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Il Bilderatlas Mnemosyne e la contemporaneità

The Warburg Institute, Virtual Tour Mnemosyne (Aby Warburg Bilderatlas Mnemosyne Virtual Exhibition | The Warburg Institute, sas.ac.uk)

The Warburg Institute, Virtual Tour Mnemosyne
(Aby Warburg Bilderatlas Mnemosyne Virtual Exhibition | The Warburg Institute, sas.ac.uk)

di Mariachiara Modica

Lo scopo di questo articolo è di fornire una panoramica generale sulle intenzioni del Bilderatlas Mnemosyne (Atlante della memoria) di Aby Warburg (1866-1929), indagato per la sua duplice natura di «dispositivo» (Agamben, 2006; Didi-Huberman, 2006: 416) e «strumento euristico» (Settis, 2020), e per le sue affinità con il concetto di costellazioni di un altro grande pensatore del XX secolo, Walter Benjamin (1892-1940).

Verranno anche analizzate le opere di due noti artisti contemporanei: Triumphs and Laments (2016) di William Kentridge (Johannesburg, 1955) e Odyssey (2017) di Ai Weiwei (Pechino, 1957) che, seppure con tecniche e intenzioni comunicative diverse, sono state create a partire da montaggi di immagini appartenenti a temporalità multiple e, consapevolmente o inconsapevolmente, rivelano delle forti analogie con il peculiare modo di rapportarsi alle immagini dell’antichità inaugurato da Warburg. Infine, si rifletterà sui possibili e potenziali usi del Bilderatlas Mnemosyne nella contemporaneità.  

Bilderatlas Mnemosyne 

Aby Warburg è stato uno storico dell’arte e della cultura che agli inizi del XX secolo ha inaugurato un modo interdisciplinare e non diacronico di interagire con le immagini della storia dell’arte. Il Bilderatlas Mnemosyne (1928-1929), l’opera incompiuta di Warburg, consiste in un montaggio di riproduzioni fotografiche di opere d’arte realizzate a partire dai libri che componevano la sua biblioteca ad Amburgo, giustapposte e fissate in maniera provvisoria su pannelli rivestiti da teli neri. Il nome scelto per il progetto, Mnemosyne, fa riferimento alla madre delle nove Muse, la personificazione della memoria nella mitologia classica.

L’atlante invece è un genere testuale apparso a partire dal XVI secolo per la presentazione di carte geografiche ed astrologiche. La prima raccolta che riporta questo nome è l’Atlas sive cosmographicae meditationes de fabrica mundi et fabricati figura (1595) di Gerardo Mercatore (Istituto della Enciclopedia Italiana, n.d.) con in copertina la figura mitologica di Atlante che sostiene il globo terrestre. Nel XIX secolo si moltiplicano le tematiche che vengono sistematizzate in atlanti. A partire dal secolo successivo il termine stesso viene utilizzato in maniera più metaforica e in quest’ottica l’atlante di Warburg può essere considerato l’esempio più monumentale (Buchloh, 2006).

Warburg, a lungo ignorato perché difficile da collocare nell’ambito degli studi storico-artistici, ha destato interesse negli ultimi decenni parallelamente all’emergere di una prospettiva transdisciplinare nello studio delle immagini. Ricerche interessate da nuovi sviluppi grazie ad una recente mostra inaugurata a Berlino nel novembre 2020 alla Haus der Kulturen der Welt, che ha mostrato per la prima volta una ricostruzione filologica delle tre versioni del Bilderatlas Mnemosyne (Ohrt e Heil, 2020) – ora online nella pagina web dell’Istituto Warburg di Londra (The Warburg Institute, 2020).

Mnemosyne è insieme un atlante e «un’iconoteca personale e idiosincratica» (Cometa, 2020: 154), ed era stato concepito originariamente come progetto editoriale tramite il quale diffondere ad un vasto pubblico nuove prospettive estetiche. Infatti, l’idea di fissare sui pannelli le riproduzioni fotografiche doveva essere la fase laboratoriale che avrebbe preceduto la sistematizzazione delle schede di un atlante delle immagini della storia culturale europea (Ohrt e Heil, 2020: 11-13). Con questo approccio Warburg intendeva mostrare la storia del pensiero occidentale per immagini, sottolineando il Nachleben der Antike (sopravvivenza dell’antico) attraverso le Pathosformeln (formule di pathos), ovvero formule visive di antiche cariche emotive tramandate tramite la memoria collettiva.

