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Il carattere performativo degli oggetti artigianali nei processi di produzione della località. Una “Casa Laboratorio” in Puglia

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Fischietti in terracotta, Geppetto artigianato, Matera 2020 (ph. Ciriaca Coretti)

il centro in periferia

di Angela Cicirelli, Ciriaca Coretti [*]

Premessa

Le considerazioni che seguono prendono spunto dall’editoriale, dal titolo Il centro in periferia, pubblicato nel 2108 da Pietro Clemente, sulle pagine della stessa rivista Dialoghi Mediterranei, e dedicato alla rete dei piccoli paesi. L’espressione, tratta dal volume di Theodor W. Adorno, Note per la letteratura. Vol. 2: 1961-1968 (1979), viene utilizzata da Clemente per avviare un discorso sulla periferia reale dei mondi locali che, richiamando i lavori di Alberto Mario Cirese, riprende i concetti di centro e periferia in riferimento ai rapporti tra “cultura egemonica” e “culture subalterne”.

Quello che faremo in questa sede è tentare di traslare i due concetti in un contesto più ampio legato ai moderni processi di globalizzazione e promozione della località, in riferimento ai due termini, solo apparentemente contrapposti tra loro, di “globale” e “locale”. Nello specifico il testo che segue affronta, da un punto di vista antropologico, i temi della diversità culturale e della valorizzazione del patrimonio immateriale legato ai saperi artigiani, al fine di sottolineare il carattere simbolico e performativo degli oggetti artigianali nei processi di costruzione e promozione della località.

Il caso analizzato riguarda la storia del tradizionale fischietto in terracotta, la “Cola cola”, prodotto artigianalmente a Gravina in Puglia da più generazioni della famiglia Loglisci, oggetto eletto nel 2005 a simbolo della città, come si dirà meglio più oltre. Si considera, infine, come a partire dalla già esistente “Casa Laboratorio della Cola cola”, l’istituzione di un museo possa dare l’opportunità di far parte di reti più ampie come, ad esempio, quella dedicata alle Case della Memoria che riunisce oggi, a livello nazionale, le case-museo.

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Riproduzione in legno dei tradizionali marchi da pane, Casiello Atelier, Matera 2020 (ph. Ciriaca Coretti)

1.      Globale e locale: patrimonio e produzione della località

La visione più comune e generalizzata intende il termine “globalizzazione” come sinonimo di omogeneizzazione. Tuttavia, in riferimento alle discipline antropologiche: «ricorriamo al termine per indicare piuttosto una interconnessione più generale, crescente ma internamente molto varia, così come una crescente consapevolezza della umanità e del mondo come qualcosa di unico» (Hannerz, 2001: 8).

La differenza culturale diventa così parte di un mosaico globale di unità più o meno circoscritte. A questo proposito il mass-mediologo Marshall McLuhan (1964) usò negli anni Sessanta la formula di «villaggio globale», in alternativa al concetto di «mosaico culturale», per indicare come le diverse culture siano in realtà interconnesse tra loro e non sempre circoscritte a territori o comunità specifiche; nessuna cultura, infatti, si manifesta come un’entità territoriale dai confini netti e durevoli. Sebbene le radici profonde di una cultura tendano a trovarsi in luoghi e regioni particolari, è anche vero che gli stessi abitanti di quei luoghi vivono esperienze in altri Paesi e continenti, a sempre maggiore distanza. L’incontro tra culture, e la loro interconnessione, è un derivato della mobilità degli stessi esseri umani, ma anche dei significati e delle idee attraverso i media, la scrittura e le diverse forme di rappresentazione.

Zygmunt Bauman (1992) sostiene che «l’idea di agency dovrebbe essere collegata non a quella di sistema, bensì a un senso flessibile di habitat, in cui l’agire opera e nello stesso tempo produce» (1992: 190-191). Gli habitat possono ampliarsi o restringersi e possono identificarsi con i singoli individui o con le collettività; in questo caso, l’analisi del processo culturale delle relazioni sociali stabilisce quanto sia condiviso un habitat di significato. In tale contesto le merci diventano significati e forme che veicolano messaggi. Scott Lash e John Urry (1994) scrivono a proposito delle economie contemporanee: «ciò che viene via via maggiormente prodotto, non sono oggetti materiali, ma segni».

