunse il cugino Antonello, principe di Salerno, con cui doveva recarsi a Napoli. Malgrado l’appoggio dello Stato Pontificio, i congiurati non riuscirono nel loro intento. Scoperta la congiura, il re si alleò col ducato di Milano e la repubblica di Firenze punendo i suoi avversari. Girolamo e Antonello, fatti venire nella reggia, furono arrestati nella notte del 4 luglio 1487 insieme al Petrucci e al Coppola, durante il banchetto nuziale del figlio del conte di Sarno (Porzio, 1964: 156). Girolamo fu recluso in Castel Nuovo dove pare sia sopravvissuto fino al 1494, anno della conquista francese. Invece il figlio Berardino fuggi in Francia nel 1487 con la madre Mannella Caetani, figlia del conte di Fondi. E lo stesso fece il principe di Salerno Antonello Sanseverino (Russo, 2017).
Dopo la “congiura”, conclusasi nel sangue, Ferrante cercò di ricostruire il tessuto politico e sociale del regno, per ritrovare un accordo coi baroni superstiti. Alla sua morte, il 25 gennaio del 1494, gli successe il figlio Alfonso II. Intanto Carlo VIII scendeva in Italia con l’appoggio di alcuni baroni esuli, tra cui Berardino e Antonello Sanseverino. Ma fallita l’impresa della monarchia francese. ci fu una ulteriore restaurazione aragonese. Morto all’improvviso Ferrandino, gli successe lo zio Federico che per pacificare gli animi riconfermò i privilegi a tutti i feudatari, anche quelli “filoanzuini”, come i principi di Bisignano e Salerno. Il principe di Bisignano preferì ritirarsi nei suoi Stati di Calabria, poi nel 1499 tornò a Napoli, manifestando però di volersi estraniare dalle questioni politiche, visto che ormai la dinastia aragonese era in piena crisi. Poco dopo iniziava la guerra tra Francia e Spagna, conclusasi con la vittoria di Ferdinando il Cattolico che nel 1503 occupò il Regno meridionale (D’Agostino, 1986: 628ss.).
Durante la guerra tra Francia e Spagna. la situazione di Berardino e di altri feudatari napoletani appariva incerta. Secondo Marino Sanudo (1879-1902, IV: 513, V: 246, 696 e 699), il principe di Bisignano dalla fine del 1502 era “rinchiuso” nel suo Stato ed ancora nel novembre dell’anno seguente combatteva contro gli spagnoli. Poi nel gennaio del 1504 era rimasto “prexon” mentre si decideva di vendere i suoi beni, che erano stati sequestrati. Invece secondo la recente storiografia (Brandi Cordasco Salmena, 2005), era fuggito in Francia dal 1501, rimanendovi fino al 1510. Comunque Ferdinando il Cattolico il 27 aprile 1506 firmò a Valladolid il diploma di riconferma dei possessi feudali in ottemperanza dei capitoli di pace firmati dai re di Francia e Spagna [3]. Pian piano la casa dei principi di Bisignano e di Salerno andava riprendendo la sua posizione preminente. Ma Berardino preferiva tenersi defilato e non dimenticava la Francia. Difatti nel 1510 aveva rifiutato di combattere contro la Francia adducendo a motivo il fatto di essere dell’ordine dei cavalieri. E fino al 1516, anno in cui morì, visse nei suoi feudi, lontano dalla vita politica (Brandi Cordasco Salmena, 2005: 30-31)
Per rinsaldare il legame con la monarchia spagnola nel 1511, seguendo il sistema in uso delle alleanze politiche tramite legami familiari, aveva fatto sposare l’erede Pietrantonio, conte di Chiaromonte, con Giovanna Requenses, figlia di Galceran, conte di Trivento, Avellino e Palamos, un importante ammiraglio dell’epoca aragonese (Savaglio, 2022: 34). Nel 1516, quando Pietrantonio ereditò i feudi, ottenne da Carlo V un diploma di ratifica per il possesso di tutti i beni feudali appartenuti al padre, riconfermato nel 1520 insieme a tutti i privilegi concessi dai re aragonesi (Cernigliaro, 1985, I: 717-722). Il giovane principe, appena diciottenne, era ben deciso a risollevare le sorti della casata per cui, subito dopo la morte del padre, si recò a corte in Spagna per rendere omaggio al nuovo sovrano Carlo V proclamato imperatore a soli 19 anni. Come primo atto della munificenza imperiale ottenne l’ambita onorificenza dell’ordine cavalleresco del “toison de oro” (Sanudo, 1879-1902: XXVIII, 91). con cui erano insigniti i nobili più ragguardevoli, un segno preciso del sovrano che voleva riconoscere l’antica nobiltà del principe, primo tra gli italiani ad avere ottenuto questo riconoscimento.
Il 20 dicembre 1520 ottenne anche la carica di governatore delle province di Calabria Citra e Ultra in sostituzione di Fernando de Alarcon, marchese di Rende e della Valle Siciliana, il generale che aveva partecipato alla conquista di Napoli insieme al Gran Capitano Consalvo de Cordoba. Poco dopo tornò in Italia accompagnato da 70 cavalieri e 80 servitori, sostando a Firenze. Poi si fermò a Roma dove celebrò le nozze con Giulia Orsini, figlia illegittima di papa Giulio II (Savaglio, 2022: 48ss.). Infine decise di tornare nei suoi Stati calabresi poiché aveva contratto un debito di 26.000 ducati, spesi per il viaggio e il matrimonio, per cui voleva «vivere con poca spesa per pagar questo debito fatto» (Sanudo, 1879-1902: XXX, 290-91). La stessa gabella della seta, uno dei principali cespiti, era impegnata del 50-60% sul reddito annuo (Galasso, 1973: 249-252).
Ma la tranquillità fu di breve durata. Dopo lunghi anni di tregua la guerra tra Francia e Spagna si riaccese. La Francia inviò in Italia il generale Odet de Foix, conte di Lautrec, alla guida di 1.000 uomini d’armi e 26.000 fanti, che nel 1528 arrivò ad assediare Napoli mentre la flotta napoletana subiva una terribile sconfitta a Capo d’Orso, presso Salerno, dove morì il viceré Ugo de Moncada (Sirago, 2018: 124). In quel frangente si cominciò a discutere sulle modalità di difesa da intraprendere: numerosi baroni si riunirono ad Atripalda, specie quelli di antica fede francese, che avrebbero potuto facilmente intavolare un dialogo col Lautrec. In maggio, dopo la sconfitta di Capo d’Orso, la battaglia continuò ad infuriare in Calabria, dove accorse il principe di Bisignano. Intanto Ferrante, principe di Salerno, al comando del cugino Alfonso d’Avalos, era corso in difesa della Capitale, assediata dal Lautrec. Ma all’improvviso Andrea Doria il primo luglio decise di passare con la sua flotta dalla parte francese a quella spagnola. Poi in agosto il generale Lautrec morì di peste, perciò la guerra si risolse a favore degli imperiali che a fine 1529 firmarono la pace con la Francia (D’Agostino, 1976: III).
In questo momento di rinnovata pacificazione il principe di Bisignano cominciò a essere presente nelle più importanti occasioni. Nel 1531 si era recato dall’Imperatore a Bruxelles per assistere ad un capitolo del Toson d’oro. Ma Carlo V mostrava sempre un po’ di diffidenza nei suoi confronti, non dimenticando le azioni di suo padre; e lo stesso era per il cugino Ferrante (Savaglio, 2022: 126 ss.). Quando il viceré Toledo convocò un parlamento straordinario per raccogliere i fondi necessari per organizzare le galere che dovevano partecipare alla “impresa” di Tunisi, i baroni risposero all’appello raccogliendo 150 mila ducati. Ed alcuni di essi, Pietrantonio Sanseverino, Alfonso d’Avalos, Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, armarono una galera ciascuno (Sirago, 2018: 117-118). Dopo la vittoria, il 20 luglio 1535, Carlo V decise di compiere un lungo viaggio trionfale dalla Sicilia a Napoli, acclamato come un “novello Scipione” da Garcilaso de la Vega, un uomo di armi e lettere che aveva partecipato alla battaglia. Arrivato in Calabria ai primi di novembre si fermò presso il principe di Bisignano nella tenuta di San Mauro e poi in quella di Corigliano dove fu ricevuto in modo regale.
