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Il Carnevale di Tricarico. Una riflessione sul cambiamento culturale di una comunità patrimonializzata

Alcune maschere della Vacca sfilano sul Belvedere a Carnevale. Sullo sfondo, il centro storico del paese. Tricarico (MT), marzo 2022(p, foto di Emanuele Di Paolo.

Alcune maschere della Vacca sfilano sul Belvedere a Carnevale. Sullo sfondo, il centro storico del paese. Tricarico (MT), marzo 2022 (ph. Emanuele Di Paolo)

CIP

di Emanuele Di Paolo [*] 

Quasi vent’anni fa, gli Stati membri del Consiglio d’Europa firmavano la Convenzione di Faro (2005). Insieme alle politiche UNESCO, ha portato gli studiosi dei Beni Culturali a dirigere attenzioni e  riflessioni sul ruolo giocato da politica e opinione pubblica nell’ambito della patrimonializzazione di saperi e pratiche locali (Appadurai 1998, Palumbo 2006). Uno spostamento del focus dall’oggetto-patrimonio, materiale o immateriale, al discorso che intorno ai beni culturali costruiscono i vari gruppi, dalle istituzioni al singolo soggetto, con configurazioni oggettivanti più disparate della concezione di autenticità e tradizione. Ciò che rappresenta le radici di una comunità è allo stesso tempo ripensato in forme di promozione turistica, musealizzazione, collocazione in una gerarchia globale di valori (Herzfeld 2004) e pratiche di autorappresentazione sempre affacciate sul mondo globalizzato. Quelli dell’antropologia, sono concetti conosciuti e manipolati dagli attori sociali, come ormai dimostrato da una vasta letteratura. La produzione di identità e memoria è un processo di mediazione e interpretazione eterogeneo e denso, nel quale l’eredità culturale viene modellata da numerose “braccia”, restituendone, pertanto, quadri parziali e selettivi (Padiglione 2006).

Il contributo proposto è una riflessione sui risvolti dell’attivismo della popolazione di un paese del Meridione che, nel processo di patrimonializzazione di una pratica devozionale, sulla quale ho svolto una ricerca etnografica di lunga durata, ha ottenuto una certa notorietà: il Carnevale di Tricarico in Basilicata. Si tratta di un rituale religioso che, nell’ultimo decennio, ha visto il dilatarsi del circoscritto, marginale universo umano e territoriale che lo ha prodotto, il ripetersi oltre le date stabilite dal calendario agro-pastorale, il moltiplicarsi dei significati ad esso attribuiti e l’imitazione da parte di altre municipalità della regione.

Se da un lato è assodato che il patrimonio statale, composto da monumenti ed edifici storici e pochi grandi eventi di importanza storica, possiede un valore transnazionale ed è in relazione con una collettività indistinta, la “civiltà occidentale”; dall’altro lato, per i patrimoni viventi, il discorso si fa più complesso se osservato da una prospettiva glocale. Cercherò di mostrare la maniera in cui l’aspetto religioso della rappresentazione venga preservato nella prima uscita dell’anno delle Maschere di Tricarico, in onore di sant’Antonio abate; mentre cede il posto a logiche di mercato, estetiche e di prestigio nella (ri)plasmazione su valori globali avvenuta per rispondere alle richieste della società contemporanea: sfruttamento delle opportunità di crescita economica, solidarietà, sostenibilità ambientale, fruizione multimediale sui social e via dicendo. Il Carnevale ingloba sempre elementi di attualità: a Tricarico hanno aggiunto, nel 2022, una coppia di nastri del colore della bandiera dell’Ucraina.

Mascherarsi apre alla conoscenza di altre culture, sostenibilità ambientale e attenzione alle nuove generazioni. La grande partecipazione e la messa in valore dei Carnevali ha favorito una rappresentazione non solo in situ, quella tradizionale, ma anche in vari raduni che raccolgono i tanti Carnevali d’Europa, facilitati dai voli low cost che connettono in maniera capillare anche regioni periferiche del continente. I raduni di maschere, che avvengono in ogni periodo dell’anno in molte aree interne d’Europa, costituiscono un fatto sociale totale in grado di influenzare un gran numero di azioni economiche, pratiche relazionali ed emozionali degli individui. All’interno della comunità di pratica (Lave e Wegner 1991) si alimenta un conflitto tra le correnti che difendono l’intimità culturale (Herzfeld 1997) e quelle che sono impegnate nell’istituzionalizzazione del bene immateriale. 