Dunque, l’atlante serviva a visualizzare istantaneamente come venivano create e riutilizzate le memorie culturali. Warburg proponeva così una «scienza senza nome» (Agamben, 1984) che silenziosa eliminava il testo per dare spazio alla relazione tra le immagini, decostruiva la narrazione dominante della storia dell’arte, rompendo con gli studi vigenti in quegli anni centrati sull’analisi delle opere in base a princìpi meramente estetici e stilistici. Allo stesso tempo veniva proposto un metodo ben poco ortodosso che associava un repertorio di immagini “alto” e “basso”, “maggiori” e “minori”: fotografie in bianco e nero in scale variabili di quadri, sculture, monumenti, arazzi, medaglie e cultura di massa dell’epoca (pubblicità, francobolli) (Pinotti e Somaini, 2016).

Inoltre, la stessa immagine poteva essere frammentata nei suoi dettagli, poi associata ad altre in base alla stessa forma geometrica, funzione analogica e all’espressione della danza, della sofferenza, del lutto e dei lamenti, della smorfia, della fuga e dei trionfi (Michaud, 2002). Tali gesti esprimono affettività arcaiche che assumono forme via via differenti quando riappaiono nel corso della storia e si rapportano al presente. 

«[…] i tempi delle sopravvivenze sono, elettivamente, quelli delle grandi potenze psichiche: rappresentazioni patetiche, dinamogrammi del desiderio, allegorie morali, figurazioni del lutto, simboli astrologici ecc. […], gli ambiti della sopravvivenza sono quelli dello stile, del gesto e del simbolo in quanto vettori di scambi tra luoghi e tempi eterogenei. Infine, i processi della sopravvivenza possono essere compresi solo a partire dalla loro “connaturalità” con i processi psichici in cui si manifesta l’attualità del primitivo, e ciò spiega l’interesse di Warburg per i tratti pulsionali o fantasmatici, latenti o critici, della Pathosformel» (Didi-Huberman, 2006: 259). 

Warburg solo negli ultimi anni dei suoi studi ha definito le Pathosformeln in questi termini: «formule genuinamente antiche di un’intensificata espressione fisica o psichica» (Warburg, 1966: 197). Le formule di pathos sono tracce incise nella memoria, engrammi (prendendo in prestito un termine utilizzato da Richard Semon nei suoi studi di neurofisiologia), «impresse nella psicologia dell’Homo sapiens a partire da esperienze liminali – fobiche innanzitutto – e che si riattivano per lo più inconsciamente nelle espressioni artistiche» (Cometa, 2020: 167).

Le Pathosformeln sono strettamente legate all’idea di movimento; nelle sue ricerche Warburg aveva come punto teorico di partenza The expression of emotions in man and animals (1872) di Charles Darwin e gli studi di psicologia di Herbert Spencer sulle connessioni tra gesti, movimenti e tensioni muscolari e stati emotivi ad alta intensità (Cieri Via, 2002).

Pannello 77 (Aby Warburg Bilderatlas Mnemosyne Virtual Exhibition | The Warburg Institute, sas.ac.uk)

Pannello 77 (Aby Warburg Bilderatlas Mnemosyne Virtual Exhibition | The Warburg Institute, sas.ac.uk)

L’immagine che ripropone le formule di pathos rappresenta la manifestazione di una tensione dinamica tra l’ethos e il pathos, due forze contrapposte, dove con pathos s’intende quella componente pulsionale primordiale che sfugge al controllo, invece con ethos le consuetudini che portano un gruppo sociale a tramandare i meccanismi di controllo di quelle componenti pulsionali, attraverso l’arte e quel ricco patrimonio di ritualità sacre tramandate da generazione in generazione (Careri, 2002; Settis, 2004b).

Inoltre, il termine stesso Pathosformel evidenzia tutta la sua natura ossimorica, avendo a che fare con il movimento (Pathos) e la fissità della formula (Formel). Tuttavia, è in virtù della coesistenza di questi due stati opposti che le immagini non muoiono mai del tutto, si muovono, migrano e mutano, acquisiscono nuove formulazioni. Come effettivamente ciò avvenisse, Warburg lo spiega attraverso una metafora suggestiva che rimanda alla corrente elettrica: 

«I dinamogrammi dell’arte antica sono lasciati in retaggio in uno stato di tensione massima ma non polarizzata, rispetto alla carica energetica attiva o passiva, all’artista che può reagire, imitare o ricordare. È solo il contatto con la nuova epoca a produrre la polarizzazione. Questa può portare a un radicale rovesciamento (inversione) del significato che essi avevano nell’antichità classica» (cit. in Gombrich, 2003: 215). 
Pannello 4, Il dio fluviale (Aby Warburg Bilderatlas Mnemosyne Virtual Exhibition | The Warburg Institute, sas.ac.uk)

Pannello 4, Il dio fluviale (Aby Warburg Bilderatlas Mnemosyne Virtual Exhibition | The Warburg Institute, sas.ac.uk)

Le formule di pathos sembrano riemergere da una sorta di inconscio storico, ma non riappaiono mai identiche a loro stesse, al contrario, attraverso processi di polarizzazioni, inversioni, deformazioni di senso (Didi-Huberman, 2006) formano complesse retoriche visive. Un esempio serve ad illustrare bene la trasformazione formulare dello stesso gesto espressivo-emotivo: nel pannello 77 Warburg ha accostato la foto della campionessa di golf Erika Sell-Schopp nel momento di massima tensione muscolare che precede il lancio al movimento di torsione di una menade estatica o di Giuditta che uccide Oloferne (Fressola, 2018).