Il principe era stato allevato amorevolmente dalla madre Eleonora Piccolomini, figlia del duca di Amalfi, donna di elevata cultura e molto avvenente, crescendo in un ambiente colto e raffinato, ricreato poi nella sua dimora calabrese, dove spesso dimoravano intellettuali e poeti come Luigi Tansillo, un protetto del principe, che scrisse molti versi in suo onore, e Laura Terracina. Carlo V e la sua corte rimasero ammirati per lo sfarzo del ricevimento, la bellezza degli alloggi, l’abbondanza del vino e le bellissime cacce organizzate in onore dell’imperatore. Ripartito alla volta di Napoli l’imperatore fu accompagnato dal principe Pietrantonio (Savaglio, 2012). Al suo ingresso trionfale in città, il 25 novembre, fu accolto dai massimi dignitari del Regno e dai più importanti feudatari, tra cui i principi di Bisignano e Salerno. Inoltre Pietrantonio ebbe l’alto onore di stare a capo coperto al cospetto dell’imperatore. Nei mesi di permanenza di Carlo V a Napoli, fino al mese di marzo del 1536, la corte militare, protagonista della campagna africana, diede il passo alla corte aristocratica immersa nella società galante di una città abitata da principi. Anche il principe di Bisignano, come il cugino Ferrante, organizzò una sontuosa festa per l’imperatore nel suo palazzo napoletano, odierna chiesa del Gesù Nuovo, (Hernando Sanchez, 2001).
I feudatari, in primis Andrea d’Avalos e il cugino Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, avevano mostrato la loro magnificenza nei confronti dell’imperatore, offrendogli tutto l’aiuto possibile. Chiedevano però in cambio la rimozione del viceré don Pedro di Toledo, mal sopportando la sua intransigente politica assolutistica. Ma l’imperatore non aveva voluto privarsi di un fedele e capace funzionario, ben sapendo che la politica toledana era necessaria per mantenere i feudatari al loro posto (Hernando Sanchez, 1994).
Il principe di Bisignano da parte sua continuò a mostrarsi fedele all’imperatore. Invece il cugino Ferrante mostrava spesso il suo malcontento ed era sempre più inviso al Toledo. Ma i due cugini continuavano a condurre una vita sfarzosa, e questo forse era un elemento del malcontento manifestato dal viceré Toledo, che mal sopportava l’ostentazione del loro status. Difatti, il principe di Bisignano nel 1539, dopo la morte della prima moglie, aveva sposato con una fastosa cerimonia Irene Castriota Scanderberg, pronipote dell’eroe albanese Giorgio, duchessa di San Pietro in Galatina, figlia unica ed erede del duca Ferrante, che nel 1541 gli diede il sospirato erede Niccolò Berardino (Savaglio, 2022: 274ss.). Ella era una bellissima e affascinante dama, molto colta, per cui collaborava col marito, amante della musica, nell’allestire sontuose feste nei suoi feudi calabresi e a Napoli, sul tipo di quelle che si svolgevano a Salerno nella corte di Ferrante e Isabella Villamarina, altra colta dama, di cui era segretamente innamorato il poeta Garcilaso de la Vega (Sirago, 2021: 76 ss.).
Il principe in quegli anni insieme alla moglie si era preoccupato di riorganizzare i suoi feudi facendo anche raccogliere e censire le popolazioni albanesi venute in Calabria al seguito del nonno della moglie, Giorgio Castriota Scanderberg. Inoltre aveva provveduto ad una reintegra feudale tra le più sistematiche ed onerose per i cittadini, facendo organizzare una commercializzazione in grande stile dei prodotti, specie quelli cerealicoli. L’epicentro di questa produzione era sito nelle grandi tenute di Gadella e Polinara, nei territori di Cassano, sfruttate con razionalità programmata dal genovese Antonio Spinola a cui erano state affittate (Colapietra, 1997: 158-160).
Ma mentre si allestivano feste dagli anni Quaranta cominciavano ad addensarsi fosche nubi sulla città e sul ceto aristocratico. Il viceré temeva che i feudatari di antica fede “filoanzuina” come i Sanseverino potessero tramare contro la monarchia spagnola, perciò aveva operato in modo da limitarne il potere. Da questo malcontento scaturì il movimento scoppiato nel 1547 quando il Toledo tentò di introdurre l’Inquisizione “all’uso di Spagna”, con denuncia anonima e sequestro dei beni degli inquisiti. La città si sollevò chiedendo a gran voce che fosse ripristinata l’Inquisizione “secondo l’ordinario”, cioè gestita dal vescovo napoletano, una richiesta formulata anche nelle altre sollevazioni che si ebbero tra Cinquecento e Seicento. Il principe di Salerno fu inviato in missione in Spagna. Al suo ritorno, malgrado l’insuccesso della missione, fu accolto in modo trionfale, il che inasprì ancor più il Toledo, che cominciò a tramare contro di lui. Perciò Ferrante decise di fuggire in Francia insieme al suo fedele segretario Bernardo Tasso (Pilati, 2015).
Invece il principe di Bisignano, dissociandosi dal cugino, si schierò a favore del viceré, cavalcando a suo fianco per la città il 26 maggio, quando cessarono i tumulti, svolgendo un ruolo di mediatore. In tal modo poté consolidare il potere feudale, distanziandosi dall’operato di Ferrante. Nel 1552, quando il cugino fu condannato definitivamente per tradimento e gli furono sequestrati i beni, Pietrantonio, aggregato al Consiglio Collaterale, votò per la sua condanna. Nel 1554 le Piazze Nobili lo scelsero come sindaco, cioè come rappresentante ufficiale per la città e il baronaggio alla sinistra del viceré, il cardinale Pedro Pacheco, nella cerimonia in onore Filippo II, investito del Regno da Carlo V. Nel parlamento del 1555 fu deputato in rappresentanza dei baroni titolati. Due anni dopo, affetto da idropisia andò a curarsi con le acque termali delle Fiandre, poi desiderò consultare dei medici in Francia, ma morì a Parigi l’8 aprile 1559 e fu sepolto nel convento di S. Francesco di Paola a Bisignano (Savaglio, 2022).
Dopo la sua morte il figlio Niccolò Berardino ottenne da Filippo II la conferma dei privilegi concessi al padre da Carlo V [4] . Ma la situazione patrimoniale cominciava a mostrare segni di sofferenza. Fin dal 1555 il padre si era dovuto mettere sulla difensiva sia per i creditori dei suoi vassalli che per i commissari regi che volevano controllare il reddito dei suoi raccolti, specie di grano. Poi negli anni Sessanta, durante la minorità di Niccolò Berardino, sotto la tutela della madre Irene, si cominciò già ad intravedere la parabola discendente dei principi di Bisignano, ascritti a motivi amministrativi, di cattiva gestione del patrimonio, ma anche politici, visto che i viceré approfittarono della cattiva gestione del patrimonio per limitare l’enorme potere dei Sanseverino, già fiaccati nel ramo di Salerno (Colapietra, 1997: 165 ss.).