Una donna indossa una maschera del Toro priva di cappello di fronte alla chiesa di Sant'Antonio abate. Solo per la sfilata di Carnevale sono ammesse variazioni dal modello originale. Tricarico (MT) marzo 2022, foto di Emanuele Di Paolo.

Una donna indossa una maschera del Toro priva di cappello di fronte alla chiesa di Sant’Antonio abate. Solo per la sfilata di Carnevale sono ammesse variazioni dal modello originale. Tricarico (MT) marzo 2022(ph. Emanuele Di Paolo)

Il contesto della ricerca 

Tricarico, nel panorama italiano, è stata oggetto di attenzione privilegiata dell’etnologia fin dalle ricerche in equipe di Ernesto De Martino e Diego Carpitella, con il supporto dei tecnici e dei mezzi di ripresa audiovisiva della RAI. Di fronte alla “rovina” di Tricarico, l’etnologo campano partorisce, nel 1950, una cristallina etnografia di se stesso. Sulla rivista “Società”, De Martino scrive del senso di colpa e vergogna provato dalla sua condizione di “intellettuale piccolo borghese” guardando i “bambini rabatani”; degli sforzi di emancipazione dei contadini, che si riflettono nella Canzone della Rabata [1] (De Martino 1950). Assai feconda è stata inoltre l’opera umana e scritta di Rocco Scotellaro, eletto sindaco del paese a soli 23 anni, dal 1946 al 1950. Il poeta lucano risuona ancora nei discorsi e nelle iniziative culturali del borgo medievale, con un centro studi e una casa museo a lui dedicati. Per l’avvio della mia indagine, preziose sono state le pagine di Contadini del sud (Scotellaro 1954) dalle quali emerge la prepotenza della storia di vita quale voce unica e univoca, priva di incursioni interpretative, ancora prima che diventasse un collaudato genere antropologico. La sua vita trascorsa in solidarietà con la produzione orale dei braccianti e dei pastori, gli consentiva uno sguardo senza distanze, compromesso e analitico al contempo, istintivamente militante, con il quale in parte mi identifico, essendo cresciuto nelle campagne e nelle officine artigiane e avendo poi lavorato sul terreno della medesima zona periferica d’Italia, respirato il fatalismo comune alle cosiddette aree interne, d’un tratto ritrovatesi senza mezzi per interpretare il linguaggio dei nuovi paradigmi di sviluppo economico.

Mi accingevo a iniziare un’etnografia intensiva su riti arborei, Carnevali e pellegrinaggi, non potevo quindi ignorare il gioco di specchi che tali pratiche sostengono con la società della povertà, pastorale e contadina, che li ha formalizzati. Leggere Scotellaro, insieme alla dimestichezza acquisita vivendo in un’area rurale d’Italia, mi ha permesso di arrivare già “allenato” alle forme di vita che facevano da scenario coerente e alimentavano rituali riproposti oggi in forme di rappresentazioni pubbliche da salvaguardare. Al presente, infatti, il valore di patrimonio culturale e i significati connessi alla sfera individuale e interiore dei sentimenti, più che a quella collettiva e formale delle classi subalterne, non consente il riferimento a un dislivello di produzione e consumo, materiale e simbolico, dei “senza storia” (De Martino 2002). Non sussiste più una incommensurabilità tra le culture contadina e dei ceti abbienti, ma è più corretto parlare di un’uniforme classe media poco differenziata al suo interno.

