di Valeria Dell’Orzo
È fondamentale, per l’essere umano, sentirsi parte di un gruppo, sentirsi riconosciuto e riconoscersi nel suo vicino, rintracciare il proprio ruolo all’interno dello schema di condivisione, di creazione corale, che infonde un istintivo e immediato senso di sicurezza, in linea con quell’incompletezza individuale, più volte esplicitata dal pensiero di Clifford Geertz, che vede la necessità di una condivisione del sistema interpretativo e rappresentativo della cultura, affinché l’esistere del singolo sia appagato da un senso di compimento e inclusione.
Ciò che invece mostra alterità, offre una nuova lente attraverso la quale vedere il mondo nella sua dimensione fisica e immateriale, spaventa poiché appare inizialmente quale una distorsione, piombando in quella trappola che ci fa vedere, nella propria cultura o nella propria memoria, una chiave di lettura da poterla credere pura. La cultura è invece – si sa – una splendida entità meticcia, che esiste in virtù delle infinite stratificazioni che la compongono (Fabietti, Matera, 2000), e che condivide con culture altre, che si intersecano tra loro in un gioco concatenante sincronico e diacronico.
Già Taylor (1985), pur rimanendo ancorato a una sostanziale unilinearità della cultura, ne aveva dato una suggestiva definizione, delineandone un profilo complessivo e pieno che include conoscenze, morale, costumi, abitudini, acquisite dal singolo come parte di una società. Il legame tra una persona e il luogo in cui vive o del quale, anche a distanza, sente di essere parte, è il risultato di una coralità di esperienze, di tratti, di forme del sentire. Una simile complessa realtà, così intimamente umana, non può che trovare, nella statica e burocratica amministrazione della identità, una forma di rappresentazione esterna, utile nel gioco del riconoscersi e dell’essere riconosciuti come parte integrante di un tutto, ma che non traduce sempre la reale immagine di quell’ampio spettro dell’io, personale e sociale, che invece è specchio liquido dell’essere umano. Come sottolineato dallo psichiatra Vittorio Lingiardi (2019), il nostro stesso sé non è una entità unica, ma un esplosivo nucleo espanso, che include e si estende in altri sé, poiché tutto il nostro sistema di rappresentazioni necessita di una possibile lettura plurale, condivisa e riconoscibile da quegli altri sé che compongono il noi del convivere.
Nella realtà contemporanea, frutto di un vorticoso e vertiginoso globalismo, culture dalle differenti forme di rappresentazione si toccano, si mescolano, si intersecano e secondano l’incessante processo di rigenerazione di nuove geografie umane, sempre più mobili, e sempre più veloci nel trovarsi a contatto, in quel gioco di dialogo che il coesistere, nello stesso spazio e nello stesso tempo, permette, offre e impone.
Le culture, in tutte le loro difformi linee espressive, sono oggi più che mai messe in gioco all’unisono, si compongono di un riflettersi reciproco, vicinissimo e costante, che rende prossimo l’altro, non altro da sé, come ha sottolineato l’antropologo Alberto Mario Cirese (2010), ma un altro sé. Trovo che in questa sintesi così serrata venga espresso, con tutta la lucidità che ha sempre connotato il pensiero di Cirese, il nucleo fondante di un modo non solo di percepire se stessi e chi condivide con noi la quotidianità, ma viene anche fornita una chiave di lettura in merito al rapporto tra le culture, al loro leggersi e reciproco tradursi, al loro interpretarsi e lasciarsi descrivere, che riformula il relativismo antropologico nella cornice della geografia umana della globalizzazione. Supera così la ricerca di Franz Boas, di quei principi comuni e trasversali che, attraverso un’analisi comparativa, possono essere riconosciuti. Quella ricerca esita nell’identificazione di alcuni capisaldi della cultura umana e sociale e nella sostanziale impossibilità di leggere le culture, nella loro estensione complessiva, se non in funzione di se stesse.
Con Alberto Mario Cirese (2010) si esita, invece, nel riconoscimento di un tessuto più ampio, unico pur nella sua grana difforme, composto da quel continuo fluire che attraversa e agita la società mondiale. Il pensiero dell’altro, il pensiero che percepiamo come a noi estraneo, non lo è e non potrebbe esserlo, poiché nasce e si articola nella comune sostanza dello scambio e del filtrarsi l’un l’altro assorbendosi reciprocamente. La convivenza si esplica, così, in quel rapporto tripartito tra l’io, l’altro e il noi (Lingiardi, 2019), dando corpo e forma al sentire dell’appartenenza. Nel rapporto tra un confine politico, culturale, linguistico e chi lo abita entrano in campo una moltitudine di fattori, e tra questi vi è il politicizzato rapporto tra la cultura e la cittadinanza, vista troppe volte sotto la veste di una rigidità che non le appartiene, che non può tradursi in un meccanico e banale coincidere, oggi più che mai.
All’interno di ogni territorio geopolitico infatti coesistono differenti culture, egemoni e subalterne (Cirese, 2014), secondo il tradursi del colonialismo, entro le dinamiche esplosive della globalizzazione. Le spaccature contemporanee, che investono le società – o la società, riferendosi alla complessiva interrelazione che unifica, e spesso massifica le pluralità, riconducendole a un unicuum produttivo – riflettono il principio globalizzato della disuguaglianza, della scissione tra la società in due grandi gruppi comunitari.