In riferimento a tali considerazioni sottolineiamo in questo contesto come gli oggetti artigianali, da un lato, siano espressione di specifiche entità territoriali e collettività culturali e, dall’altro, essi stessi siano sempre più spesso assunti a simboli culturali nel momento in cui si presentano nello scenario globale.

Definire la località è impresa ardua, in quanto non esiste in definitiva un termine che la definisca come forma sociale effettiva. Arjun Appadurai (1996) identifica la località, prima di tutto, nei suoi aspetti relazionali e contestuali piuttosto che spaziali, come insieme di forme particolari di azione, socialità e riproducibilità, come struttura del sentire, proprietà della vita sociale e ideologia della comunità situata: «una struttura del sentire generata da particolari forme di attività intenzionale e che produce tipi peculiari di effetti materiali» (Appadurai, 2011: 235). Alla località lo studioso affianca il termine di vicinato: «i vicinati in questo senso, sono comunità effettive caratterizzate dalla loro concretezza, spaziale o virtuale, e dal loro potenziale di riproduzione sociale» (2011: 229-230). I vicinati sono i contesti all’interno dei quali si genera un’azione sociale dotata di significato e rappresentano i prerequisiti per la produzione di soggetti locali affidabili, intesi come soggetti riconosciuti, nominati e dotati della capacità di agire socialmente all’interno degli stessi vicinati. Succede che, quando i soggetti locali intraprendono le attività sociali di produzione, rappresentazione e riproduzione, essi contribuiscono, anche involontariamente, alla creazione di contesti che possono travalicare i confini stessi, materiali o concettuali, del vicinato, contribuendo a mutamenti, anche minimi, dall’autorappresentazione collettiva. Accade quindi che, mentre i soggetti locali cercano di realizzare il compito di riproduzione del vicinato, nello stesso tempo le circostanze storiche o ambientali raccolgono il potenziale per la riproduzione di nuovi contesti materiali, sociali e immaginativi. La relazione tra i contesti prodotti dai vicinati e quelli che essi incontrano è in definitiva una questione di rapporti di forza e di gradi diversi di organizzazione e controllo in cui gli specifici spazi e luoghi sono inseriti.

In riferimento a tali considerazioni, sarebbe utile riportare l’esempio della città di Matera dove la riscoperta del territorio oltre i confini regionali, l’interesse mediatico nei confronti della città dovuto alla nomina a Capitale della Cultura Europea nel 2019 e il conseguente aumento dei flussi turistici sono fattori che hanno influito, soprattutto negli ultimi anni, alla nascita di nuove botteghe artigiane, operanti nel settore dell’artigianato artistico e del design, e al moltiplicarsi di nuove competenze artigianali che hanno integrato in molti casi elementi della tradizione culturale del territorio con nuovi materiali e tecniche di lavorazione. Il connubio tra artigianato e turismo può essere considerato un binomio estremamente attuale se si pensa ai processi di innovazione e crescita che caratterizzano oggi i contesti locali e la loro rappresentazione in uno scenario globale che valorizza le differenze.

La produzione della località, in definitiva, è frutto dell’interazione tra uno spazio-tempo localizzato e soggetti locali dotati delle competenze che ne consentono la riproducibilità. Nella produzione della località il tempo e lo spazio vengono socializzati e circoscritti attraverso pratiche consapevoli di rappresentazione, esecuzione e azione. Resta il fatto che la nozione di località rimane un concetto fragile e, allo stesso tempo, transitorio e ciò deriva dal fatto che la sua riproduzione deve tener conto della possibile disgregazione del contesto e della resistenza alla standardizzazione, senza contare le spinte generate dalle organizzazioni gerarchiche più complesse, rappresentate nel nostro caso dalle istituzioni centrali, nazionali e territoriali. La possibilità che la località diventi una struttura del sentire è un processo spesso lento, variabile e indeterminato, condizionato certamente dalle iniziative istituzionali e dalle gerarchie di potere, ma determinato anche dagli attori locali, siano essi operatori culturali o attori-abitanti di un territorio e sarebbe infine un errore demandare la sua produzione esclusivamente agli specialisti.