Un tempo, la visione del mondo dei servi della gleba passava attraverso le lenti della realtà materiale, era intrecciata al lavoro con le bestie e alla dipendenza dalle stagioni. Emanazioni provenienti da quella cultura le vediamo, per fare un esempio, nella fatica e nelle competenze necessarie attualmente alla realizzazione delle grandiose strutture di tronchi e corde degli otto riti arborei della Basilicata [2], da parte del ristretto numero di persone che costituiscono le maestranze locali. Attirano grandi folle ad assistere alle fasi che precedono i cerimoniali del matrimonio, dell’erezione e dell’arrampicata sugli “obelischi vegetali” proprio in ragione del fatto che lì si possono vivere le ricercate esperienze di “antico” e “autentico”, aggettivi pure incarnati da questi attori sociali. Di fatto, sono depositari di saperi tramandati per via orale, tecniche del corpo e della mano apprese in famiglia e sul lavoro, padronanza del gergo contadino e della micro-toponomastica, dei rapporti tra pastori, agricoltori e padroni. Essi passano per una serie di implicite tappe iniziatiche (Fabre 2023) per raggiungere una certa autorità individuale, riconosciuta oggi in ambito di patrimonializzazione. Le qualità che dispiegano durante la festa promanano da una incorporazione delle condizioni materiali, che ho ritenuto opportuno indagare per trovare una giusta collocazione agli oggetti e ai comportamenti cerimoniali che attingono dal settore agro-pastorale [3].

I saperi degli anziani ancora in grado di raccontare quel mondo di incertezza e autodeterminazione contadina, sono tenuti in grande considerazione a Tricarico, al pari del considerevole patrimonio architettonico e di arte sacra. Sede vescovile dal X secolo, l’importanza culturale ed economica di cui godeva la diocesi, ha favorito una cura pressoché continua dei beni culturali, che la rende oggi una delle località con il centro storico conservato meglio in Basilicata. La zona, attraversata dalla Via Appia, è disseminata di architetture di pregio che testimoniano le influenze longobarda, araba e bizantina. L’impianto urbanistico si divide in due quartieri principali: la Rabata, con il dedalo di strette viuzze che degradano verso gli Orti Saraceni e il Quartiere Normanno, dominato dalla maestosa torre a base circolare e dal Palazzo Ducale dei Sanseverino, oggi sede di un museo archeologico.

Mi ero trasferito a vivere in Basilicata per condurre la ricerca sul campo della durata di un anno (Luglio 2021-Luglio 2022). Un progetto ministeriale [4] di documentazione di pratiche lavorative e festivo-rituali connesse alle architetture e al paesaggio rurale, tra il materano e la Val D’Agri. Tricarico doveva essere uno dei centri toccati dal progetto, come parte di itinerari di collegamento tra territorio e dette pratiche culturali. La cittadina montana è invece diventata l’oggetto di una ricerca di comunità, che guarda all’evoluzione di un rito agropastorale invernale, la Mascherata della Vacca e del Toro, dal suo interno, oltre a indagarne gli aspetti materiali, formali e performativi [5]. I tricaricesi mi hanno accolto con grande empatia e consapevolezza di ciò che poteva servirmi. Mi hanno aiutato a trovare un alloggio e i giovani del paese sono stati una rete di supporto vitale. Si sono presi cura di me per quasi un anno, integrandomi nei loro circuiti famigliari e sociali. Ne sono nate amicizie personali, che mi hanno portato a viaggiare con loro per un raduno di maschere ad Acireale (CT), nell’aprile 2022, della durata di quattro giorni e tornare periodicamente a trovarli. Ciò mi ha dato l’opportunità di conoscere le dinamiche interne alla patrimonializzazione del Carnevale, che mi interessava perché aveva gettato ponti tra località delle aree interne d’Europa, apparentemente caratterizzate da “arroccamenti”, sia in senso spaziale che delle relazioni sociali. Volevo confrontare i punti di vista sulla messa in valore di oggetti di affezione collettivi; rappresentati innanzitutto dalle componenti materiali della maschera, ma anche dall’intangibilità di luoghi, associazioni, personalità ed esperienze, incorporati per partecipazione volontaria del singolo individuo; i significati attribuiti dagli attuali fautori del rito, non più contadini e pastori, ma cittadini iper-connessi. 

Tre maschere della Vacca in posa prima di Carnevale. Tricarico (MT), marzo 2022, foto di Emanuele Di Paolo.