All’inizio il giovane principe mostrò fedeltà alla monarchia spagnola partecipando alla difesa delle coste calabre continuamente assalite dai turchi specie dopo l’assedio di Malta del 1565 con uomini raccolti nelle sue terre. Nel 1566 sposò a Pesaro Isabella della Rovere Feltri, figlia del duca di Urbino Guidobaldo della Rovere II, che peraltro era stata avvertita dalla suocera della troppa “liberalità” del figlio. Rimase per due anni in quella corte, poi tornò nei suoi Stati di Calabria. Ben presto però cominciò a mostrare il suo pessimo carattere che lo portò ad avere aspri dissidi con la moglie, a causa della vita dispendiosa che lo portava a contrarre ingenti debiti, difficilmente estinguibili malgrado il ricco patrimonio. Egli viveva attorniato da circa 300 cortigiani; amava viaggiare spesso tra la Calabria e Napoli, ma anche a Pesaro, Firenze, ecc. Seguendo le abitudini famigliari organizzava mascherate, giostre, feste ed allestiva commedie, diffondendo l’innovazione dell’aggiunta di musica e ballo. Fu un mecenate di musicisti e poeti come Torquato Tasso. Insomma i contemporanei lo definirono sommamente “prodigo”. Egli reperiva il denaro ipotecando i beni (Benaiteau, 2017). Perciò la monarchia spagnola fin dal 1574 aveva emanato in maniera cautelativa un ordine con cui si permetteva al principe di poter disporre del suo patrimonio previo assenso regio. Nel 1577 il sovrano affittò il suo Stato per 130 mila ducati, aumentati a 140 mila nel 1581.
Dopo molte accorate suppliche della moglie, che reiteratamente accusava il marito di mandare in rovina la casa, nel 1587 Filippo II ordinò al viceré Giovanni de Zuñica, conte de Miranda, di interdire il principe. Poi nel 1590 nominò come curatore del patrimonio Fabrizio de Sangro, duca di Vietri che ottenne la ratifica della nomina quattro anni dopo, quando presentò i bilanci. Egli ebbe anche l’ordine di vendere feudi fino a 50 mila ducati per coprire in parte i debiti. Dal 1599 lo Stato fu affidato ad altri curatori, don Giovanserio di Somma, Lelio Orsini, un suo parente (1601-1603), il conte di Conversano, Adriano Acquaviva (1603-1606) (Galasso, 1978). Il Ceci (1899) ricorda che il principe Nicolò Berardino ricavava dalla rendita dei beni feudali una cifra enorme, 180 mila rispetto ai 234 mila di tutti gli altri feudatari che egli elencava, di cui una buona parte era ricavata dalla gabella della seta, che in quaranta anni era cresciuta del 70%.
Nel 1588 il principe fu arrestato e posto in carcere dove rimase per otto anni per “emendazione di vita”. L’Amabile racconta che fu rinchiuso nel castello di Gaeta; poi nel 1596 fu trasferito a Castelnuovo dove ricevette la visita di fra’ Tommaso Campanella, che compose un sonetto in suo onore. Infine nel 1598 fu trasferito nella sua dimora a Chiaia “in luogo di carcere”. Poco tempo dopo fuggì a Pesaro, poi a Ferrara. Poi nel gennaio 1599 ebbe il permesso di tornare libero a Napoli, dove visse fino alla morte, nel 1606 (Benaiteau, 2017). Il principe, di ritorno a Napoli, aveva nominato re Filippo III suo erede universale, visto che l’unico erede Francesco Teodoro era morto nel 1595. Così il patrimonio feudale che aveva cominciato ad essere smembrato per pagare i creditori, venne definitivamente parcellizzato. Dopo la sua morte si accese un’aspra lotta per la successione che vide vincitore Luigi Sanseverino conte della Saponara. Egli conservò il titolo di principe per la terra di Bisignano e pochi feudi; inoltre gli fu confermato il privilegio di tenere armati nell’ambito della propria giurisdizione territoriale. Invece i beni burgensatici, cioè personali, tra cui la gabella della seta, furono concessi a Giulia Orsini figlia della sorella primogenita di Nicolò Berardino, moglie di Tiberio Carafa (Galasso, 1973: 15).
I feudi dei principi di Bisignano in Calabria Citra
Versante tirrenico: Abbatemarco (oggi Santa Maria del Cedro), Grisolia, Belvedere col “castello” di Diamante, Sangineto e il suo casale di Bonifati
Nella seconda metà del Quattrocento anche la Calabria aveva beneficiato della politica economica aragonese. Perciò si era sviluppato un fiorente commercio dei prodotti ricavati dalle varie attività “industriali” del territorio, in primis quella della seta, la cui gabella era un possesso burgensatico (o personale) dei Sanseverino di Bisignano. Vi era poi l’estrazione del sale da alcune saline marine o montane, come quella di Altomonte, possesso feudale degli stessi Sanseverino e dell’argento, nell’”argentiera” di Longobucco, proprietà feudale della famiglia Coppola (Sposato, 1952-1953). Di conseguenza si era incrementato anche il settore costruzioni navali, sia di piccole imbarcazioni mercantili che di galere per la flotta, che utilizzavano materiali calabresi: in un manoscritto probabilmente degli inizi del ‘500, si notava che in Calabria Citra vi era “abbondanza d’alti pini” e produzione di “molta pece … greca e tarentina” nei boschi della Sila e nei casali di Cosenza e in Calabria Ultra si trovavano ”grandissimi alberi” necessari per la costruzione di Navi, Galere et altri Vascelli marittimi” nei boschi dell’Aspromonte [5]. Molti mercanti stranieri, soprattutto catalani, commerciavano i prodotti tratti dalla fiorente attività “protoindustriale” (Del Treppo, 1968), in contatto con le potenti famiglie feudali, soprattutto i Sanseverino, che possedevano un gran numero di feudi di Calabria Citra e Basilicata (Tabella 1)
Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento questa attività entrò in crisi a causa della guerra tra Francia e Spagna, Ma dopo la conquista spagnola, nel 1503, le attività commerciali ripresero con più vigore. Camillo Porzio, nella relazione scritta tra il 1577 e il 1579 sottolineava: «usano i Calabresi più di tutti i regnicoli il mare e vi riescono buoni marinai». Nelle carte disegnate dall’ammiraglio turco Piri Reis agli inizi del ‘500, è citato il solo approdo di Scalea (Bausani 1979). Comunque vi era una certa attività cantieristica dedita alla costruzione di galere per la flotta con materiali della Sila (pece e alberi), come si era fatto in epoca aragonese. Cetraro, possesso feudale del monastero di Montecassino, era un “caricatoio” per i remi lavorati in zona per il regio arsenale napoletano. Nel 1533 nell’astillero (arsenale) di Cetraro, in Calabria Citra, erano in costruzione 6 galere, bruciate poi dall’armata turca al comando di Barbarossa. L’anno seguente il principe di Bisignano aveva fatto costruire nello stesso territorio una galera da unire a quelle spagnole con cui Carlo V nel 1535 conquistò Tunisi (Sirago, 2018).
Lo sviluppo economico era particolarmente fiorente lungo la costa tirrenica della Calabria Citra, più alta e ricca di insenature, quindi più difendibile dagli attacchi nemici. Il porto più importante era quello di Paola, “loco di marina et trafico”, sede della dogana statale, dove risiedeva il Mastro Portolano di Calabria Citra. In questo territorio si era sviluppata una fiorente attività peschereccia, anche se i pescatori dovevano pagare i “diritti di mare” ai feudatari. Invece la costa ionica era bassa e sabbiosa e tutte le cittadine si erano arroccate in collina, per difendersi dagli attacchi dei turchi e barbareschi (Mafrici, 1980). Ma il territorio era fertile e si produceva molto grano, come nel feudo di Corigliano dei Sanseverino; invece la pesca era poco praticata. Lungo la costa vi era il solo porto di Crotone, dove a metà Cinquecento era stato costruito un castello difeso da un presidio di soldati, che dovevano controllare tutta la costa. E qui si svolgeva un fiorente commercio, soprattutto di grano e olio prodotti nel territorio circostante (Sirago, 1993).