Nell’ottica warburghiana la storia dell’Occidente risulta caratterizzata da tensioni energetiche contrapposte e due sono le figure che meglio incarnano questa bipolarità: la ninfa estatica e il dio fluviale saturnino, emblema della malinconia. Si tratta di quelle oscillazioni tra poli opposti che Warburg individua come caratterizzanti la sua stessa psiche:

«Talvolta ho l’impressione come se, nel mio ruolo di psicostorico, cercassi di diagnosticare la schizofrenia dell’Occidente da ciò che nel riflesso autobiografico pertiene all’immagine. L’estatica Ninfa (maniaca) da un lato, e dall’altro la divinità fluviale in lutto (depressiva), come poli tra i quali colui che è fedele alle forme e sensibile all’espressione cerca di trovare il proprio stile attivo. Il vecchio contrasto: vita activa e vita contemplativa» (Warburg, 2001: 429 cit. in Cometa 2020: 180). 
Domenico Ghirlandaio, Nascita del Battista, 1485-89, e ancella Ninfa (https://www.artesvelata.it/ghirlandaio/ )

Domenico Ghirlandaio, Nascita del Battista, 1485-89, e Ancella Ninfa (https://www.artesvelata.it/ghirlandaio/ )

La ninfa è l’icona pagana della sensualità femminile che irrompe nel Rinascimento italiano; emblematico il dipinto del Ghirlandaio, Nascita del Battista (1485-1490) nel quale ad una ben nota iconografia cristiana fa da contrappunto l’incedere leggiadro dell’ancella che ricalca la ninfa di un bassorilievo fiorentino, detta “gradiva”, letteralmente “colei che incede”, «fantasma del desiderio maschile» (Cometa, 2020:172), oggetto di profonda fascinazione anche per Freud.

Gradiva, bassorilievo greco-romano, IV sec. a.C.

Gradiva, bassorilievo greco-romano, IV sec. a.C.

La ninfa è per Warburg la personificazione stessa del Nachleben: non muore mai, riappare, si trasforma, inverte la sua carica energetica, assume mille sembianze rimanendo identica a se stessa (Didi-Huberman, 2013). È emblema stessa del movimento, della grazia di una fanciulla innocente, di una sposa, legata alla terra e agli dèi, amica e amante, ma nello stesso tempo, i miti lo raccontano, ha una carica seduttiva e distruttiva. Il motivo della ninfa, la sua fantasmatica apparizione e metamorfosi sono stati oggetto di affascinanti studi che intrecciano iconologia e psicanalisi (Baert, 2014). 

L’altro polo energetico delle Pathosformeln warburghiane è rappresentato dalla messa in scena della malinconia, partendo da un’incisione di Albrecht Dürer, Melencolia I (1514), a cui è dedicato interamente il pannello 58 (Seminario Mnemosyne, 2002; Ohrt e Heil, 2020).Qui è rappresentata una figura alquanto enigmatica, con le ali e una corona di alloro sul capo e la mano sinistra che sostiene il volto pensoso mentre con la destra è intenta a scrivere. Evoca l’idea dell’uomo rinascimentale che cerca di trovare lo spazio contemplativo della riflessione per svincolarsi dal pensiero magico demoniaco del passato. Un concetto tipico della cornice storica di area nordica in cui va collocato l’artista. Il tema della malinconia, del ripiegamento nei meandri della propria psiche associato all’influsso di Saturno e la sua riapparizione nella storia dell’arte (Panofsky e Saxl, 1923) hanno costituito un nucleo importante nella progettazione dell’Atlante (Seminario Mnemosyne, 2016).

Albrecht Dürer, Melencolia I (1514) Virtual Tour - Aby Warburg: Bilderatlas Mnemosyne exhibition at Haus der Kulturen der Welt | The Warburg Institute (sas.ac.uk)

Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514, (Virtual Tour – Aby Warburg: Bilderatlas Mnemosyne exhibition at Haus der Kulturen der Welt | The Warburg Institute (sas.ac.uk)

Come la formula della ninfa estatica, anche quella della malinconia ha una natura ambivalente, poiché anticamente si credeva che l’eccesso di bile nera fosse nello stesso tempo causa di stati depressivi e di genialità. Infatti, l’umore saturnino era considerato propedeutico all’espansione della creatività. E anche in questo caso, l’ossessione per questo tema si intreccia ad un vissuto autobiografico, come testimoniano le parole del medico e amico di Warburg, Ludwig Binswanger, che lo ebbe in cura negli anni del ricovero alla clinica psichiatrica di Kreuzlingen.