Tre maschere della Vacca in posa prima di Carnevale. Tricarico (MT), marzo 2022 (ph. Emanuele Di Paolo)

L’intimità culturale del Carnevale 

A Tricarico, il giorno di sant’Antonio abate, il 17 gennaio del 2022 assistito per la prima volta all’uscita delle Mashkr (maschere). Prima dell’alba, un ridotto gruppo di uomini, vestiti per rappresentare una mandria di vacche con alcuni tori, si aggira nel paese agitando dei campanacci. La maschera della vacca si compone di calzamaglia e maglione bianchi di lana, foulard piegati a triangolo legati in vita, alle ginocchia e ai gomiti e anfibi militari. Quella del toro è analoga, ma di colore nero e alcuni foulard rossi. L’abbigliamento rituale è completato da un cappello a falda rigida, dal quale fuoriescono lunghi nastri; multicolore per la vacca e neri per il toro. Un velo ricamato all’uncinetto è fissato nella parte anteriore del cappello. Serve a coprire il volto, sancendo la “trasformazione” da uomo a bestia. L’attuale presidente della Pro Loco, nello spiegare i significati dei nastri e del velo, attinge da un passato di povertà materiale nel quale, ogni dettaglio, dal campanaccio al singolo nastro, assumeva un senso univoco e compreso dagli abitanti del luogo: 

«Aveva un nastro particolare che dopo la quinta elementare, un po’ tutti i cappelli avevano questa particolarità, che al tempo di oggi si è perso, che era il fiocco che si usava a scuola, che era il tricolore. Che veniva aggiunto nei nastri man mano, si metteva al centro del cappello. Ma la particolarità maggiore che aveva è che si vedeva la crescita del bambino. La crescita del bambino si vedeva aggiungendo gli stessi colori del nastro, però siccome non si aveva la possibilità economica di rifarli ogni volta, si aggiungevano 5cm, 10 cm […] ma soprattutto si usavano dei veli di tulle che erano i veli che si usavano negli abiti da sposa. Dopo un periodo si prendevano. E lì c’era questa cosa della faccia, del vedere e non vedere. Poi anche questo negli anni si è trasformato mettendo dei veli più densi, i volti non si vedono praticamente più» [6]. 

Oltre alla fattura della maschera, sono cambiate le modalità e le motivazioni: gli abitanti di Tricarico si mascherano da vacche e da tori in tre occasioni: Sant’Antonio abate, Martedì Grasso e i raduni di maschere organizzati in Europa [7]. A scopo epistemologico, tratterò questi eventi mettendo in luce, in ognuno di essi, l’intreccio di attributi rituali e autorappresentativi. Perciò eviterò di dilungarmi nelle descrizioni del rituale e delle sue fasi [8], focalizzandomi sull’interazione etnografica svolta nel 2022 e sul punto di vista individuale di specifici attori sociali: cittadini impegnati su più fronti in attività collettive, spontanee, che sottendono complessi meccanismi relazionali, di rivitalizzazione e arricchimento non solo economico. L’approccio che ho adottato si pone l’obiettivo di mettere in luce queste connessioni tra rito e vita quotidiana.

Il primo evento dell’anno che vede l’uscita delle maschere, comincia la mattina del 16 gennaio, giorno che precede il Sant’Antonio abate, con la preparazione del fuoco nel cortile antistante la chiesa intitolata al santo, situata su un pianoro appena fuori dal centro, dove i partecipanti si riuniranno in serata. Incontro il giovane sindaco e il presidente della proloco in un bar. Illustro loro la ricerca e la metodologia pensata. Mi dicono che già l’anno prima non si era fatto nulla per la pandemia, ma che alcune maschere usciranno per conto loro in ogni caso. Sono coloro che tengono alla tradizione “interiore” della comunità. Ci rechiamo nel terreno di un uomo che offre dei rami di un suo albero per il fuoco. Li taglia con una motosega, mentre gli altri li spostano sul prato della chiesa con una carriola. Più tardi, accendiamo il grande fuoco che arderà tutta la notte. Quella del fuoco di sant’Antonio era una preparazione che impegnava tutti gli abitanti del paese, che attribuivano ad esso una funzione magica: 

«Il fuoco è importante perché purifica l’anima. Tante volte, oggi è facile dirlo, ma andiamo indietro agli anni settanta… Ognuno di chi scendeva da questo bosco dove siamo noi, lasciava un pezzettino di legna per fare il falò sotto. Che poi l’indomani veniva benedetto dal prete, dal vescovo. Alla fine del giro, andavano a prendere i carboni per benedire la casa. Questa è una cosa molto importante della nostra tradizione. E sant’Antonio abate è una cosa molto importante. Perché queste cose che sono sacro e profano non è che ce l’ha tutta l’Italia. Secondo me, ce l’hanno in pochi paesi e uno di questi pochi paesi, fortunatamente, è Tricarico» [9]. 