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Empremtes de Catalunya, sede del Centre Artesania Catalunya, Barcellona 2019 (ph. Ciriaca Coretti)

2. Il carattere performativo degli oggetti artigianali nei processi di promozione della località.

Tra omologazione e localismi si collocano i processi di valorizzazione portati avanti a favore dei patrimoni locali. I fatti locali, oggi, sono dunque pensati, declinati e costruiti come fatti globali-locali; specifiche manifestazioni culturali vengono pensate perché si presentino su uno scenario più ampio, ad esempio quello legato ai mercati turistici o alla comunicazione globale. Il cambiamento di prospettiva, che vedeva i due concetti diametralmente opposti tra loro, ha rivitalizzato elementi culturali marginalizzati, ridando vita a usanze, manifestazioni e oggetti materiali, modificando la percezione delle istituzioni e delle stesse comunità in riferimento al proprio patrimonio culturale, materiale e immateriale e contribuendo a ricostruirne le proprie specificità.

In tale ottica, gli oggetti artigianali sono percepiti dai consumatori come espressione del territorio in cui hanno avuto origine e si caratterizzano pertanto come bene a forte differenziazione. La loro caratterizzazione si basa ingenuamente su concetti quali “autenticità” e “genuinità” e su processi che generano quella che si definisce “produzione della località”. Il rispetto di modalità produttive tradizionali garantisce loro l’autenticità, e il legame con il territorio la loro genuinità. A queste si aggiunge il riferimento più o meno esplicito alla memoria culturale dei luoghi attraverso forme e richiami alla tradizione (Lai, 2009: 72-74).

Numerosi oggetti ormai privati del loro contesto originario sono diventati oggi significativi per il loro valore simbolico. Alcuni, legati all’arte popolare del passato, sono giunti fino a noi, perdendo in molti casi la loro originaria destinazione d’uso e assumendo nuovi significati simbolici legati a mutati contesti socioculturali ed economici. Nonostante tutto, molti di questi oggetti rivendicano una forte continuità con i modi e le forme della tradizione: è il caso, ad esempio, dei marchi da pane o dei fischietti in terracotta. Facendo riferimento, ad esempio, alla produzione artistica artigianale della città di Matera, oggi il cuccù (forma dialettale del fischietto in terracotta), insieme al marchio da pane, è presente quasi in ogni casa e molte famiglie materane ne possiedono uno. Fabbricati attualmente in terracotta, in ceramica e in legno, i fischietti e i marchi da pane presentano, nella loro forma contemporanea, una grande varietà di forme e di colori. Ricercati dai visitatori e proposti come souvenir turistici per il loro valore simbolico e il richiamo alla tradizione, sono attualmente realizzati da molti artigiani materani che hanno ripreso a fabbricarli inserendoli nella propria produzione artistica.

Pensando dunque alle produzioni artistiche artigianali attuali, il richiamo alla tradizione e il suo recupero e adattamento hanno favorito il rilancio di un tipo di produzione legata ad alcuni oggetti che altrimenti avrebbero raggiunto, come dice Mario Turci, il loro “punto zero” e che invece grazie anche alla maestria degli artigiani sono entrati oggi a far parte di una nuova quotidianità (Turci, 2009: 27-29). Franco Lai ritiene che negli atti di consumo degli oggetti si esprimano non una, ma diverse intenzionalità. Lai sottolinea come questa tendenza abbia anche alcune implicazioni culturali: per certi aspetti si tratta di una sorta di riscoperta delle produzioni artigianali dovuta, in parte, a una nuova affermazione delle identità culturali locali, in risposta al più generale processo di globalizzazione, e, in parte, alla domanda di un tipo di turismo sempre più legato alle specificità ambientali e culturali. Marchi e autenticazioni appaiono come la risultante, attraverso un vero e proprio processo di produzione della località, di differenti intenzionalità: la creazione di un ideale di identità ricercato in nome delle specificità regionali; il mercato e il turismo come ambiti di affermazione delle identità locali attraverso gli oggetti, simboli naturali di autenticità culturale.