I Sanseverino lungo il litorale tirrenico, in Calabria Citra, possedevano numerosi feudi sulla costa, Grisolia, Abbatemarco (odierna Santa Maria del Cedro), Buonvicino, Belvedere col casale di Diamante, Bonifati con la marina di Felle, Sangineto col porto delle Crete, tutti “caricatoi di zucchero” o cannameli. Gli zuccheri erano esportati secondo i privilegi feudali “franchi di dogana”, cioè senza pagamento di diritti fiscali (Galasso, 1973), soprattutto nella costiera amalfitana, ma anche più lontano, alla fiera di Lanciano, in Abruzzo Citra (Sposato, 1952-1953).
La coltivazione della canna da zucchero, menzionata in epoca normanna in documenti arabi, dapprima era stata introdotta in Sicilia (Signorello, 2006). Poi al tempo di Federico II era stata introdotta in Calabria lungo il litorale cosentino da Aieta, Tortora, Scalea, Abatemarco Belvedere e Diamante ed anche nella zona di Bivona (Vibo Valentia), Briatico e Pizzo, nella piana di Gioia e vicino Reggio, a Catona. Inoltre i Sanseverino avevano provato ad introdurla a Cassano, sulla costa ionica (Barrio, 1571, I: 59-61). Rispetto alle industrie siciliane quelle calabresi erano più piccole, con piantagioni da seimila ad un massimo di ventimila canne e la coltura non era esclusiva ma si aggiungevano grano, gelsi, orzo, ceci, a rotazione. I sistemi di lavorazione erano antiquati, immutati da secoli. Probabilmente lo zucchero calabrese non raggiunse mai i livelli di quello siciliano. In epoca aragonese, quando fu incentivato il commercio, Alfonso d’Aragona fece costruire dei trappeti per lo zucchero nel territorio di Pizzo, dando impulso a tale industria (Bruni Zadra, 1975), che cominciò ad espandersi nel Cinquecento soprattutto nei distretti di Tortora e Belvedere col casale di Diamante (Gagliardo, 1884, Tigani Sava, 2019). Il commercio estero era esercitato soprattutto dai mercanti e capitani genovesi, che agivano per conto dei maggiori imprenditori del settore, in primis i Sanseverino di Bisignano che poi si inserirono nella gestione patrimoniale degli stessi Sanseverino e lentamente cominciarono ad acquistare feudi Colapietra. Ma ai primi del Seicento tale industria entrò in crisi, probabilmente perché non era più redditizia, per cui le coltivazioni di cannameli furono trasformate in vigneti per produrre uva passa, commercializzata dai mercanti inglesi, o in piantagioni di cedri (Sirago, 1997: 259).
Il nucleo principale delle “industrie di zuccari” dei principi di Bisignano era tra Belvedere e Abbatemarco. Nel territorio di Belvedere era compreso il “castello” di Diamante, disabitato, divenuto autonomo verso il 1636 ad opera di Tiberio Carafa principe di Bisignano. Belvedere aveva un importante approdo, caricatoio degli “zuccari” (Sirago, 1993). Nelle Calabrie fino a metà Cinquecento il sistema doganale statale, che controllava le esportazioni e le importazioni, era controllato da un unico Mastro Portolano; da metà Cinquecento ne furono nominati due, uno per la Calabria Citra, che risiedeva a Paola, ed uno per la Calabria Ultra, che stanziava a Reggio. Nel porto di Belvedere dai primi del Cinquecento erano stati posti un guardiano o “fondachiere” con stipendio di 36 ducati annui per il controllo del “fondaco” (deposito) delle merci e del ferro, alle dipendenze del Mastro Portolano. Dal 1538, dato l’ampliamento del commercio, erano stati nominati un “vicesecreto” del Mastro Portolano e un “credenziere”; ma lo stipendio era stato diviso tra i due che percepivano 18 ducati annui. Essi esigevano i diritti per il commercio, soprattutto quello della seta, spesso fatto di contrabbando; e talvolta, oltre lo stipendio, altre somme a titolo di “emolumento”.
Data l’abbondante produzione della seta tra il 1559 ed il 1560 era stato creato l’ufficio della «regia Fragata per guardare li mari …per [evitare] li controbanni delle sete», prodotte in gran quantità. Il comandante era alle dirette dipendenze del Mastro Portolano di Calabria Citra e il mantenimento dell’imbarcazione costava 700 ducati annui (Sirago, 1993 e 2004), Erano stati nominati anche un “percettore” e un “credenziere” delle sete che controllavano il comandante della fregata e i carichi effettuati dai padroni di barca [6]. La seta, la cui gabella era possesso burgensatico (personale) dei principi di Bisignano, era una delle maggiori voci di esportazione insieme al ferro, anch’esso prodotto in Calabria (Galasso, 1963).
Infine vi era il “fondaco del sale” con un “fondachiero”, un “credenziero” e un “misuratore dei Sali” che percepivano rispettivamente 30, 24 e 20 ducati annui (Tabella II). Anche questo prodotto, usato per la salagione dei cibi (carni salate e pesce pescato nelle tonnare, soprattutto a Pizzo), era soggetto a tassazione statale (D’Arienzo, 1996). Oltre i diritti di dogana statale si pagavano anche quelli della dogana feudale. I principi di Bisignano avevano i diritti feudali di dogana e doganella sulle merci importate ed esportate, su cui si pagavano “18 grana ad oncia”; inoltre avevano i diritti di approdo, “ancoraggio e falangaggio”, e quelli di “scafaggio” (passaggio del fiume con la “scafa”, una sorta di zattera). Avevano anche diritti sulla pesca e un diritto di “decima sulle barche coralline” che pescavano il corallo in zona (esauritosi a fine Cinquecento) [7].
Il commercio era molto fiorente e le esazioni feudali dei principi erano un importante cespite del loro patrimonio. A titolo di esempio tra il 1600 ed il 1601 ad alcuni mercanti fu concesso di poter acquistare varie mercanzie, «sartie, macze, pali e pali di ferro, chiodi ecc.» per un totale di 5180 ducati, per servizio della Regia Corte, da utilizzare probabilmente per le costruzioni navali. Essi però dovettero pagare ai Sanseverino il diritto di “scafa” o passaggio, in loro possesso, «nelli fiumi de grati (Crati), lo Coscile et Manganello» per trasportare i materiali nel porto di Belvedere [8].
Dai primi del Cinquecento il principe Berardino, dopo reiterate richieste, aveva dovuto concedere ai cittadini di poter “comprare e vendere franchi” (esenti) di dogana in tutto lo Stato dei Sanseverino le vettovaglie per le loro necessità [9], privilegio confermato da re Ferdinando nel 1504, quando lo Stato era ancora sotto sequestro (Ricciardi, 1895: 32). Il privilegio, di grande importanza data la vastità dello Stato dei Sanseverino, mostrava quanto i principi tenessero da conto gli abitanti di Belvedere, dediti non solo alla industria degli zuccheri ma soprattutto allo smercio di questo prodotto e degli altri, provenienti dalle loro industrie, in primis seta e panni di lana. Dal porto di Belvedere veniva esportato per conto del principe anche il grano prodotto nei territori feudali e si facevano anche “molte estrattioni (esportazioni) de vini” per Roma “per servizio del palazzo apostolico”, “franchi di dogana” [10]. Il porto era utilizzato dai principi quando tornavano da Napoli nel loro Stato per raggiungere da lì via terra la dimora di Bisignano o quella di Cassano, da loro preferite (Passero, 1785: 232). Nel territorio di Belvedere si era sviluppata anche una fiorente attività marinara. I “marinai et patroni di barche”, che avevano creato un fiorente ceto mercantile, avevano avuto secondo un antico privilegio la concessione di non “ponere le barche in apprezzo” quando si doveva compilare il catasto, ma spesso erano stati ugualmente tassati [11]. Comunque alcuni di questi marinai si erano distinti nella battaglia di Lepanto del 1571 (Grisolia, 1980: 5).
