Il caso del ragazzo selvaggio dell’Aveyron riguarda un bambino di circa dodici anni ritrovato in Francia nel 1798 nei boschi, dopo essere vissuto molti anni in isolamento, nello stato più selvaggio e per questa ragione del tutto incapace di comunicare e relazionarsi a qualsiasi livello con i suoi simili. Questo ritrovamento suscitò il più vivo interesse tra i soci della Societé des observateurs de l’homme della quale facevano parte filosofi e i naturalisti come Degerando, Sicard, Pinel. Contemporaneamente si sviluppò un acceso dibattito sulla Décade Philosophique – organo della cultura degli Idéologues – perché il ragazzo selvaggio era ai loro occhi un caso ideale per studiare le basi della natura umana, per stabilire che cosa caratterizza l’uomo e quale ruolo gioca la società nello sviluppo del linguaggio, dell’intelligenza e della morale. L’interesse per il ragazzo selvaggio testimonia anche la tendenza, che si era ormai radicata nella cultura tardoilluminista, a dedicare una particolare attenzione per l’infanzia dell’uomo e per il suo processo di crescita, che veniva opportunamente problematizzato.
Agli osservatori apparve subito evidente che l’ostacolo più grande per il recupero alla vita civile e per l’educazione del giovane era legato alla sua incapacità di comunicare, che, oltretutto, si era pensato in un primo momento fosse dovuta ad un deficit uditivo. Per questa ragione si decise di inserirlo nell’Institut pour les sourds et muets, fondato a Parigi dall’abate de l’Epée, e diretto in quel periodo da Roche Ambrosie Sicard.
Nell’istituto operava anche il giovane medico Jean-Marc-Gaspard Itard (1774-1838), che sarebbe diventato in seguito anche un importante specialista di malattie auricolari; a lui, che aveva dimostrato grande interesse per il suo caso, venne affidata la rieducazione del ragazzo. Itard riteneva che il giovane fosse costituzionalmente sano e che la sua grave forma di mutismo e il ritardo nello sviluppo psichico non fossero il sintomo di una patologia, ma solo il risultato del totale isolamento in cui era vissuto negli anni decisivi dell’apprendimento del linguaggio. Questa condizione faceva sì che il suo recupero potesse essere realizzato. Inoltre egli si rese conto che il bambino non era affatto sordo: se infatti risultava indifferente ai suoni della lingua, dimostrava però attenzione ad altri tipi di suoni, come il rumore prodotto dallo schiacciamento di una noce o dalla caduta di una pigna, suoni che egli riconosceva in quanto parte della sua esperienza. Una volta esposto ai suoni linguistici, il ragazzo iniziò, gradualmente ad essere sensibile anche ad essi e fu proprio grazie alla sua particolare sensibilità verso il suono della lettera /o/– per cui ogni volta che udiva l’espressione “oh” si girava immediatamente – che Itard decise di assegnargli il nome diVictor.
In due fondamentali Mémoires, Itard (1801; 1807) illustrò nei dettagli il programma di lavoro messo in opera per la rieducazione comunicativa di Victor e che prevedeva di conseguire cinque obiettivi: 1) interessare Victor alla vita sociale; 2) risvegliare la sua sensibilità nervosa; 3) estendere la sfera delle sue idee; 4) insegnargli a parlare attraverso l’imitazione; 5) far esercitare le sue facoltà intellettuali, come l’attenzione, la memoria, il giudizio e tutte le facoltà sensoriali per farle applicare a soggetti utili all’istruzione di Victor.
Victor non era un bambino nel senso proprio del termine, perché aveva un corpo del tutto adulto e sviluppato, ma l’assenza di una educazione aveva prodotto in lui non solo abitudini e modi da animale, bensì anche sensi e fisiologia molto diversi da quegli umani. Per questi motivi la sua rieducazione iniziò proprio dall’esercizio elementare dei sensi: imparare ad avvertire le differenti qualità sensibili, a riconoscere i rumori, a distinguere le forme e i sapori. Attraverso questo nuovo esercizio delle sue facoltà sensoriali, e mediante l’esposizione a stimoli visivi, motori e comportamentali, Itard si proponeva, in seconda istanza, di riempire di idee e cognizioni la mente di Victor e avviarlo gradualmente all’uso dei segni istituzionali, in modo da far emergere in lui quei tratti dell’uomo civile che lo stato di natura, in cui aveva vissuto fino ad allora, gli aveva impedito di sviluppare.