In tale ottica, i marchi, le certificazioni, le garanzie e le autenticazioni da parte di studiosi ed esperti attestano e garantiscono il successo sul mercato degli oggetti artigianali, nello stesso modo in cui le politiche patrimoniali e di valorizzazione concorrono alla costruzione del patrimonio stesso. Lai cerca di definire meglio alcune questioni riferite a questo complesso processo di recupero e valorizzazione dei patrimoni. In particolare, egli sottolinea come le dinamiche politiche, le misure di sviluppo rurale dell’Unione Europea, l’emersione e lo sviluppo dei saperi locali, il cambiamento dei modelli di consumo verso produzioni culturalmente connotate, possono essere tutti interpretati come politiche di «produzione della località» (Lai, 2007: 28-45).

Riporto infine, a tale proposito, l’esempio della Catalogna, uno dei due casi di studio, insieme a quello della città di Matera, indagato durante la mia ricerca di dottorato, dove emerge come, nel caso delle politiche patrimoniali messe in atto dal governo regionale catalano, il processo di valorizzazione, salvaguardia e promozione delle pratiche artigiane sia legato alla riappropriazione e rappresentazione della propria eredità culturale in contrapposizione alle politiche unitarie attuate dallo Stato Nazionale, rendendo manifesto il carattere performativo di tali iniziative patrimoniali. Le politiche di promozione messe in atto a livello istituzionale hanno portato alla creazione del marchio Empremtes de Catalunya con lo scopo specifico di promuovere l’autenticità dell’artigianato catalano in contrapposizione alle produzioni artigianali comunemente assimilabili al resto della Spagna, inserendosi all’interno di un processo più ampio di valorizzazione e promozione della cultura materiale e immateriale, condotto in primis dalla Generalitat de Catalunya e poi diffusosi in modo capillare nel territorio attraverso i comuni e i musei locali.

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Casa Laboratorio della Cola cola famiglia Loglisi, Gravina (ph. Ciriaca Coretti)

3. La Cola cola di Gravina in Puglia: la storia dei fratelli Loglisci

Un esempio di processo di costruzione e promozione della località è quello avviato dalla Casa Laboratorio della Cola cola a Gravina in Puglia, che attualmente svolge un ruolo importante nel rimarcare una distinzione culturale locale rappresentata da un oggetto artigianale. La Cola cola, «molto vicino nella forma e nella tecnica alla tradizione dei fischietti popolari»[1] in terracotta, è stata eletta a simbolo della città in anni recenti, nel 2005, quando l’Amministrazione locale, riconoscendo e premiando l’operato artigianale e la produzione di valore culturale dei fratelli Beniamino e Vincenzo Loglisci, ha approvato l’installazione di una grande scultura in resina che riproduce la Cola cola nei pressi di una strada principale di ingresso alla città. Decretare un oggetto, come il fischietto in terracotta che, nella sua forma, richiama una gazza ladra, la cola cola in dialetto locale, dalle piume dipinte con i colori primari molto accesi (molto simile ai cuccù materani e ai fischietti salentini e rutiglianesi), a simbolo di una intera comunità, non è stata in realtà una decisione unanimemente condivisa in città. La promozione culturale e turistica locale, infatti, pone soprattutto l’attenzione su altri elementi identificativi come il paesaggio e la storia del territorio descrivendo Gravina in Puglia “Città della pietra e dell’acqua” per la gravina e l’habitat rupestre che costeggia l’abitato, così come per le sorgenti naturali d’acqua, collegate dalle fontane e dal ponte dell’acquedotto seicentesco, e per il sito archeologico di Botromagno, che riveste un notevole interesse sul piano scientifico. Gravina in Puglia, inoltre, è nota per aver dato i natali a papa Benedetto XIII, della famiglia ducale degli Orsini, e anche perchè è sede dell’Ente Parco Nazionale dell’Alta Murgia, istituzione che negli ultimi anni è percepita in maniera sempre più crescente dalle comunità a cui appartiene. In ogni caso, pur all’interno di un dibattito acceso e particolarmente controverso a livello cittadino, l’iniziativa dell’Amministrazione Comunale ha fissato anche sul piano istituzionale locale il percorso per la designazione della Cola cola a simbolo della città.