A Belvedere e Diamante la principale industria era quella degli “zuccari”. Molte notizie si ricavano dai «capitoli, patti et conditoni con li quali s’affittano li quattro imprese dei Zuccari dell’Illustrissimo Signor Principe di Bisignano, delle Crete, del Monte, del Diamante e della Marchesa, poste nel territorio di Belvedere e Abbatemarco» per un quinquennio, dal 1575 al 1579.L ’impresa era affittata «con li territori nelli quali è solito piantar cannameli … con la ragione della acqua et ogni altra cosa senza le quali non si poteva fare detta industria, et di più li bovi, muli et caldare et ogn’altro istrumento necessario … per governo» (Galasso, 1992: 201-202).
Simili notizie si ricavano dai patti per l’affitto per le imprese di Diamante e del Monte dal primo gennaio 1582 al 1583. Nel 1583 l’impresa di Diamante era affittata «per tanto prezzo (2.170 ducati) per pastenarseci cannameli e farnoseci zuccaro, che quando s’affittasse in grani non s’affitterebbe ducati cincocento». L’impresa era molto redditizia anche se era difficile trovare personale per le funzioni direttive e specializzato nella lavorazione. Difatti nello stesso documento si aggiungeva «Quando si vogliono mastri buoni si fanno venire dall’isola di Sicilia, dove sonno mastri zuccarari perfettissimi» che però spesso preferivano rimanere nella loro terra. Quell’anno a Belvedere vi erano solo tre “mastri zuccarari” per cui il conduttore di una di quelle imprese dové servirsi di un lavorante “che non aveva servito per mastro”. La terra di Belvedere col territorio di Diamante fu ereditata da Tiberio Carafa, con un residuo patrimonio, mentre tutti gli altri “feudi marini” vennero venduti (Galasso, 1992, 201-202).
Per ampliare “l’industria degli zuccheri” nel 1545 il principe Pietro Antonio acquistò da Raffaele de Mari la terra di Abbatemarco (oggi Santa Maria del Cedro insieme a Cipollina), al confine con Grisolia, un altro imbarco di zuccheri, cedendogli 2.326 ducati annui di rendita sulla gabella della seta. La terra era un piccolo casale di Cipollina, con una torre chiamata Bruca, e dei magazzini per conservare i prodotti da imbarcare nel piccolo approdo. Nella seconda metà del Cinquecento vi abitavano 7-8 famiglie (circa 35 persone) [12]. Tra i beni acquistati era compresa “l’impresa degli zuccari” che nel 1579-1581 rendeva 405 ducati annui [13]. Il feudatario aveva acquistato anche il diritto di dogana sulle merci esportate dall’approdo. Il feudo nel 1619 fu venduto da Pompeo Salvo, commissario delegato incaricato della vendita dei cespiti del principe Nicolò a Giovan Pietro Greco per 34.500 ducati [14]. Poi fu acquistato dai Galluppi di Cirella che trasformarono la coltivazione degli zuccheri, ormai in crisi, in piantagioni di cedri [15].
Altro punto di imbarco per gli zuccheri prodotto in loco era quello di Grisolia. Qui a fine Quattrocento vi erano 37 famiglie (circa 166 abitanti). Ma la rendita feudale era scarsa, 146 ducati nel 1507, scesi a 29.2.9 ducati nel 1562, in cui erano compresi la bagliva, la “dohana minuta” per il vino e il diritto sulla pesca”. Il territorio alla morte del principe Nicolò fu venduto ai duchi di Cirella della famiglia Catalano Gonzaga [16].
Anche nella terra di Bonvicino (antica Bombicino), piccolo imbarco per gli zuccheri, al confine con Belvedere, stata impiantata una impresa di zuccheri, spesso affittata insieme a quella di Diamante. Nel 1594-95 la rendita delle due imprese era di 1.072 ducati annui [17]. Qui i Sanseverino possedevano i diritti di dogana e bagliva ma la rendita feudale era bassa, di appena 59.4.7 nel relevio del 1562. Invece l’impresa degli zuccheri era molto produttiva, tanto che nel 1606 la terra fu venduta a Fabio di Paola per 106 mila ducati. Anche questo territorio dai primi del Seicento fu riconvertito a vigneto per la produzione dei “passi” [18].
La terra di Bonifati fino a metà Cinquecento era casale di Sangineto, “con un castello dentro la terra” [19]. Poi nella seconda metà del Cinquecento era diventata autonoma. Ma ancora agli inizi del Seicento sorgevano questioni di giurisdizione con Sangineto perché i Carafa, che avevano acquistato Bonifati dopo la devoluzione del patrimonio dei Sanseverino, pretendevano l’esazione del diritto della «Dogana delle Barche [che approdavano] alla marina di Sparafile”, una esazione che secondo i feudatari di Sangineto era inserita tra i diritti feudali [20]. Nel territorio di Bonifati, al “Capo di Felle” vi era un piccolo approdo dove si caricavano gli zuccheri con una “Taverna per albergo di marinai” in cui i feudatari esigevano i diritti di falangaggio, dogana e doganella, decima, del pesce e delle reti sciabiche o menaide. Inoltre vi era una “Torre ad uso di fortilizio» usata come abitazione del “conduttore” della Taverna, che aveva in fitto anche case e magazzini in possesso dei Sanseverino [21]. Invece l’industria degli zuccheri era costruita vicino al territorio del Monte ed era spesso affittata insieme a quelle di Belvedere [22]. Anche questo territorio dai primi del Seicento fu trasformato in vigneto.
Infine nella terra di Sangineto col suo approdo delle Crete, “caricatoio di zuccheri”, i Sanseverino possedevano il diritto di dogana esatto per le esportazioni di varie merci, animali e carne salata, frumento, vasi di creta prodotti in zona, sale, ecc. Esigevano anche i diritti di «falangaggio per ogni barca o “bergantino” o “navilio” approdato nella marina o in bocca lo fiume et territorio delle Crete» e un diritto sulla pesca (la decima) per quelli che pescavano davanti al castello. In questo territorio, alla “marina delle Crete”, era stata costruita una «Torre ad uso di fortilizio, quasi un castello, usato come abitazione dal taverniere, con casa, magazzini e territori» ed una “Taverna per comodità di passeggieri” e acquirenti che venivano per far caricare sulle navi i vari prodotti, tra cui anche la seta. Invece l’industria dei “cannameli” o zuccheri, esportati dall’approdo, era nel vicino territorio del Monte, affittata di solito insieme a quella di Belvedere. Tale produzione era poi stata sostituita dal Seicento con quella dei “passi” (uva passa) e agrumi [23]. La marina era sorvegliata da 4 cavallari pagati dall’Università (borgo) di Sangineto, che dovevano controllare anche il territorio di Bonifati [24] La terra fu venduta alla morte del principe, nel 1605, a Valerio de Gregorio per 15.000 ducati [25].
Calabria Citra Versante Ionico
Casalnuovo, oggi Villapiana, Trebisacce, Francavilla, antico casale di Cassano, Cassano, Corigliano, Strongoli
La marina della Calabria Citra sul versante ionico era bassa e sabbiosa. L’unico buon approdo era quello di Crotone, come si evince dalle carte di Piri Reis (Bausani, 1979).