Nel suo saggio del 1960, Melanconia e mania, egli ricorda come la diagnosi finale di Warburg non è stata la schizofrenia, come si credeva inizialmente, ma uno «stato misto maniaco-depressivo» (cit. in Seminario Mnemosyne, 2016). Quindi si trattava, anche in questo caso, di un’oscillazione tra due poli estremi, sintomatici, dal punto di vista psichico, di un rapporto squilibrato con il tempo: la malinconia fa protendere verso il passato, determina lentezza e atarassia, mentre la mania è ansia di proiettarsi verso il futuro.

Le forme espressive della classicità che ritornano come fantasmi di un tempo non del tutto esperito, come avviene nel Rinascimento italiano, primo campo delle ricerche warburghiane, non si presentano secondo un presunto modello identico all’originale ma sono il frutto di complesse stratificazioni e numerose metamorfosi. 

Costellazione memoria montaggio 

Le configurazioni delle immagini del Bilderatlas Mnemosyne non erano mai fisse, Warburg sentiva sempre l’esigenza di muoverle, così i collegamenti cambiavano come cambiava continuamente il corso stesso delle idee; la condizione di permutabilità costituiva l’essenza stessa dell’atlante (Didi-Huberman, 2006).

L’effetto combinatorio era proprio anche della disposizione dei libri della sua biblioteca: Warburg modificava la collocazione dei testi ogni qual volta ne veniva introdotto uno nuovo, poiché ciò implicava che nuove suggestioni e collegamenti di pensiero potessero germogliare. Oggi con “metodo Warburg” ci si riferisce proprio a questa particolare prassi di “ordinare” una biblioteca (Calasso, 2020). Le connessioni figurative che campeggiavano sui pannelli neri creavano una costellazione di significati nel senso suggerito da Walter Benjamin, secondo il quale «le idee si rapportano alle cose come le costellazioni si rapportano alle stelle» (cit. in Pinotti, 2018: VIII).

Hannah Höch - Cut with the Kitchen Knife Through the Beer-Belly of the Weimar Republic [1919] Hannah Höch: Collage and Photomontage as Commentary | Milindo Taid (milindo-taid.net)

Hannah Höch, Cut with the Kitchen Knife Through the Beer-Belly of the Weimar Republic, 1919 (Hannah Höch: Collage and Photomontage as Commentary | Milindo Taid, milindo-taid.net)

Le analogie tra i due sono state oggetto di numerosi studi (Rampley, 2000; Buchloh, 2006; Johnson, 2012); infatti, come Warburg, Benjamin nei passages (Benjamin, 2000) ha creato assemblage testuali dichiarando di avere come unico scopo quello di mostrare simultaneamente un insieme eterogeneo di idee connesse in una struttura unificante (la costellazione) senza ulteriori descrizioni ed interpretazioni. In entrambi c’è una sostanziale tendenza anti-sistemica, una rivelazione della conoscenza che predilige che le idee ramifichino e s’influenzino reciprocamente senza essere fissate. Entrambi dimostrano una certa fede nelle nuove tecnologie: Warburg nel concreto utilizzo di riproduzioni fotografiche per la praticità nel prestarsi a varie forme di manipolazione, mentre Banjamin attraverso le numerose riflessioni sulle implicazioni estetiche, percettive, conoscitive e politiche della fotografia e del cinema per il XX secolo. Riflessioni disseminate in molti dei suoi scritti e che trovano uno dei momenti più significativi in L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica (Benjamin, 2014).

Sia Benjamin che Warburg trattano il tema della memoria secondo prospettive che si intrecciano e divergono allo stesso tempo, ma che rivelano una comune visione non lineare del passato. Benjamin parla della memoria come di un medium che rende l’esperienza del passato possibile (Pinotti, 2018) e paragona l’andare a ritroso nelle pieghe dei ricordi al lavoro dell’archeologo: 

«In maniera epica e rapsodica nel senso più stretto del termine, il ricordo reale deve dunque offrire anche un’immagine di colui che si sovviene, allo stesso modo in cui un buon resoconto archeologico non deve limitarsi a indicare gli strati da cui provengono i propri reperti, ma anche e soprattutto quelli che è stato necessario attraversare in precedenza» (Benjamin, 2003: 112). 

La conoscibilità delle immagini del passato dipende dalla convergenza di diversi elementi contingenti al momento e al luogo di ritrovamento: essa è data dalla relazione tra le varie stratificazioni da una parte e le dinamiche del presente colte dallo sguardo di chi esegue lo scavo (l’archeologo-narratore-artista) dall’altra.