Intervisto in quest’occasione alcuni principali attori sociali di Tricarico che con le loro comitive sopraggiungono per riscaldarsi. Tra questi, Franco afferma: 

«è una passione, ce l’hai nel sangue. Perché il giorno diciassette, pur sapendo che c’era il Covid e non si poteva sfilare, ho preso un giorno di ferie. Ho detto: “anche da solo, da solo sfilo”. Perché il bello è proprio la mattina del 17: ti devi svegliare presto, alle cinque ti devi vestire. Quando tutti dormono tu devi girare con questa campana, per il paese, svegliare le persone. Lo senti dentro, lo senti nell’animo. Fa parte di noi e di chi crede e tiene al nostro Carnevale. Ci sono pure persone, la minima parte, che non ci credono e possono pure dormire. Io prendo il giorno di ferie e faccio festa! Oramai da una ventina d’anni non ne ho mai saltato uno» [10]. 

Per Franco, operaio nato e cresciuto in campagna e trasferitosi nel centro storico della cittadina dopo il matrimonio, la motivazione per indossare la maschera e uscire a svegliare il paese con i campanacci, pur non sganciandosi dagli aspetti religiosi che conferiscono solennità all’azione, è alimentata in prevalenza da un desiderio individuale, di impegnarsi e trovare un senso interiore al rituale, cercato nel complesso delle dinamiche comunitarie.

L’indomani, alle 4,30 del mattino, mi reco a casa sua, dove si ritrovano alcuni amici per la vestizione. Si vestono in penombra, zitti. Mi danno il permesso di riprenderli con la videocamera, ma non parlo per non interferire con l’atmosfera solenne che si crea man mano che indossano tutte le componenti della maschera. Riscontro ciò che mi avevano riferito a cena: l’impersonificazione metaforica con il bovino quando si abbassa il velo sul viso, il divieto di comportamenti umani che entrerebbero in contraddizione con la condizione ferina: parlare, sedersi o guardare il cellulare. Fanno colazione con vino e salame e subito dopo, ancora masticando il boccone, calano rapidi il velo sul volto per uscire. Il suono delle campane cresce graduale per le ripide vie della Rabata, dapprima intermittente e leggero, poi continuo e pieno. Il passo si fa sempre più veloce. Il toro avanza da solo continuando ad agitare con violenza il campanaccio. Attraversano le vie principali, dai cui portoni esce qualche abitante che grida un “Grazie!”. Un altro gruppo di maschere sopraggiunge nei pressi della Torre Normanna. Assisto alla seguente comunicazione prossemica tra le due comitive, fatta di avvicinamenti e allontanamenti, posizioni del corpo e brevi suonate di campanaccio. Il gruppo di Franco si arresta, i componenti si allineano uno di fianco all’altro, senza toccarsi. Da fermi iniziano a suonare all’unisono, in direzione dell’altro gruppo. I membri dell’altro gruppo si avvicinano lentamente, su una delle gambe tengono aderenti i campanacci, che suonano a ogni passo della salita. Una volta insieme si mescolano, percorrono in fila l’ultimo tratto con le prime luci dell’alba, fino al piazzale sottostante la Torre Normanna. Mettono in scena, con la luce dei fari, che da terra illumina la torre e proietta le loro gigantesche ombre su di essa, un’assordante esibizione con gli strumenti bovini. Infine alzano il velo sul cappello e, ripresa l’identità umana, prendono il campanaccio dal batacchio per silenziarlo e tornano a casa. Alle 18,00 c’è la messa nella cattedrale di Santa Maria Assunta, dove vacche e tori ricevono la benedizione dal parroco. Alcuni bambini in maschera distribuiscono immaginette di sant’Antonio.