In questo territorio si producevano molti cereali ed altre vettovaglie e nelle montagne si tagliava il legname utilizzato anche per le costruzioni navali (Merzario, 1975). Per lo più vi erano dei semplici approdi per cui le navi che caricavano i cereali per l’approvvigionamento annonario della Capitale o “per extra” (per l’estero) rimanevano al largo e le merci erano trasportate a bordo con delle barchette o “schiffi”. Per la dogana statale ai primi del Cinquecento vi era solo un guardiano che doveva controllare le marine di Corigliano e Rossano alle dipendenze del Mastro Portolano. Poi nel 1515, dato l’aumento del commercio, fu nominato un vicesecreto che doveva controllare le due città ed un credenziero che doveva controllare solo Corigliano, il luogo in cui vi era maggior commercio, uffici rimasti inalterati fino alla fine del Seicento (Tabella II). E per la guardia delle marine era stato nominato un solo “cavallaro” che risiedeva a Rossano [26].
In questo territorio i Sanseverino fin dall’epoca aragonese possedevano un lungo tratto della costa, da Trebisacce a Corigliano, a cui si aggiungeva il feudo di Strongoli, possesso riconfermato a Luca, duca di San Marco, nel 1459. Possedevano anche il feudo di Casalnuovo, odierna Villapiana, fino a metà Cinquecento casale marino di Cerchiara in possesso de Sanseverino conti di Lauria. Poi nel 1540 il principe Pietrantonio lo aveva acquistato per collegare il feudo di Trebisacce, al confine, ma soprattutto perché era un importante approdo da dove si esportavano le merci del territorio. Perciò nel 1616, quando il patrimonio fu devoluto, i Pignatelli, che avevano acquistato Cerchiara e Amendolara nel 1532, lo riacquistarono per 41 mila ducati [27]. Nella Platea di Sebastiano della Valle del 1544 si specificava in modo dettagliato la comunanza del territorio con Cerchiara per cui i cittadini dovevano essere esenti dal pagamento del diritto di dogana. Il contenzioso nasceva in merito alla “Marina delle Vote o piano de’ magazzeni”, territorio di Casalnuovo ma rivendicato da Cerchiara. I cittadini di Casalnuovo sostenevano che non vi era mai stato «altro doganiere che quello di Casalnuovo» per tutta la marina «dalla sboccatura del fiume Saraceno fino alla Sepe … tra quali confini [era] compresa anche la Marina delle Vote. Nel 1544 nella marina di Casalnuovo vi era un castello “quasi diruto” con una “Torre Maggiore», altre torri, alcuni edifici ed alcune stalle, un palazzo, un “Hospitio Domorum” (complesso di case) detto la taverna, con una grande stalla ed altre case ed edifici con letti nel “Borgo” presso la strada pubblica. Infine vi era un giardino di aranci ed altri alberi, un uliveto, una vigna “a lo Piano de li Pastini”.
Inoltre nel secondo Cinquecento erano state costruite due torri di avvistamento, una a Cerchiara e una alla “marina delle vote” dove vi era il magazzino del principe in cui venivano conservati i terraggi (cereali ed altre vettovaglie ricavate dai territori del principe) per i quali il doganiere esigeva le esazioni sui carichi. Secondo la platea del 1544, i principi possedevano i diritti feudali di bagliva in cui erano compresi quelli di dogana, pagati dagli “esteri” (forestieri) che commerciavano ed esportavano qualsiasi bene; soprattutto frumento, legumi, vini, lino, “bambace” (cotone), bestie grosse e muli. E si pagavano anche diritti sulla legna tagliata nel bosco del Pantano e sui monti e trasportata a mare. I Sanseverino avevano anche il diritto sulla taverna, in loro possesso [28].
Il feudo di Trebisacce, al confine con Casalnuovo, apparteneva per la giurisdizione civile alla Mensa Vescovile, che riscuoteva i diritti di dogana, e per quella criminale ai Sanseverino. La terra nella prima metà del Cinquecento aveva avuto un certo aumento demografico (225 famiglie nel 1545); ma a causa dei continui attacchi barbareschi, favoriti dalla costa bassa, esse erano rapidamente diminuite, 168 nel 1561 diminuite a 136 nel 1595, dopo il terribile attacco di Uccialì del 1576, quando il principe Nicolò Berardino era venuto in difesa delle coste calabre. Il suo approdo era usato principalmente come “caricatoio” per la legna tagliata in montagna e lavorata, utilizzata anche per le costruzioni navali. Alla morte del principe, nel 1606, era stata venduta a Francesco Maria di Somma che l’aveva poi rivenduta a Giovan Battista Iannino [29].
La città di Cassano era stata concessa nel 1376 da Giovanna I al conte di Corigliano Sangineto; e dai suoi discendenti era passata ai Sanseverino di Bisignano col casale di Francavilla (odierna Francavilla Marittima) [30]. Nella Platea di Sebastiano della Valle del 1543 erano registrati 69 fuochi [31], aumentati a 72 nel 1592 (circa 300 abitanti). La torre alla marina, controllata da due cavallari a difesa della costa, era sotto la giurisdizione del feudatario di Terranova che aveva anche quella sul fiume Crati, sulla “scafa” per traghettare il fiume e sulla pesca, diritti che dovevano essere divisi a metà col feudatario di Cassano: difatti si stabiliva che il fiume Coscile o Sibari delimitava il confine tra Terranova e Cassano [32].
La città di Cassano con la sua tenuta di caccia di San Mauro era la dimora preferita dei principi Sanseverino. Il territorio era molto fertile, coltivato soprattutto a grano: abbondanti raccolti si facevano nella masseria di Gadella, dove esisteva «un magazzino capace di contenere 60.000 tomoli di grano». Verso il 1540, seguendo il piano di una ampia reintegrazione feudale e commercializzazione dei prodotti ricavati dai “terraggi”, il principe Sanseverino riorganizzò la tenuta di Gadella insieme a quella di Polara, nel confinante territorio di Corigliano, in suo possesso. I terreni, sfruttati con razionalità programmata, con equilibrio tra grano e pascolo, furono dati in affitto ad un imprenditore genovese, Antonio Spinola (Colapietra, 1997: 160-161). Nel 1583 il principe Nicolò Berardino, per diversificare ulteriormente le coltivazioni, tentò di introdurre nella zona di Cassano anche l’industria dello zucchero, per cui furono spedite da Belvedere “rote quattro di piantime di cannameli” “alla nova impresa di Morsidoso” (Galasso, 1992: 202). Alla marina vi era un “caricatoio per il grano”; ma i cereali e gli altri prodotti erano esportati soprattutto dal porto di Crotone, in Calabria Ultra, unico della zona, sia a Napoli che “extra regno”. Per le esportazioni i forestieri dovevano pagare il diritto feudale della dogana ma i cassanesi erano obbligati al trasporto delle vettovaglie alla marina. Le merci erano anche trasportate via terra a Bisignano, dove erano caricate sulle navi [33]. Il feudo nel 1622 fu venduto da Luigi Sanseverino per 500 mila ducati all’imprenditore genovese Francesco Serra. La famiglia, insignita del titolo di marchese, conservò il possesso fino al 1806, quando fu promulgata la legge eversiva sulla feudalità [34].
La contea di Corigliano fu uno dei primi possessi feudali dei Sangineto, poi ereditato dai Sanseverino (Grillo, 1949: 5). La marina del Cupo o Schiavonea era un “caricatoio per il grano”. Alla marina vi era una taverna il cui diritto feudale era inserito insieme a quello della bagliva e della “mastrodattia della marina”. I pescatori potevano utilizzare le reti sciabiche solo dopo aver pagato la “fida” al baglivo; e se pescavano grossi pesci dovevano corrispondere una parte allo stesso ufficiale. Un diritto di pesca si pagava anche per quella nel fiume Crati, “nel loco dicto fracta”, al confine con Cassano. Si pagava anche il diritto di approdo, “ancoraggio” e “falangaggio”, 5 grana per ogni barca e 10 per ogni “schiffo” (le barche usate per il carico delle navi al largo). Inoltre da ogni barca o nave caricata si esigeva una salma di merce o beni e un tarì, tassa da pagare anche se era vuota. Vi erano poi i diritti di dogana da pagare a seconda delle merci (frumento e altre vettovaglie, vino, olio, formaggio, miele, fascine).