Per Warburg la memoria culturale occidentale non è fatta di immagini del passato riproposte secondo un ordine cronologico e coerente, ma tali immagini, in virtù di una loro carica energetica intrinseca, riemergono repentine e brutali quando vengono risvegliate dal momento propizio del presente e colte dalla mano dell’artista. Pertanto, il Nachlebe der Antike, la sopravvivenza dell’antico, riemerso da una sorta di morte apparente «disorienta la storia, la apre, la rende più complessa […], la anacronizza. Impone il paradosso che le cose più antiche vengano a volte dopo cose meno antiche» (Didi-Huberman, 2006: 81-82). L’immagine infatti non rappresenta semplicemente un determinato momento del passato ma è fatta di temporalità complesse, «un montaggio di tempi eterogenei che formano anacronismi» (Didi-Huberman, 2007: 18). Dunque, presa consapevolezza che la storia è fatta di sequenze non diacroniche, frammenti visivi destabilizzanti, Warburg rompe la narrazione per successioni lineari e si avvale del montaggio di riproduzioni fotografiche per indagare la storia culturale e psicologica dell’Occidente.

La pratica del montaggio comincia a diffondersi in ambito artistico intorno agli anni ‘20 del Novecento con le avanguardie storiche, soprattutto con i Dadaisti e i Surrealisti (Buchloh, 2006), per poi diffondersi sempre di più nella scena artistica e letteraria dei decenni successivi. Il montaggio come atto di disporre sotto nuovi collegamenti immagini nate in contesti culturali diversi presuppone la rottura di un ordine e un’ideologia preesistente, turba una visione familiare. La ricomposizione, tramite accostamenti insoliti, sortisce il duplice effetto di familiarità e di straniamento – Unheimlich, per usare i termini di Freud –, sentimenti opposti e simultanei, che creano sorpresa, choc, secondo dinamiche estetiche tipiche del XX secolo e che sono l’eredità principale della nostra contemporaneità (Perniola, 2011).

Inoltre, la destrutturazione e la riconfigurazione per giustapposizioni che presuppone tale pratica è propria di quel preciso periodo storico segnato della due guerre mondiali, destabilizzante a tal punto da far apparire vano qualsiasi tentativo di trovare una logica dietro tanta distruzione; dunque, sembrava ormai possibile soltanto rintracciare brandelli di pensiero esploso e ricomporli in un montaggio che semplicemente mostrasse la realtà per quello che fosse, caotica e incoerente. Una realtà che ha influenzato pensieri ed azioni di intere generazioni di studiosi e artisti, oltre a Warburg e a Benjamin, Siegfried Kracauer in La fotografia (1927), László Moholy-Nagy in Pittura Fotografia Film (1925), Bertolt Brecht in Kriegsfibel (1933-1947) ed Ernst Bloch in Eredità del nostro tempo (1935); 

«Nel montaggio culturale e tecnico […] viene distrutta la coerenza della vecchia superficie e se ne costituisce una nuova. E ciò è possibile perché la vecchia unità appare sempre più illusoria, fragile, una semplice coerenza di superficie […], il montaggio rende molto spesso piena di fascino o audacemente complessa la confusione che sta dietro [e] appare culturalmente come la forma suprema dell’intermittenza fantomatica» (Bloch, 2015: 275). 

Della tecnica del montaggio ne ha parlato soprattutto Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (1898-1948) in quanto componente fondamentale del cinema (Somaini, 2011; Pinotti e Somaini, 2016; Didi-Huberman, 2018). Per Ėjzenštejn con il montaggio cinematografico possono essere sperimentate nuove modalità percettive, poiché lo spettatore è portato a trovare delle connessioni tra i frame per il solo fatto che essi si trovino montati assieme in una sequenza, nonostante la sequenza stessa possa essere priva di coerenza temporale e logico-discorsiva e frutto di arbitrari rallentamenti, accelerazioni, ingrandimenti, interruzioni. In tal senso il cinema può essere usato per manipolare emotivamente e come trasformatore sociale.

Benjamin (2014: 31) ricorda che: 

«Qui interviene la cinepresa con i suoi mezzi ausiliari, con il suo scendere e salire, il suo interrompere e isolare, il suo ampliare e contrarre il processo, il suo ingrandire e ridurre. Dell’inconscio ottico sappiamo qualche cosa soltanto tramite essa, come dell’inconscio istintivo tramite la psicanalisi». 
Triumphs & Laments - W.Kentridge - ©Mario Bodo (2016) (ricevuta licenza per mail)

Triumphs & Laments, W.Kentridge  (ph. Mario Bodo, 2016)

Il montaggio come metodo cinematografico, artistico e letterario, nonché come modalità di pensiero che procede per visualizzazioni discontinue, permetteva di trovare maggior coerenza interpretativa in un momento di profonde trasformazioni e rivolgimenti ideologici. Inoltre, l’atlante Mnemosyne dimostra che in quel momento storico andava maturando l’esigenza di indagare le caratteristiche della cultura occidentale dando spazio alla relazione mutevole delle immagini, piuttosto che al solo ragionamento discorsivo. Un modo di approcciarsi al problema generale della storia e della cultura prematuro per l’epoca, ma di cui ancora oggi sentiamo i reverberi e la necessità, in un mondo, quello attuale, segnato dal caos esploso e dal frastuono visivo di immagini reali e digitali. 