Il totale rispetto dei comportamenti rituali, la serietà, la partecipazione limitata all’uscita per svegliare il paese dovuta alle restrizioni hanno reso il Sant’Antuono 2022 una circostanza intimamente sentita e meditativa per i pochi che vi hanno preso parte, in un contesto mondiale di isolamento e nuove pratiche della solitudine. É stata l’occasione per rimandi al periodo storico che li vedeva ragazzi, alle prolunghe di tessuto che le madri attaccavano ai nastri del cappello man mano che i figli crescevano. L’attraversamento di tutto l’impianto urbanistico, nel quieto buio della notte, con il ritmo ossessivo dei campanacci, ha senz’altro un’influenza sullo stato di coscienza. 

: Le maschere percorrono il corso al rientro dal giro del paese effettuato all'alba del giorno di sant'Antonio abate. Tricarico (MT), gennaio 2022, foto di Emanuele Di Paolo

: Le maschere percorrono il corso al rientro dal giro del paese effettuato all’alba del giorno di sant’Antonio abate. Tricarico (MT), gennaio 2022 (ph. Emanuele Di Paolo)

Le nuove forme della mascherata della Vacca e del Toro: la sfilata di Martedì Grasso e i raduni di maschere in Europa 

Di un’atmosfera differente è il secondo evento dell’anno che vede l’uscita delle maschere a Tricarico, il Martedì Grasso. Una massa composta da centinaia di vacche e tori, proveniente da tutta Italia, sfila su viale Regina Margherita, il corso cittadino. I fotografi entrano ed escono dallo sciame di nastri colorati per catturare i momenti di massimo fervore, che si esprime in salti, corse e grida. Qualche figura istituzionale venuta da Potenza si fa fotografare con le bianche sagome zoomorfe intorno. Non esiste una coincidenza delle maschere con interi nuclei famigliari. Spesso anche la prole degli irriducibili non si maschera e alcuni non hanno interesse nemmeno a partecipare da spettatori. I pastori transumanti che ho conosciuto non partecipano al Carnevale, sebbene avvenga una performance che li vede protagonisti: le figure dei padroni, il conte e la contessa discutono con il mandriano. Questi, dopo aver risposto a domande sul numero di capi e sulla loro salute, giura fedeltà ai padroni, sancendo il termine del periodo di inversione sociale iniziato il giorno di Sant’Antonio abate. Gli eccessi si interrompono, si apre la Quaresima. Questa scena passa in secondo piano in un giorno in cui c’è poca attenzione alle prescrizioni rituali, alla trasformazione in animale ruminante quando il velo è giù. La presenza di appassionati e personalità dello spettacolo drena le energie sull’organizzazione in grande dell’evento: le bancarelle, l’immagine di comunità che si proietta all’esterno di Tricarico, la soddisfazione di vedere grandi folle di turisti, fotografi, musicisti famosi e TV. La partecipazione è aperta a chiunque abbia un vestito da vacca o da toro, non importa se si discosta un po’ dall’originale.

La terza occasione di mascherarsi è rappresentata dai raduni. Essere maschere di Tricarico dà modo di viaggiare e conoscere altre città d’Europa. Il gruppo della Proloco è stato a Venezia, Acireale, Sardegna, Ungheria, Grecia. Viaggi sempre attesi con esaltazione, spirito di scoperta e confronto tra culture, ritenuti merito dell’importanza del loro Carnevale. Al di là della sfilata, con logiche evidentemente diverse da quelle del rituale di Sant’Antonio e anche del Martedì Grasso, nei raduni si attuano comportamenti da evitare in famiglia. Una goliardia che si esprime insieme agli amici di altre regioni e nazioni, accomunati dall’essere maschere. Il viaggiare tra amici e dormire in albergo, per un gruppo che non ha mai praticato il turismo e difficilmente sta più giorni lontano da casa, è una pratica che va annoverata nell’analisi del rapporto di una comunità con le forme di socializzazione generate dal “possedere” un bene dichiarato patrimonio culturale. 