Occorre fermarsi un attimo a riflettere, dunque, su cosa sia la cittadinanza. Cosa sancisce il legame tra un luogo e un uomo? Perché la presenza o meno di una riconosciuta appartenenza può assumere un maggior peso giuridico di un effettivo appartenere a una dimensione sociostatale, contribuendo a arricchirne il variegato mosaico socio-etnico-culturale che lo compone e che in un continuo divenire lo ristruttura, estendendo le ramificazioni identitarie e gli infiniti snodi culturali che le sostengono.
Le differenti identità individuali, e le molteplici sfumature culturali che compongono il macrosistema di un Paese contemporaneo, si trovano, così, pressate da una parte a adeguarsi a un coesistere pur nelle tensioni di migrazioni, spostamenti, accelerazioni del vivere, sospensioni del regime familiare, alterazioni continue del rapporto tra l’io e il mondo; dall’altra parte, però, questa propulsiva spinta alla mescolanza più frenetica non viene espressa nella sua realtà arricchente, ma viene invece trasformata, sotto una lente distorsiva, in una minaccia, capace di rinsaldare quei nuclei sociali che, spinti da frustrazione e paura, diventano facilmente manipolabili e infiammabili, tenendo alta la tensione sociale, e distogliendo il singolo dai problemi che trasversalmente coinvolgono lo Stato, attirando la sua attenzione su una ingannevole diversità invasiva.
Con Cirese (1997), possiamo osservare che troviamo su un fronte della comunità chi ha diritti, accesso a un’assistenza sanitaria e a una scolarizzazione elevata, ad un ambiente confortato da infrastrutture, servizi, beni non solo primari, una qualità della vita capace di garantire una crescita sana e un futuro potenzialmente sicuro. In queste categorie sociali la cittadinanza è un privilegio che sembra avere caratteri di esclusività e di discriminazione.
Dall’altra parte di questa invisibile, ma ben distinguibile, palizzata sociale, troviamo coloro che per mancato accesso a quelle garanzie assicurate alla fascia più agiata della società, si trovano a viverne ai margini, riconosciamo coloro che provengono da quei Paesi sfruttati dal consumismo, chi è nato e vissuto nei ghetti, nella povertà dei disservizi, nelle periferie urbane del Primo mondo. Pur consapevoli dell’esistenza dei dislivelli economici e sociali, veniamo ugualmente travolti dalla narrazione dominante che abitua alla accettazione, all’assuefazione e alla rassegnazione dello status quo. Cui concorre il ruolo dei media, pervasivo a livello globale, che spinge con insistenza a rendere naturale ciò che è artificiosamente fondato sull’arbitrio della convenzione, che separa il cittadino e gli altri, tra chi ha un presunto diritto di trovarsi in uno Stato e chi vi si trova clandestinamente o al pari di un ospite.
Tale distinzione tra gli uomini non tiene conto, come è evidente, della singolarità dell’esperienza, della percezione di appartenenza, di quelle riflessioni di Alberto Mario Cirese che concepiva l’altro come una delle innumerevoli immagini del sé, gli altri intorno a noi come altri noi, altre facce riflettenti di un’unica figura complessa e mobile. È questa la base della riflessione che permette di sospendere quel perverso egocentrismo che porta il singolo a fare di se stesso, e della propria cultura, lo strumento di misura e valutazione, o anche solo di comprensione, di una realtà umana e culturale e non coincide mai completamente con la propria.
Nell’universo contratto dalla globalizzazione, le distanze si sono dissolte, la comunicazione è un continuo e incontrollato flusso di contatti, di scambi, di prossimità. Culture prima molto distanti tra loro, pressate da processi di mobilità internazionale, si ritrovano oggi a coesistere e convivere nel quotidiano. Decostruire la molteplicità culturale, fino a giungere alla singolarità dell’io e dell’altro, permette di vedere con maggiore immediatezza quanto queste due realtà altro non siano che il proprio specchio reciproco, che quella presunta distanza, generata da un’alterità percettiva e presunta, si assottiglia sempre più fino a unire in un unico nodo le differenti unicità, fino a plasmare e a definire quelle identità che solo vicendevolmente prendono forma nella loro differenza. Da qui il superamento di un’idea riduttiva e selettiva di cittadinanza e il suo radicale ripensamento nell’orizzonte di una più consapevole e responsabile convivenza. Perché «ritrovare – potremmo ripetere con Cirese (2010: 142) – il frammento di specchio che c’è in ciascuno delle nostre culture, è la grande impresa culturale del nostro tempo, non solo antropologica, ma innanzitutto umana».
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Riferimenti bibliografici
Lean Loup Amselle, Logiche meticce, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
Alberto Mario Cirese, Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Meltemi, Milano, 1997.
Alberto Mario Cirese, Altri sé. Per una antropologia delle invarianze, Sellerio, Palermo, 2010.
Alberto Mario Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palumbo, Palermo, 2014.
Ugo Fabietti, Vincenzo Matera, Memoria e identità. Simboli e strategie del ricordo, Meltemi, Milano, 2000.
Vittorio Lingiardi, Io, tu, noi. Vivere con se stessi, l’altro, gli altri, Utet, Torino, 2019.
Edward Burnett Taylor, Alle origini della cultura, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1985
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Valeria Dell’Orzo, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane. Attualmente insegna in un istituto superiore.
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