di Maggie Neil
Dopo tante indagini giudiziarie e inchieste di stampa, al Cara di Mineo non sembra che sia cambiato nulla, anche se, in questo scottante giorno di maggio, le T-shirt degli operatori declamano con entusiasmo: “io mi trovo al Nuovo (!) Cara di Mineo”.
Una lista parziale di cose che non sono cambiate: gli utenti del centro continuano a ricevere sigarette al posto di contanti. Ci sono ancora solo sette avvocati per oltre tremila utenti. Le ragazze nigeriane continuano a essere troppo poco seguite – fiancheggiano ancora le varie strade a pochi chilometri dal centro, e addirittura alcune sono prostituite dentro il Cara stesso. Continuano i lavori in nero nei campi agricoli nelle vicinanze, continua lo sfruttamento di persone senza documenti per mettere cibo sulle tavole degli italiani. Tutte queste persone sono isolate, a chilometri di distanza dal paese siciliano più vicino, senza speranza d’integrazione culturale, linguistica, o economica.
C’è, pure una cosa meno tangibile ma tanto potente: un senso di disperazione – come quello che permeava sicuramente il centro nel 2013, quando si suicidò Mulue Ghirmay. Durante la mia visita, mi sono avvicinata a un giovane ragazzo nigeriano. Ho iniziato a chiacchierare con lui, ma era un interlocutore riluttante. Sembrava arrabbiato e triste. «Perché era isolato senza possibilità di lavoro? Perché non sapeva per quanto tempo sarebbe dovuto rimanere lì, in quel posto sperduto e desolato? Perché danno a tutti il diniego?» mi chiese. Parlava di una situazione più grande ancora del Cara, una frustrazione che sento ancora, parlava dei poteri omcontrollati della commissione che decide se garantire o no la protezione internazionale, e delle sempre più lunghe attese per ricevere documenti, una realtà che beneficia i centri d’accoglienza che ricevono dallo Stato un pagamento quotidiano per ogni persona che risiede nel loro centro. Dopo l’adrenalina e i tumulti del rischioso viaggio attraverso l’Africa e il Mediterraneo, ora si trovano fermi, fermissimi, in una specie di limbo purgatoriale.
La realtà delle persone messe nel Cara di Mineo, come quelle parcheggiate in tantissimi altri centri (soprattutto quelli isolati) che ho visitato in Sicilia, è grigia e deprimente, quanto la polvere che copre l’arido paesaggio siciliano dei dintorni. Nei campi per rifugiati, come in quelli di concentramento, per usare le parole di Hannah Arendt, «le masse umane sigillate dentro sono trattate come se non esistessero più, come se quello che gli succede non fosse più importante per nessuno, come se fossero già morti». L’obiettivo di questi campi è di «imporre l’oblìo». La riflessione di Arendt si adatta al Cara di oggi: dopo l’attenzione mediatica e la visibilità dei soccorsi in mare, precipitano nell’invisibilità e nell’indifferenza. Il sistema, che sappiamo tutti essere per la maggior parte disumano e fallimentare – quello di parcheggiare persone dentro posti chiusi e isolati finché non ricevono documenti (che potrebbero anche non arrivare mai) – sembra un regime inviolabile e intangibile. E non sembra interessare l’opinione pubblica e investire il dibattito politico. Ci dovremmo chiedere perché non esiste un’alternativa vera al sistema d’accoglienza in Italia. Perché non diamo una chance vera a questi individui?
Sono arrivata in Sicilia nove mesi fa, per condurre uno studio sul sistema di prima accoglienza. È da qualche tempo che mi faccio questa domanda, dal momento che tanti dei centri che visito sono deprimenti, squallidissimi. Ma il Cara di Mineo mi ha fatto più impressione di tutti. Forse per le sue dimensioni – è il centro il più grande d’Europa – troppo grande per fallire, come si diceva delle grandi banche dopo la crisi del 2008. Forse per la presenza dell’esercito minaccioso appena fuori la soglia d’ingresso. O forse per i segreti che sembra nascondere questo labirinto. Visitando il centro, non si può camminare liberamente, non si può entrare nei posti intimi o privati, bisogna seguire le “guide”. Difficile parlare con le persone che ci risiedono. Non appena ho tentato di entrare in contatto con un ragazzo, si è subito avvicinata una delle nostre guide e ha appoggiato una mano sulla sua spalla, come per dirli, taci.
O forse è perché quel posto, la geografia isolata, l’architettura americana, le impenetrabili ombre della gestione, danno l’impressione di una grande e assurda iperrealtà. Era almeno questa l’impressione che ricavavo dall’atteggiamento della guida quel giorno, un rifiuto totale di parlare delle criticità e degli aspetti più oscuri del Cara. Ma tutto sembrava voler comunicare l’illusione che il Cara fosse una specie di paradiso terrestre. Baci e abbracci per i bambini; ma ipocriti e non autenticamente affettuosi. Ipocrita mi sembrò anche l’entusiasmo mostrato parlando delle attività e delle opportunità che offriva il Cara (squadre di calcio, atelier d’arte…). E poi, risate in faccia quando chiesi se le ragazze nigeriane qua nel centro erano prostituite, fatto che si sa ormai troppo bene, che si può testimoniare facilmente. Rispetto al quale l’atteggiamento è di sconcertante sufficienza.
Il Cara di Mineo, chiamato senza ironia “Villaggio della Solidarietà” (solidarietà con chi? volevo chiedere…), occupa uno spazio che è stato per anni il residence dei marines americani e le loro famiglie. Gli americani lo diedero al governo di Berlusconi nel 2011, perché ormai erano in pochi i militari rimasti. Si trasformò subito in Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Ma i segni della presenza statunitensi rimangono, e purtroppo danno l’impressione di essere in una stanza di specchi che amplifica all’infinito le assurdità kafkiane del posto. Camminare per la “Strada della Costituzione” sembra un cattivo scherzo in un posto dove regna la corruzione e la segregazione. Le case sono riproduzioni delle abitazioni di sobborghi americani, dovrebbero esprimere la ricchezza e la sicurezza del sogno americano, ma decorano invece un posto dove migliaia di persone vivono nello squallore e privati della libertà personale.
Intrappolati fra questi elementi bizzarri si trovano oltre 3000 persone, tremila uomini e donne forzati a vivere in mezzo ad un teatro dell’assurdo, fatto di gesti e di parole che appartengono ad un codice militare e carcercario, dentro un’oasi sperduta che porta ancora i segni di una cultura estranea e diversa, quella americana, di un contesto che fa apparire sempre più allucinanti le condizioni fisiche di chi vi si trova dentro.
Che sperimento è, e perché non lo ferma nessuno?
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
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Maggie Neil, vive e scrive a Palermo, dove studia la migrazione grazie ad una borsa Fulbright. Nata e cresciuta nei Stati Uniti, si è laureata alla Yale University.
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Brava l’autrice così giovane ma perspicace e coraggiosa nel portare alla luce argomenti profondi e filosofiche, da sempre importanti alla nostra umanità.