Kentridge e Ai Weiwei

Nella poetica di due noti artisti contemporanei, William Kentridge e Ai Weiwei, possono essere rintracciati i princìpi delle Pathosformeln warburghiane e la pratica del montaggio esaminata poc’anzi. Intrecci visivi molto complessi sono stati realizzati in Triumphs and Laments (2016), colossale opera di urban art dell’artista sudafricano William Kentridge, a cui Salvatore Settis (2020: 275-336) ha dedicato un’ampia ricerca.  L’opera consiste in un grande fregio di immagini che corrono lungo il muraglione del Lungotevere a Roma, fra ponte Sisto e ponte Mazzini, evocano la storia di Roma e, per estensione, la cultura classica declinata nel doppio repertorio di trionfi e lamenti che rivive nella contemporaneità.

La narrazione continua per immagini di Kentridge richiama i fregi della colonna di Traiano e di Marco Aurelio. Le immagini sono state realizzate in negativo, togliendo la patina di polveri del travertino dei muraglioni tramite l’idropulitura. Il risultato consiste in una teoria di figure, ombre nere ricavate dalla parte risparmiata della pulitura grazie all’utilizzo di stencil. L’effetto è una fantasmagoria che rimanda ai trionfi romani, l’eredità visiva più pregnante che l’antica cultura romana ha voluto tramandare ai posteri. Nell’età imperiale i trionfi apparivano sotto forma di bassorilievi che ornavano ponti, archi, edicole, colonne e sontuose facciate di edifici.

William Kentridge-migranti Triumphs and Laments, grime writing on the River Tiber – Notes from Camelid Country

William Kentridge, Migranti ,Triumphs and Laments, grime writing on the River Tiber, Notes from Camelid Country

Il repertorio figurativo appartiene alla doppia tematica dei “trionfi” e dei “lamenti”: ai topoi figurativi dei tanti trionfi celebrati dall’Impero romano si contrappongono delle scelte iconografiche che evocano morte e lutto. Il materiale manipolato e assemblato dall’artista consiste d’immagini note e meno note, stampe medievali, foto di migranti, scene di lotte, fotogrammi cinematografici de La dolce vita e Roma città aperta, fatti di cronaca (l’assassinio di Aldo Moro e i migranti a Lampedusa). Kentridge ha creato in questo modo collage complessi per dare nuova linfa vitale ai fragili processi del ricordo e della costituzione della memoria collettiva, assemblando un repertorio iconografico molto variegato per media utilizzati e contesto storico, che, tuttavia, risulta nello stesso tempo unificato da analogie funzionali e cariche espressivo-gestuali.

William Kentridge, Triumphs and Laments; Renault con cadavere di Moro-Sarcofago Ludovisi III d.C.-Bernini Santa Teresa LAMBARITÁLIA: Morto Rolando Fava, sua la foto di Moro a via Caetani (lambaritalia.blogspot.com); (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Altemps_sarc%C3%B3fago_Ludovisi)

William Kentridge, Triumphs and Laments; Renault con cadavere di Moro-Sarcofago Ludovisi III d.C.-Bernini Santa Teresa LAMBARITÁLIA: Morto Rolando Fava, sua la foto di Moro a via Caetani (lambaritalia.blogspot.com)

Il fregio interroga il passante e lo invita ad un atto contemplativo, ad un vero e proprio «pressure for meanings» (Settis 2020: 300), e «a un incessante fluttuare tra i poli opposti della familiarità e dello straniamento. La potenziale simultaneità della percezione, propria del “genere figurativo” del fregio, invita sia a leggerlo per segmenti, sia a ricomporlo mentalmente in unità espressiva» (Settis 2020: 324). Un esempio in particolare serve a capire l’effetto creato: il collage della Renault in cui fu rinvenuto il cadavere di Aldo Moro nel 1978, accostato ad un dettaglio del sarcofago Ludovisi con barbari morenti e Santa Teresa del Bernini. Si tratta di un accostamento insolito che evoca un unico lamento che sa di morte e trasla il significato dell’estasi in pianto funebre, secondo quel procedimento di inversione energetica di cui ha parlato Warburg. 

Odyssey di Ai Weiwei è un wallpaper di enormi dimensioni (circa 1000 mq) che è stato esposto a Palermo nel 2017 alla ZAC-Zisa Arti Contemporanee, nello stesso anno a San Paolo in Brasile durante l’esposizione Raiz e attualmente si trova a Vienna all’Albertina Modern per una grande retrospettiva dell’artista, Ai Weiwei. In search of Humanity. Odyssey è l’esito di un lavoro di ricerca iniziato nel 2015 sui rifugiati, confluito anche in un film documentario dal titolo Human Flow. Lo scopo di Ai Weiwei, artista ben noto per il suo attivismo politico, è quello di minare la narrazione occidentale ormai stantia sulla tragedia dei migranti, attraverso scelte visuali che proiettano in una dimensione transculturale e universale.