I raduni di maschere, che avvengono in ogni periodo dell’anno, in molte aree interne d’Europa, costituiscono un fatto sociale totale in grado di influenzare un gran numero di azioni economiche, di comportamenti relazionali ed emozionali degli individui. Nei raduni si sfila con altre maschere, ci sono dei palchi dove a turno queste si esibiscono in una rappresentazione adattata di ciò che fanno nei loro paesi. É l’elemento estetico a dominare, il linguaggio è quello museale, dell’arte dello spettacolo (Testa 2024). Al Carnevale di Acireale (CT) mi sono vestito da vacca e ho sfilato insieme alle mashkr. Ho condiviso con loro l’esperienza di essere osservato con stupore, di ricevere complimenti per la bellezza di ciò che indossavo. Così una mascherata invernale legata alla transumanza nel Mezzogiorno, dispositivo simbolico interno a una comunità appenninica, evolve e fa da motore a scambi culturali su lunghe distanze geografiche, definizione identitaria, benessere sociale, profitto economico. Contadini e pastori, tolto il velo, dopo i giorni di sovversione tornavano alle zappe e rimettevano i campanacci alle bestie. Le maschere di oggi riportano il campanaccio a casa, lo espongono nei musei. Nei raduni il velo si toglie dopo qualche ora, nella restante parte della giornata i tricaricesi sono normali turisti. Torneranno a essere operai, commercianti, professionisti assorbiti dalla loro vita quotidiana. 