Le vicende relative alla rivalutazione della produzione dei Loglisci risalgono, però, agli anni Ottanta del secolo scorso quando, di propria iniziativa, i due artigiani hanno cominciato a partecipare a fiere e mostre tematiche e a mettere a disposizione i loro manufatti per esposizioni museali, facendosi così conoscere soprattutto fuori dal paese d’origine. Artigiani per tradizione e passione, i due fratelli hanno imparato a modellare l’argilla dal nonno paterno e dal padre, continuando negli anni a custodire il sapere legato a tale attività artigianale. Beniamino e Vincenzo, nati fra le due Grandi Guerre da una famiglia di contadini saltuari, in un territorio marginale ed emarginato da tutto il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, sono stati costretti a emigrare per trovare una occupazione che garantisse reddito. Dopo aver lavorato in Germania come metalmeccanici per circa dieci anni, sono tornati per dedicarsi al mestiere di imbianchini e per mantenere attivo, in casa, il laboratorio per la lavorazione dei fischietti.

La casa dei fratelli Loglisci ha una storia particolare perché essa stessa è una sorta di documento storico che aiuta a leggere le vicende di un’epoca e di una vita condotta in ristrettezze economiche in un territorio “periferico” per condizione. La casa si trova nell’ex monastero di Santa Maria delle Domenicane, occupato abusivamente negli anni successivi alla promulgazione delle leggi di soppressione [2], quando i beni ecclesiastici passarono al demanio pubblico. Molte famiglie indigenti popolarono e adibirono le vecchie celle conventuali a propria abitazione, una delle quali fu occupata dai nonni dei fratelli Loglisci. Disposta in sei locali al primo e al secondo piano, la casa ha l’accesso principale nella piazza antistante il sagrato della Concattedrale di Gravina e un balconcino al primo piano, dal quale si gode della visuale di parte della profonda gravina, che costeggia l’abitato, puntellata da grotte e collegata dalle arcate in pietra del maestoso ponte dell’acquedotto. Le altre stanze, invece, hanno finestre e affacci sulle pareti interne del chiostro del complesso monastico, sul quale insistono i resti di balconate e verande arbitrariamente delimitate dagli occupanti. Degli ambienti originari della casa si conserva la camera da letto dove sono esposti solo alcuni pannelli, i quali riportano articoli e fotografie che riguardano Beniamino e Vincenzo. Su una poltroncina è adagiata una chitarra, sul comò una fisarmonica che i due emigranti suonavano per diletto, anche all’estero, in occasioni di matrimoni e feste familiari. Nella sala da pranzo, destinata a sala espositiva già dai fratelli artigiani ormai scomparsi, le scaffalature sono ricolme di oggetti in terracotta dalle forme più svariate. Tre pareti sono dedicate all’esposizione museale e a una grande libreria che conserva riviste, opuscoli museali e documenti della Casa-Laboratorio; accanto alla finestra, invece, due scaffali ricolmi di oggetti realizzati su commissione e altri destinati alla vendita, che avviene solitamente su un banchetto allestito nella piazza, davanti all’entrata del monastero. Nel vano ingresso, al primo piano, vi sono alcuni arredi domestici e l’accesso alla stanza della cucina, dove avviene la fase di essiccazione dell’argilla e dove sono disposti accuratamente tutti i lavorati grezzi.

Oltre una parete divisoria, in un piccolo ambiente, trova posto il banco da lavoro di Michele con i suoi piccoli attrezzi per definire i dettagli della lavorazione, un lavatoio, un grosso pezzo di argilla conservato con la giusta umidità e una serie di pennelli e colori che Marco utilizza per le decorazioni. Al piano superiore, in un’ala coperta del porticato del monastero, è ammassata ancora qualche catasta di legna da ardere, un paio di banchi da lavoro, un vecchio violino che Beniamino stava cercando di riparare e l’entrata al vano della fornace, ormai spenta e inattiva come tutte le altre del quartiere, destinate per lo più per la cottura di tegole e vasellame. Il piano dedicato alla cottura è inutilizzato e tutto sembra che sia stato lasciato nella stessa posizione in cui si trovava prima che l’ultimo anziano artigiano morisse, ma la bottega non si è fermata e nuove progettualità, familiari prima e poi anche istituzionali, hanno dato forza a questo processo di promozione culturale locale.