Il diritto di dogana doveva essere pagato per tutto il territorio. Nella marina del Cupo i Sanseverino possedevano due case con quattro fondaci coperti detti “le case de li magazzeni” e “una torre edificata per guardia di detta marina”, in cui abitava un “custos sive castellanus” [35]. La marina dal Seicento fu detta “della Shiavonea” perché vi era stato edificato un santuario dedicato alla Madonna della Schiavonea, presso il quale in novembre si svolgeva una fiera (Vizzari, 1974). In essa convenivano molti abitanti di Cava, che erano esenti dal pagamento delle tasse per antico privilegio. Inoltre venivano a caricare molti vascelli provenienti da Taranto, Gallipoli, dal Capo d’Otranto. Molto frumento era trasportato nelle città vicine, fino a Cosenza e a Belvedere veniva trasportato olio con i muli. La contea nel 1616 fu venduta al banchiere genovese Giacomo Saluzzo.
Nel territorio di San Marco, al confine con Cassano il principe Berardino, conte di Corigliano, aveva fatto costruire sulle rovine di un antico monastero la tenuta di San Mauro, una tenuta fortificata detta il castello, completata nel 1615, un magnifico edificio rinascimentale ora in rovina. In questo sontuoso palazzo rurale il figlio Pietro Antonio Sanseverino e la moglie Giulia Orsini dal 9 al 12 novembre 1535 ospitarono Carlo V che tornava vittorioso da Tunisi ed era diretto a Napoli. Lo stesso imperatore rimase abbagliato dall’ospitalità quasi regale: difatti i principi allestirono feste, cacce e ogni altro divertimento (Grillo, 1966: 34-35). Nel 1617 il feudo venne venduto al patrizio genovese Agostino Saluzzo per 315 mila ducati (Savaglio, 2010).
Un altro importante feudo marittimo era quello di Strongoli, al confine con la Calabria Ultra. Tra i diritti i Sanseverino possedevano anche quelli sulla scafa per il passaggio sul fiume Neto, che segnava il confine, la cui rendita era di 190 ducati annui. Nella marina di Fasana vi era un approdo, caricatoio per il grano, sul quale i principi riscuotevano i diritti di ancoraggio e scafaggio e quelli «pertinentia ad ypsorum piscium tam maris quam fracturarum fluminis nete» cioè di pesca in mare e nel fiume. Inoltre possedevano il diritto di dogana “et exitura di grani”, commercio dei grani da parte dei forestieri, alla ragione di 18 grana per oncia se i grani erano “di somma notabile”, oltre sei tomoli, o 6 cavalli per ogni tomolo. Nel territorio vi era abbondante produzione di frumento ma esso era anche ricco di “corsi”, cioè terre date al pascolo, per cui il maggior reddito feudale dai “terraggi” (raccolti di cereali) e dalla “fida degli herbaggi” (tassa sul pascolo). Ai primi del ‘600 esisteva alla marina una taverna affittata per 18 ducati annui; inoltre vi erano dei “pagliari [affittati] a pescatori della costa” che rendevano 12 ducati annui. I feudatari pagavano 39.321/2 ducati annui ad un “Torriero di Fasana”. Nel 1605 il feudo fu venduto dal curatore Adriano Acquaviva conte di Conversano per 70 mila ducati al conte di Melissa Giovan Battista Campitelli e poi ereditato da Domenico Pignatelli, figlio di Giovanna Campitelli [36].
Conclusioni
La storia della famiglia Sanseverino tra Quattrocento e Cinquecento è strettamente legata a quella della Calabria Citra, che in quel periodo ebbe un eccezionale sviluppo. La famiglia ampliò il suo potere politico riuscendo a formare un ampio “Stato” di cui i “feudi marini” erano solo una parte, anche se quella più ragguardevole, perché fornivano ai principi opportuni sbocchi commerciali. In età aragonese Antonio e Luca perseguirono una attenta politica economica, incrementando le attività della famiglia, basate fin da metà Trecento sulla vendita della seta, su cui detenevano la gabella, su quella del sale e sui prodotti agricoli che ricavavano dai “terraggi” (parte del raccolto dovuto al signore). A questa attività si aggiunse quella degli zuccheri prodotti nei “feudi marini” ed esportati in tutto il Regno, ampliata da Luca. Anche il figlio Girolamo si dedicò con successo al commercio, contrattando con molti mercanti stranieri, specie genovesi; e tale attività imprenditoriale fu seguita anche dal figlio Pietrantonio, che pure svolgeva un ruolo politico ben preciso, con la sua carica di Grande Almirante. Egli continuava a commerciare i prodotti ricavati dei feudi la cui rendita nel 1507 ascendeva a 15.034 ducati, arrivata a circa 40.000 ducati nel corso del ‘500. Ma in quel periodo il viceré Toledo cominciò a limitare la potenza baronale, che voleva inserirsi nelle questioni di governo. Il cugino Ferrante, “principe ribelle” fuggì esule in Francia, dove morì. Invece Pietrantonio si mostrò fedele alla causa spagnola tanto che nel 1540 poté ampliare il suo territorio feudale marino con l’acquisto di Abbatemarco. Ma il suo erede Nicolò Berardino non seppe mantenere la posizione acquisita dalla famiglia. La sua “prodigalità” fu utilizzata dalla monarchia spagnola per limitarne il potere feudale: Filippo II diede ordine di sequestrare i beni, su cui gravavano pesanti debiti, dandoli in gestione ad altri nobili, per ripagare i numerosi creditori. Morto senza eredi, i suoi beni furono parcellizzati per cui si formò una diversa carta geografica feudale dove i maggiori speculatori si rivelarono i genovesi acquirenti di importanti feudi, in primis Cassano e Corigliano, rispettivamente i Serra e i Saluzzo.
A fine ‘500 si ebbe un primo segnale di crisi con la terribile repressione della congiura di Campanella (Brancaccio, 2019). Poi cominciò ad espandersi la crisi economica che coinvolse tutta l’Europa. Perciò la Calabria, da bellissimo giardino, quasi un eden, come la aveva descritta Giuseppe Galasso, privata delle sue importanti produzioni come la seta (trasferita in Lombardia) divenne una terra desolata, preda di banditi, quasi del tutto esclusa dal circuito commerciale, che comunque rimaneva appannaggio dei forestieri (Sirago, 1997a).
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
[*] Dedico ad Augusto Placanica, che per primo lo lesse, questo lavoro scritto circa trent’anni fa, seguendo i suoi utili e puntuali consigli, ora rielaborato.
APPENDICE
Tabella I
Lo “Stato feudale” dei Sanseverino, 27 luglio 1472 (Brandi Cordasco Salmena, 2005, 45)
Principato di Bisignano, ducato di San Marco, contea di Altomonte, baronia di Tarsia con le terre di Tarsia, Terranova, Torano e Motta di Lattarico, terre di Acri, San Mauro, Mottafellone, Luzzi con il casale di Vallitano, Rose con il feudo di Scalzati ed i casali di Castelfanco e Censano, Regina, Saracena, Morano, San Donato, Malvito coi casali di Joggi e di Fragnano, la città di Cassano con il casale di Francavilla, la città di Songoli con il casale di Sambiase e i feudi di Venere, Castiglioncello e Patrimoniale, la baronia di Sangineto con Sangineto, Sant’Agata e casale di Bonifati, le terre di Belvedere, Bonvicino, Grisolia, Roggiano, Pietra Maurella, Mormanno, Trebisacce, gli scafi unol sul fiume Crati uno sul fiume Coscile (successione di Girolamo Berardino).