Ai Weiwei-Odyssey (2017) wall paper- Floating (2016) video- Vienna Albertina Modern Museum (ph Mariachiara Modica)

Ai Weiwei-Odyssey (2017) wall paper- Floating (2016) video- Vienna Albertina Modern Museum (ph Mariachiara Modica)

Ai Weiwei affronta il tema attraverso un repertorio iconografico che giustappone immagini provenienti dalle culture dell’antichità e dalla storia più recente, immagini dei social media e un ricco repertorio di documentazione visiva raccolto dall’artista stesso nei campi profughi (Gerbino e Nigrelli, 2017). Icone che evocano l’epico e il tragico, una vera e propria “odissea” – metaforicamente parlando – in relazione alle innumerevoli difficoltà da superare per penetrare la cortina di ferro burocratica della fortezza occidentale, e in riferimento al viaggio dei migranti che nella sua essenza rimanda a quei viaggi dei racconti del mito, alle dislocazioni, al movimento continuo degli esseri umani.

Per riagganciarsi ad un sentimento antico, propone una tecnica grafica che ricorda le figure nere della pittura vascolare greca e le stilizzazioni tipiche degli Egizi. Ai Weiwei crea questo complesso montaggio di immagini giocando con la forza della bicromia (bianco e nero) e del segno grafico bidimensionale in un fregio continuo simile a quello utilizzato dallo stesso Kentridge, introducendo qui un doppio registro narrativo. I nuclei tematici principali sono: il viaggio e i campi profughi, la guerra, le proteste e la repressione.

Ai Weiwei- Odyssey (2017) (particolari); D. Ghirlandaio, Nascita del Battista, 1485 (particolare); Colonna di Marco Aurelio, II sec. d.C., Roma (particolare) La statua equestre di Marco Aurelio: il gioiello del Campidoglio - altmarius (ning.com)

Ai Weiwei, Odyssey (2017) (particolari); D. Ghirlandaio, Nascita del Battista, 1485 (particolare); Colonna di Marco Aurelio, II sec. d.C., Roma (particolare) La statua equestre di Marco Aurelio: il gioiello del Campidoglio – altmarius (ning.com)

Le scelte iconografiche e iconologiche rimandano inequivocabilmente alle formule di pathos warburghiane (Makowiecky e Wedekin, 2021). Sembra infatti di scorgere nell’attacco dei militari, le scene di lotta che popolavano il fregio continuo della Colonna di Marco Aurelio a Roma e le numerose scene di guerre dei sarcofagi romani; invece, nel corteo di donne che sorreggono panieri sul proprio capo e tengono per mano i loro figli la ben nota immagine della ninfa canefora della Nascita di San Giovanni Battista del Ghirlandaio. Altre rappresentazioni ripropongono delle iconografie assolutamente familiari per il pubblico occidentale: prima fra tutte la Pietà michelangiolesca, emblema del dolore supremo di una madre che sorregge il corpo esanime del proprio figlio.

Una delle immagini emotivamente più intense rimane la riproduzione grafica della foto di un bambino siriano di appena tre anni, Alyan Kurdi, trovato morto sulla spiaggia di Lesbo nel 2015. Gesto che l’artista stesso ha riproposto in una performance in cui il suo corpo giace su di una spiaggia imitando la postura assunta dal bambino. L’artista ri-media e ri-significa un’immagine di cronaca che, sebbene abbia sconvolto per un certo tempo il pubblico mondiale, è caduta nell’oblio, ottenebrata dalla sovrabbondante informazione mediatica. 

Sia Triumphs and Laments che Odyssey mettono insieme un vasto repertorio di immagini di temporalità e riferimenti culturali multipli che chiede allo spettatore non tanto un’analitica presa di coscienza delle fonti citate, ma un coinvolgimento emotivo e percettivo. In questo senso entrambe le opere si rivelano in un rapporto dinamico con la tradizione del passato: reinventano la storia, danno un nuovo significato ai topoi figurativi dell’antichità che ritrovano il senso che gli è più pertinente, ovvero parlare dell’universalità della condizione umana. Commuovono, indirizzano verso una riflessione transculturale e atemporale. Si scorge quella necessità di cui parla Settis (2004a; 2020) di liberare il concetto stesso di tradizione e di classico dalla valenza negativa e dalla percezione stantia che ha avuto per troppo tempo e che rileva le sue contraddizioni alla luce di un mondo ormai globalizzato, interconnesso e multiculturale. 