Nel 2016 l’intero complesso monastico è stato inglobato in progetti di rigenerazione urbana e, quindi, sottoposto a sgombero, anche se le ultime famiglie hanno lasciato le case occupate nel 2019, per permetterne lavori di ristrutturazione. Nel 2017, per evitare lo “sfratto” e salvaguardare la casa-laboratorio, Marco Tritto e Michele Colonna, due dei quattro eredi dei fratelli Loglisci, hanno costituito l’Associazione Culturale “La casa della Cola cola” per poi richiedere al Comune la concessione dei locali con il fine di farne una Casa Museo. L’accordo e il contratto in comodato d’uso sono stati deliberati nel febbraio del 2021 dal Consiglio Comunale e sottoscritti anche dalla Associazione Culturale, la quale dovrà continuare a usufruire della struttura con l’unica finalità di ospitare il Museo.

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Casa laboratorio della Cola cola, Gravina (ph. Ciriaca Coretti)

4. La “Casa Laboratorio della Cola cola” come ipotesi di casa-museo

L’accordo stipulato con l’istituzione locale prevede la concessione “dell’unità immobiliare” a Marco Tritto e rileva, da parte pubblica e con le stesse modalità del comodato d’uso, «l’intera collezione artistica della Cola cola, ereditata dai germani Vincenzo e Beniamino Loglisci»[3]. L’ipotesi di un’istituzione museale nasce, quindi, dopo la scomparsa dei due fratelli artigiani. Nel 2016 i quattro eredi, non essendo tutti propensi alla prosecuzione della Casa laboratorio, hanno suddiviso tra di loro la collezione di fischietti e altri manufatti, che contava inizialmente circa duecento unità. I pezzi, tutti contrassegnati, sono stati sorteggiati tra i quattro eredi, motivo per cui la collezione esposta nella Casa della Cola cola conta solo un centinaio di manufatti realizzati dai fratelli Loglisci numerati e etichettati. Marco Tritto e Michele Colonna, prosecutori della Casa-Laboratorio, dal 2017 hanno costituito una Associazione culturale e aperto la Casa al pubblico gestendola nella prospettiva di farne un museo, guidando i visitatori e raccontando la storia di famiglia, come durante l’esperienza di chi scrive.

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Casa laboratorio della Cola cola, esposizione permanente, Gravina (ph. Ciriaca Coretti)

Oltre a vetrine sui social web, ad alcune brochure e alla notorietà legata al collezionismo dei fischietti, la Casa della Cola cola non dispone di una rete di promozione e valorizzazione. Tuttavia, il numero dei visitatori è stato consistente negli anni 2018 e 2019, con oltre diecimila presenze all’anno, grazie alla connessione con i circuiti turistici legati a MateraBasilicata2019 e al Cammino Materano. Molti sono i turisti stranieri che raggiungono la sede grazie a recensioni positive fornite da società – off e on line – come Lonely Planet e Tripadvisor. Inoltre, le collaborazioni con altre realtà associative locali e alcune scuole vedono sempre più spesso i due eredi artigiani all’opera con laboratori didattici.

Nella quotidianità di questa “periferia”, quindi, la Casa Laboratorio funziona già come un museo, pur se c’è molto lavoro da fare, da parte tanto delle istituzioni quanto di coloro che hanno ereditato un patrimonio dal significativo valore culturale sul piano della tradizione locale. La lavorazione artigianale, come nel caso della Cola cola, ridefinita secondo le tassonomie Unesco, è oggi riconosciuta, infatti, come un patrimonio culturale immateriale, ereditato di generazione in generazione perché trasferito attraverso uno specifico linguaggio del corpo, sedimentato culturalmente e dotato di una sintassi in grado di generare uno sguardo abile a memorizzare la ripetizione di atti fisici, gesti, dotati di effetti sulla materia (Leroi-Gourhan, 1977: 137), o mani per pensare, come sostiene Richard Sennett (2009: 4). Ereditare un mestiere è il risultato di un processo di interrelazione con l’ambiente e con la società che va ben oltre il rapporto artigiano-apprendista, o zii e nipoti come in questo caso, perché coinvolge gran parte della comunità nella quale si inseriscono queste dinamiche ed è soprattutto una eredità materiale e immateriale tramite la quale si costruiscono relazioni, significati condivisi e memorie collettive.