Lo “Stato feudale” dei Sanseverino nel 1517 [37]
Bisignano, Strongoli, feudo Sambiase, feudo Venere, Calopezzati, San Marco, feudo Castiglioncello, feudo Patrimoniale, Roggiano, Malvito e Casali, Mottafollone, Sant’Agata, San Donato, Policastello, Corigliano, Santo Mauro, Maurella in Corigliano, Tarsia,Terranova, Acri, Rose, feudo Scalzati, Castelfranco, Cerisano, Reina, Lattarico, Torano, Altomonte, Saracena, Morano, Bonifati, Cassano, Francailla, Trebisacce, Sangineto, Belvedere, Mormanno, Grisolia, Bonvicino, feudo e tonnara Santa Venere, Scafa del Crati e scafa del Coscil, in Basilicata Tricarico Grassano, Albano, Calciano, Miglionico, Graco, Senise, Chiaromonte, Francavilla, Teana, Episcopia, Latronico, Carbuni, San Martino, Armento, Montemurro, Rotonda, Policoro, Brindisi e Scanzano, in Principato Citra Sant’Angelo a Fasanella, Postiglione e Contursi (successione di Pietrantonio)
Lo “Stato feudale” dei Sanseverino nel 1562 (Brandi Cordasco Salmena, 2005,45)
Bisignano, Corigliano, Altomonte, Cassano, Grisolia, Belvedere, Terranova, Malvito, Roggiano, Regina, San Donato, Sant’Agata, Acri, San Marco, Saracena, Tarsia, Bonifati e Sangineto, Morano, Bonvicino, Policastello, Casalnuovo (venduto ai Pignatelli) Abatemarco, Strongoli, Rose, Luzzi, San mauro disabitato (successione di Nicolò Berardino).
Tabella II
Le dogane statali di Calabria Citra (Sirago, 2004)
Uffici dipendenti dal Mastro Portolano dal 1507-1508 al 1550
Ufficio |
Stipendio in ducati |
Mastro portolano di Calabria Citra e Ultra |
Da 300 a 400 |
Credenziero genertale |
da 72 a 120 |
1594
Città |
Ufficio |
Stipendio in ducati |
Paola |
Mastro portolanoCredenziero generale |
20060 |
Belvedere |
Comandante della fregata di guardia |
(72 da fine ‘500) |
Uffici della Dogana del ferro dal 1507-1508 al 1594
Città |
Ufficio |
Stipendio in ducati |
Scalea |
Vicesecretocredenziero |
5018 |
Belvedere |
FondachiereCredenziero |
1818 |
Cetraro |
FondachiereCredenziero |
3618 |
Paola |
Vicesecreto |
48 |
Fiumefreddo |
Vicesecreto |
24 |
San Lucido |
Vicesecretocredenziero |
1812 |
Amantea |
VicesecretoCredenzieroguardiano |
243618 |
Nocera Castiglione |
Vicesecretocredenziero |
2418 |
Versante ionico |
||
Cariati |
Vicesecretocredenziero |
1812 |
Rossano e Corigliano |
Vicesecretocredenziero |
1818 |
ABBREVIAZIONI: ASN = Archivio di Stato, Napoli, APSB= Archivio Privato Sanseverino di Bisignano; BSCF, Bollettino delle Sentenze della Commissione Feudale; CLDP, Commissione Liquidatrice del Debito Pubblico e CS, Creditori dello Stato, documenti prodotti dagli ex feudatari dopo il 1866 per dimostrare l’antico possesso dei beni feudali il cui valore doveva essere loro restituito. ASPN = Archivio Storico per le Province Napoletane. BNN = Biblioteca Nazionale, Napoli, DBI = Dizionario Biografico degli Italiani.
Note
[1] ASN, APSB, pergamene, n. 88.
[2] ASN, APSB, pergamena 100, quietanza rilasciata nel 1484.
[3] ASN, APSB, pergamena 112, diploma del 27 aprile 1506.
[4] ASN, Sommaria, Diversi, II numerazione, n. 116, II, fasc. 13, 19/8/1576, Filippo II conferma i privilegi concessi da Carlo V.
[5] BNN, ms. XI D10, ff.334t.ss.
[6]ASN, Sommaria, Partium, 436, ff. 287t-288, 1559-1560.
[7] ASN Creditori dello Stato, 279/78
[8] ASN, Sommaria, Dipendenze, II, 81/50 bis, registro di Terra di Lavoro, f. 67t. e f. 72.
[9] ASN, ASPB, Carte, vol. 313, ff. 229-233t.
[10] ASN, Sommaria, Dipendenze, II, 81/49, 1593-1594.
[11] ASN, Sommaria, Partium, 812, f. 165v, 28/1/1579.
[12] ASN, Sommaria, Diversi, II, 123, f. 102t.
[13] ASN, Sommaria, Diversi, II, 123, f. 102t.
[14] ASN, Collaterale, Regi Assensi, 100, f. 49, 1619.
[15] ASN Archivio Privato Galluppi di Cirella, V, ff. 66ss., apprezzo del 1616.
[16] ASN, CLDP, 283/169, f.2t.
[17] ASN Sommaria, Diersi, II, 153 f11 1594: 95.
[18] ASN, BSCF, 5, 14/5/1810, pp. 305ss. e 6, 13/6/1810: 386-388.
[19] ASN APBS, carte, 31, Sebastiano della Valle, platea di Sangineto, 1546, f.12t.
[20] ASN, APSB, carte, 6/10,
[21] Cfr. n. 19.
[22] ASN, Sommaria, Diversi, I,119, ff.166v.ss.
[23] Cfr.n.19.
[24] ASN, APSB, Carte, /1 bis, f.3°, 7/5/1725.
[25] ASN, APSB, carte, 6/2, 30/6/1605.
[26] BNN, ms XI D 10, “Uffici del regno”, circa 1625, f. 144t.
[27] ASN APBS, scansia 84, fasc. 3 n. 4, 1616.
[28] ASN APBS, carte, 31, platea di Casalnuovo di Sebastiano della Valle, 1544, ff. 20-21t. e scansia 84, fasc. 3/, pianta del territorio senza data ma inizi del ‘600.
[29] ASN, CLDP, 4495.
[30] ASN, BSCF, 1810, n. 3: 551-770.
[31] ASN, AP Doria d’Angri 65/17, copia dei primi del Seicento della platea di Sebastiano della Valle fatta redigere dai Sanseverino nel 1543.
[32] ASN, BSCF, 1810, n.1: 39-45.
[33] Cfr. n. 31.
[34] ASN, BSCF, 1810, n.3: 626.
[35] ASN, Archivio Privato Saluzzo di Corigliano, Carte, vol. 43, / 3, platea di Sebastiano della Valle, 1544 (copia del 1617).
[36] ASN, Archivio Privato Ferrara Pignatelli Strongoli, 1, fs. 47, Platea di Strongoli, 1605 e 15, fs. 46, vendita.
[37] ASN, Spoglio delle Significatorie dei relevi, I, f. 18.
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Vismara G. (1978), Il diritto del mare, in La navigazione mediterranea nell’alto medioevo, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 25, Spoleto, 14-20 aprile 1977, Spoleto, 2 voll., II: 689-730.
Vizzari D. (1974), Il Santuario della Madonna di Schiavonea e la marina di Corigliano Calabro, Ardor, Montalto Uffugo (Cosenza).
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Sannazaro di Napoli, ora in pensione. Partecipa al NAV Lab (Laboratorio di Storia Navale di Genova). Ha pubblicato numerosi saggi di storia marittima sul sistema portuale meridionale, sulla flotta meridionale, sulle imbarcazioni mercantili, sulle scuole nautiche, sullo sviluppo del turismo ed alcune monografie: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2013; Gente di mare. Storia della pesca sulle coste campane, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2014, La flotta napoletana nel contesto mediterraneo (1503-1707), Licosia ed. Napoli 2018.
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