Ai Weiwei-Odyssey, 2017 (particolare); Michelangelo Buonarroti-Pietà (1497-1499) https://www.flickr.com/photos/wipipip/16361483783

Ai Weiwei, Odyssey, 2017 (particolare); Michelangelo Buonarroti-Pietà (1497-1499) https://www.flickr.com/photos/wipipip/16361483783

Conclusioni e prospettive future 

Bill Sherman, direttore del Warburg Institute, a proposito del progetto espositivo di Berlino del 2020 ha affermato che Mnemosyne rimane «una pietra miliare metodologica» (Ohrt e Heil, 2020: 8), poiché in questi tempi segnati da profondi cambiamenti sociali offre la possibilità, proprio per la sua natura aperta e frammentaria, di essere utilizzato come strumento euristico adatto a mostrare nuove prospettive non strettamente eurocentriche su tematiche quali – per citarne alcune – la globalizzazione, il post-colonialismo, le questioni di genere, le migrazioni. La storia di recente fascinazione che sta suscitando lo rende un dispositivo visivo e percettivo di estrema attualità: un archivio visuale di forme espressivo-emotive dove le relazioni tra le immagini e gli interstizi marginali – lo spazio nero liminale di fondo tra essi – creano continui stimoli che sollecitano lo spettatore alla ricerca di nuovi significati. Con Mnemosyne impariamo come le idee migrano e sono interdipendenti, si influenzano reciprocamente, «formando una rete complessa piuttosto che una narrazione lineare» (Wedepohl, 2020: 15).

Mnemosyne era stato concepito in un preciso contesto storico, quello tra le due Guerre che sconvolse i valori fondanti dell’Occidente, la cui eredità è ancora in fase di metabolizzazione nell’età contemporanea. Sebbene le prime barriere epistemologiche siano crollate in quei decenni, sotto l’urto dei bombardamenti, oggi i tempi sembrano più che mai maturi per un pensiero transculturale e interdisciplinare; lo dimostrano le pratiche di molti artisti contemporanei che consapevolmente o inconsapevolmente richiamano la prassi metodologica di Warburg e in generale una poetica caratterizzata da frammenti visivi giustapposti, associazioni analogiche, correlativi oggettivi.

Didi-Huberman uno dei più importanti studiosi contemporanei del Bilderatlas Mnemosyne ne ha esplorato le potenzialità come dispositivo per la realizzazione di mostre, ad esempio con Atlas. How to Carry the World on One’s Back? incentrata sulla storia degli atlanti (nel 2011 a Madrid, Centro de Arte Reina Sofia) e Nouvelle histoires de fantomes (nel 2014 a Parigi al Palais de Tokyo), dove ha proposto un proprio pannello sul tema della lamentazione attraverso i film (Pinotti e Somaini, 2016: 106).

Risulta interessante per ulteriori e possibili sviluppi trarre ispirazione dall’atlante Mnemosyne per la creazione di esposizioni che abbiano alla base gli stessi princìpi di montaggio, costellazioni di idee e immagini, cercando nello stesso tempo di mantenere sempre uno sguardo critico che eviti un eccesso di soggettività nella pratica di curatela, secondo il cosiddetto «show-like» (Wiebel, 2017: 385).  Inoltre, l’idea di Warburg oggi potrebbe orientare alla creazione di dispositivi digitali museali per personalizzare l’esperienza estetica, da utilizzare anche come pratica laboratoriale nei contesti educativi museali, in linea con le più recenti indicazioni (ICOM).

Può ispirare in tal senso l’approccio metodologico già introdotto da Willem De Brujin, artista e accademico di Bournemouth (UK), che ha recentemente sperimentato dei workshop in cui gli studenti sono invitati a creare dei collage di immagini per studiare la storia dell’architettura e sviluppare competenze visuali (visual literacy) su determinate tematiche (De Bruijn, 2020). Una metodologia che ha il duplice scopo di rappresentare un’alternativa al metodo esclusivamente verbale vigente in ambito educativo e di evidenziare nuove possibilità offerte dal linguaggio visivo. Una ricerca che indirizza verso l’esplorazione delle innumerevoli potenzialità dell’atlante warburghiano di andare oltre le sue specificità storiche e teoretiche. 

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022 
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Mariachiara Modica, ha conseguito la Laurea Magistrale in Arti Visive presso l’Alma Mater Studiorum -Università di Bologna con tesi di laurea dal titolo: “La Collezione olandese De Stadshof. Peculiarità di una raccolta d’arte outsider approdata nel museo Dr. Guislain in Belgio”Attualmente insegna presso gli istituti secondari di secondo grado, parallelamente continua ad approfondire il discorso sull’arte, in particolare contemporanea, da un punto di vista fenomenologico e semiotico; il linguaggio artistico come campo d’indagine delle dinamiche socio-culturali e generatore di azioni politiche.
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