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Casa laboratorio Cola cola, Michele Colonna, Gravina (ph. Ciriaca Coretti)

L’idea del Museo parte da un oggetto d’artigianato tradizionale, da una collezione di Cola cola, perché bisogna riconoscere che gli oggetti, siano essi musealizzati o ancora in uso nella contemporaneità, sono considerati alla stregua di strumenti di conoscenza attraverso i quali è possibile parlare di storie soggettive e di comunità, di evocare ricordi e memorie affettive, di raccontare contesti, descrivere consuetudini di utilizzo e tecnica, intendendoli ben oltre il loro essere semplici manufatti (Mirizzi, 2008: IX). Gli oggetti artigianali, infatti, rientrano a pieno titolo nell’immenso patrimonio culturale materiale e immateriale che, secondo la Convenzione Unesco del 2003, sono “patrimonio vivente”, come «le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how […] – e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità̀, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale». Un patrimonio culturale immateriale, pertanto, “vivente” perché ereditato dagli individui e dalla comunità e perché capace di riflettere e influenzare il modo in cui si comprendono le culture, i mezzi attraverso i quali vi si dà forma, un’eredità, essenzialmente, in grado di «fornire a comunità, gruppi e individui un senso di identità e continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana» (Thompson-Flores, 2020: 11-13).