Conclusioni 

Il caso studio riportato dimostra le maniere in cui la patrimonializzazione del Carnevale di Tricarico abbia creato una comunità estesa, partecipe delle pratiche che intorno ad essa sono sorte. Da sempre valvola di sfogo delle tensioni tra braccianti e padroni, oggi permette ad alcuni membri della classe operaia di avere voce in capitolo e confrontarsi con la legislazione sui beni culturali. Una “occasione patrimoniale” che ha favorito, da una parte, rapporti di scambio tra amministratori locali e cittadinanza detentrice del sapere intorno al bene culturale e, dall’altra, uno sguardo critico, dal basso, alle trasformazioni che la patrimonializzazione ha comportato. La consapevolezza che una loro pratica devozionale sia diventata bene di consumo, con una popolazione disposta a investire risorse per consumarla (Accardi 2021) fa tenere alta l’attenzione sul modo di essere (ri)prodotti su canali multimediali di massa, con un linguaggio diverso dal loro e fondato sull’omogeneità di formule iconografiche dell’internet. Ciò ha portato le donne e gli uomini che indossano le maschere a includere concetti di purezza nei loro discorsi. Non si rifiutano le opportunità economiche e di viaggiare, ma si trasmette alle nuove generazioni l’importanza di ponderare bene tra potenzialità di crescita e sterilizzazione del rituale dai suoi significati profondi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
[*] Questo contributo trae spunto dall’intervento da me presentato alla tavola rotonda Associazionismo, Comunità Patrimoniali e Patrimoni Culturali Immateriali. Il Ruolo dell’Antropologia tra Comunità Locali e Governance, nel quadro del Festival di Antropologia e Storia delle Religioni “Nella Terra di Diana” (Roma, 5 settembre 2024; Genzano di Roma, 6-8 settembre 2024). 
Note
[1] Si tratta di un canto di dolore e ribellione scritto da contadini di Tricarico al quale, secondo le fonti di De Martino, pare abbia contribuito anche Rocco Scotellaro con alcuni versi.
[2] ‘A Pit e la Rocca a Viggianello (PZ) e a Rotonda (PZ), Il Maggio ad Accettura (MT), La Sagra du Masc’ a Castelmezzano (PZ), ‘U Masc’ a Pietrapertosa (PZ), Il Maggio Olivetese a Oliveto Lucano (MT), La ‘Ndenna e la Cunocchia a Castelsaraceno (PZ) e ‘A Pit a Terranova del Pollino (PZ).
[3] Dal 2012 svolgo ricerca etnografica nei comuni montani abruzzesi. Dalla tesi sulla situazione attuale dei pastori dei Monti della Laga, con relatore il Prof. Antonello Ricci, alla partecipazione alle indagini sul campo per i progetti Rete Tramontana e GranSassoLagaICH, ho affrontato i seguenti temi: il rapporto uomo-animale, l’ergologia, le relazioni tra pastori, istituzioni e figure che lavorano al progresso economico delle aree interne o alla traduzione in patrimonio culturale delle loro pratiche viventi, socio-produttive, festive e rituali.
[4] Itinerari digitali | Homepage (cultura.gov.it)
[5] Dati utili per la compilazione di schede BDI e BDM per il Catalogo Generale dei Beni Culturali sulle quali costruire gli itinerari del progetto Itinerari Digitali.
[6] Intervista a Francesco Santangelo raccolta dall’autore in data 01/05/2022.
[7] È da sottolineare che il raduno che si svolge ogni anno a Tricarico prende il nome di Raduno delle Maschere Antropologiche, aggettivo che svela l’interpretazione libera di una terminologia di derivazione esterna, ma che è penetrata nei processi identitari. Si rileva che la minuziosa descrizione della mascherata scritta da Spera (2016) negli anni ’80 è diventata, negli anni successivi, un canovaccio di comportamenti e prescrizioni da seguire nella rappresentazione della mandria in transumanza (Mirizzi 2016).
[8] Alla abbondante descrizione di Spera (Spera 2016) si aggiunge la produzione audio-visuale amatoriale e professionale degli ultimi anni, tra cui il cortometraggio che ho prodotto per l’ICCD, Il suono purificatore, 9’20”, 2022.
[9] Intervista a Francesco Santangelo raccolta dall’autore in data 01/05/2022.
[10] Intervista a Franco Curci raccolta dall’autore in data 28/01/2022. 
Riferimenti bibliografici 
Accardi D., 2021, Tra cultura egemonica e subalterna: le edicole sacre a Napoli, “Dialoghi Mediterranei”, n. 52, novembre. 
Appadurai, A., 1998, Modernity at Large. Cultural Dimension of Globalization, Minneapolis-London, University of Minnesota Press; trad. it. 2001, Modernità in polvere, Roma, Meltemi. 
De Martino E., 2002, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Torino, Bollati Boringhieri. 
De Martino E., Note lucane. Società, VI (1950), n. 4: 650-667, poi in: Furore Simbolo Valore, Milano, Feltrinelli, 2002: 119-133 (1. ed.: Milano, Il Saggiatore, 1962). 
Fabre D., 2023, L’iniziazione invisibile, Milano, Hoepli. 
Herzfeld, M., 1997, Cultural Intimacy. Social Poetics in the Nation-State, New York-London, Routledge. 
Herzfeld, M., 2004, The Body Impolitic. Artisan and Artifice in the Global Hierarchy of Value, Chicago, The University of Chicago Press. 
J. Lave & E. Wenger, 1991, Situated Learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge, Cambridge University Press. 
Mirizzi F., I Carnevali contemporanei e il rapporto con la tradizione, in Alessandra Broccoli e Katia Ballacchino (a cura di), Archivio di Etnografia. Carnevali del XXI secolo, n. 1-2 nuova serie anno XI, 2016. 
Padiglione V., 2006, Poetiche dal museo etnografico. Spezie morali e kit di sopravvivenza, Imola, La Mandragora. 
Palumbo B., 2006, Il vento del Sud-Est. Regionalismo, neosicilianismo e politiche del patrimonio nella Sicilia di inizio millennio, in Annuario di Antropologia n.7, Il patrimonio culturale. 
Scotellaro R., 1954, Contadini del sud, Bari, Laterza. 
Spera V., 2016, La mascherata delle vacche e dei tori a Tricarico, in Vincenzo Spera e Gianfranco Spitilli (a cura di), Sacer bos I. Usi cerimoniali di bovini in Italia e nelle aree romanze occidentali, Cluj-Napoca, Risoprint: 218-219. 
Testa A., 2024, Ritualising Cultural Heritage and Re-enchanting Rituals in Europe, Durham NC, Carolina Academic Press.

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Emanuele Di Paolo, diplomando presso la Scuola di specializzazione in beni DEA della Sapienza di Roma, dove si è laureato con una tesi sulla condizione attuale della pastorizia in Abruzzo, svolge ricerche etnografiche in Italia centrale su cultura materiale, rapporto uomo-animale e pratiche di autorappresentazione. Ha lavorato in Basilicata nell’ambito del progetto Itinerari Digitali (ICCD) producendo documentazione audiovisuale confluita in film etnografici, rassegne ed esposizioni museali.

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