La diversità culturale che “produce località” è una delle leve più importanti sulla quale sono basate le ultime Strategie Nazionali per il rilancio e la rivalutazione delle aree interne (SNAI 2021), meglio note come l’osso scarno rispetto alla ricca polpa, finalizzate a far fronte agli ultimi periodi di crisi economica. In una contemporaneità, pertanto, che si confronta con i cambiamenti veloci e radicali come conseguenza della globalizzazione, il patrimonio culturale immateriale diventa una risorsa risolutiva per attivare politiche di rilancio territoriale basate su collaborazione tra pubblico e privato. L’ipotesi che la Casa-Laboratorio della Cola cola possa diventare Museo, rientrando in specifici circuiti di studio, di ricerca e in reti culturali e promozionali, fra le quali l’Associazione Nazionale Case della Memoria, fa di questa realtà un tassello importante e dinamico per la ripresa e la ripartenza della periferia di un mondo locale sia nell’ottica nazionale (PNRR 2021) sia nelle visioni locali, dove i piccoli musei hanno la potenzialità di svolgere un ruolo importante in termini di conoscenza, di qualità dei servizi e, per prima cosa, di valore culturale.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
[*] Pur essendo stato l’articolo concepito e discusso in maniera unitaria, si precisa che la stesura della Premessa e dei paragrafi 1 e 2 si deve a Ciriaca Coretti, mentre quella dei paragrafi 3 e 4 ad Angela Cicirelli.
Note
[1] Lettera della Direttrice del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Dott.ssa Valeria Cottini Petrucci, in risposta alla donazione di un fischietto in terracotta da parte di Beniamino Loglisci, Roma 28 ottobre, 1986.
[2] Legge sulla soppressione delle corporazioni religiose e sull’asse ecclesiastico, 7 luglio 1866, n. 3036; Legge per la liquidazione dell’asse ecclesiastico, 15 agosto 1867, n. 3848.
[3] Delibera della Giunta Comunale, Prot. 0008236 del 12 marzo 2021. 
Riferimenti bibliografici
Adorno, T. W., Note per la letteratura. Vol. 2: 1961-1968, Roma, Einaudi, 1979.
Appadurai A., Modernità in polvere, Milano, Cortina Raffaello Editore, 2011.
Bauman, Z., Intimations of Postmodernity, London, Routledge, 1992.
Clemente, P., 2018, Un Paese fatto essenzialmente di paesi, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 31, maggio
Hannerz, U., La diversità culturale, Bologna, Il Mulino Editore, 2001.
Lai, F., Saperi locali e produzione della località, in Caoci, A., Lai, F. (a cura di), Gli “oggetti culturali”. L’artigianato tra estetica, antropologia e sviluppo locale, Milano, Franco Angeli, 2007.
Lai, F., Località, in “Antropologia Museale, Rivista quadrimestrale della Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici”, 22 (8), 2009: 72 – 74.
Leroi-Gourhan, A., Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggi, Torino, Einaudi, 1977: 137.
Mirizzi, F., Storie di oggetti. Scritture di musei. Riflessioni ed esperienze tra Puglia e Basilicata, Bari, Di Pagina, 2008.
Sennett, R., Le mani per pensare. Lezione magistrale, Bologna, Regione Emilia Romagna, 2009: 4.
Thompson-Flores, A. L., Il patrimonio culturale immateriale, in Sinibaldi, E. (a cura di), L’Unesco e il patrimonio culturale immateriale: patrimonializzazione e salvaguardia, Roma, Mibact, 2020: 11-13.
Turci, M., Cultura materiale, in “Antropologia Museale, Rivista quadrimestrale della Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici”, 22 (8), 2009: 27 – 29.
Sitografia
Associazione Nazionale Case della Memoria: <https://www.casedellamemoria.it/it/>.
Casa Museo della Cola cola: <http://museodellacolacola.weebly.com>.
Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, Parigi, 17 ottobre 2003: <https://ich.unesco.org/doc/src/00009-IT-PDF.pdf >.
Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, Faro, 27 ottobre 2005: <http://www.unesco.it/it/News/Detail/861>.
Informazione e Accoglienza Turistica, Gravina in Puglia: <https://iatgravina.it/>.
Regione Puglia, Assessorato alla Cultura, Tutela e sviluppo delle imprese culturali, Turismo, Sviluppo e Impresa turistica: <https://www.viaggiareinpuglia.it/at/144/localita/4348/it/Gravina-in-Puglia>.
Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Roma, 25 aprile 2021: <https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR_0.pdf>.
Strategia Nazionale per le Aree Interne: <https://www.agenziacoesione.gov.it/strategia-nazionale-aree-interne/>.
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Angela Cicirelli, Assegnista di ricerca nel ssd M-DEA/01 presso il Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo dell’Università degli Studi della Basilicata per il progetto Paesaggi culturali e patrimoni materiali e immateriali: invarianti strutturali del territorio regionale della Basilicata, ha concluso, a gennaio del 2020, il Dottorato di ricerca “Cities and Landscapes: Architecture, Archaeology, Cultural Heritage, History and Resources” con una tesi su Paesaggi culturali, comunità e processi di patrimonializzazione. La pianificazione territoriale come campo di pratiche condivise. È membro del Consiglio Direttivo della Siac (Società Italiana di Antropologia Culturale) e fa parte del comitato di redazione della rivista Archivio di Entnografia. Recentemente ha pubblicato il saggio Paesaggi culturali, comunità e processi di patrimonializzazione. Esperienze a confronto tra l’Osservatorio del Paesaggio della Regione Puglia e l’Osservatorio del Paesaggio della Catalogna, in Gisotti, M.R., Rossi, M., (2020), Territori e comunità. Le sfide dell’autogoverno, SdT edizioni, e, come coautrice, Abitare il patrimonio. La produzione culturale come fatto sociale, in AA. VV., (2020), Atti della XXII Conferenza Nazionale SIU. L’Urbanistica italiana di fronte all’Agenda 2030. Portare territori e comunità sulla strada della sostenibilità e della resilienza, Matera-Bari 5-6-7 giugno 2019, Roma-Milano, Planum Publisher.
Ciriaca Coretti, Dottoressa di ricerca presso il DICEM – Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo dell’Unibas, con una tesi di dottorato nel ssd M-DEA/01, dal titolo Artigianato artistico e processi di costruzione della località. I casi della città di Matera e della regione catalana. Ha conseguito presso l’Università degli Studi della Basilicata la laurea triennale in Operatore dei Beni Culturali, indirizzo demoetnoantropologico e, nel 2012 la laurea specialistica in Nuove Tecnologie per la Storia e i Beni Culturali con una tesi in Antropologia Museale e dei Patrimoni Culturali dal titolo I Fondi Fotografici del Centro di Documentazione Rocco Scotellaro e la Basilicata del secondo dopoguerra di Tricarico.  È socia fondatrice dell’Associazione Culturale DeaLab, che opera nel campo dei patrimoni culturali immateriali, ed è attualmente socia della Siac (Società Italiana di Antropologia Culturale). Fa parte del comitato di redazione della rivista «Archivio di Etnografia». Ha collaborato nel 2018 alla pubblicazione del catalogo Fucina Madre. Expo dell’artigianato e del design in Basilicata. Basilicata Design & Craft Expo. Matera 21-25 Aprile 2018, a cura di APT Basilicata con un articolo dal titolo Artigianato, patrimonializzazione e turismo. Saperi tecnici e creatività culturale.

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