Nonostante i risultati positivi conseguiti, tuttavia l’esperimento non riuscì come si prevedeva, in quanto Victor non avrebbe mai imparato a parlare e non sarebbe arrivato ad usare in modo libero e a padroneggiare appieno i segni istituzionali dellalingua. Victor riuscì a pronunciare un solo suono articolato: la parola latte (lait); tuttavia il bambino ricorreva a tale espressione solo nel momento in cui aveva presente davanti a lui l’alimento, utilizzandola quindi solo come un’esclamazione, un segno naturale, cioè, del suo statod’animo, e non come il segno che denota quell’oggetto. Lo stesso Itard, infatti, era consapevole della mancata riuscita di questo esperimento quando scriveva:
«Fu nel momento in cui, disperando di riuscire, avevo appena versato il latte nella tazza ch’egli mi presentava, che la parola latte gli sfuggì con grandi manifestazioni di piacere; e fu soltanto quando gliene ebbi versato ancora a mo’ di ricompensa che pronunciò la parola per la seconda volta. È chiaro il motivo per cui il modo seguito per ottenere questo risultato era lungi dal realizzare i miei progetti: la parola pronunciata, in luogo d’essere il segno del bisogno, non era, relativamente al momento in cui era stata articolata, che una vana esclamazione di gioia. Se questa parola fosse uscita dalla sua bocca prima della concessione della cosa desiderata, il traguardo sarebbe stato raggiunto» (Itard 1801: 82).
A partire dalla parola lait Victor riuscì a pronunciare altri due monosillabi, la e li, ai quali in seguito aggiunse una seconda lsì da pronunciarli come il suono gli della lingua italiana; erano suoni che non avevano significato per lui, anche se Itard supponeva che queste espressioni potessero essere riferibili al nome Julie, la figlia della signora Guérin (assegnata a Victor come nutrice) che veniva a trovarla ogni domenica. L’apprendistato linguistico di Victor non andò molto oltre questi modesti risultati, considerando che l’unica altra espressione da lui pronunciata sono le due sillabe Oh Dieu!, utilizzata da Victor nei momenti di gioia e ripresa per imitazione di un comportamento linguistico abituale della signora Guérin. Le ragioni del fallimento risiedono nel fatto che era sbagliata la premessa teorica su cui si fondava il progetto rieducativo di Itard, cioè il fatto che la natura umana, di cui il linguaggio è evidentemente parte essenziale, sia geneticamente attivata in ogni individuo al momento della nascita e che possa essere risvegliata in ogni momento. Il caso di Victor dimostra che l’ambito di tutto quello che nell’uomo è puramente naturale è molto ristretto e non comprende le facoltà come il pensiero e il linguaggio, le quali, dunque, non sono abilità originarie dell’uomo, non fanno parte della sua costituzione naturale, essendo il frutto delle abitudini acquisite nel corso della sua educazione.
Solo in un momento molto più vicino a noi, ad esempio con Piaget, si è cominciato a pensare che la natura umana non fosse un punto d’inizio, ma un risultato finale che scaturisce da un complesso processo di sviluppo, il quale prosegue oltre la nascita per tutto il lungo periodo della crescita, nell’interazione comunicativa con gli altri, processo che, nel caso di Victor, è mancato interamente. La realtà così difficile di Victor dimostra che non esiste una natura umana che prescinde dalla cultura, perché la nostra mente non riesce ad organizzare l’esperienza e a governare il comportamento senza la guida offerta dai sistemi simbolici significanti, il cui apprendimento dipende dall’essere inseriti in un contesto sociale e culturale.
Se l’apprendimento del linguaggio verbale risultava impossibile per Victor, tuttavia il bambino riusciva a comunicare e a interagire con Itard e la sua governante utilizzando il linguaggio gestuale che nei due testi del medico francese viene definito “pantomimico”. Infatti Itard pensò di perfezionare e sfruttare al meglio proprio le capacità del bambino di esprimersi attraverso i gesti e di stimolare la sua attività di comprensione delle espressioni facenti parte di questo stesso linguaggio, che però venissero prodotte da altri:
«Se vuole chiedere del latte, lo fa porgendo una scodella di legno che non dimentica mai, uscendo, di mettersi in tasca, e di cui si munì la prima volta l’indomani di un giorno in cui aveva rotto, nella stessa casa e per lo stesso uso, una tazza di porcellana» (ivi: 1801: 84).
Nei testi di Itard sono riportati altri esempi analoghi di uso dei segni accidentali, esprimendo attraverso azioni gli affetti del suo animo: quando si stancava della lunghezza delle visite degli ospiti della casa di Itard, li congedava «presentando a ciascuno di loro, con più franchezza che gentilezza, la loro canna, i guanti e il cappello, e spingendoli dolcemente verso la porta che poi si chiude[va] impetuosamente dietro di loro» (ivi:85).
Ugualmente interessanti gli esempi che riguardano la capacità di comprensione dei segni accidentali da parte del ragazzo: nel primo caso la nutrice, madame Guerin, mostra a Victor la brocca per mandarlo a prendere dell’acqua, la rovescia per fargli vedere che è vuota e Victor capisce che cosa gli chiede di fare. Il secondo caso invece è stato escogitato daItard per verificare le capacità di comprensione dei segni e di ragionamento di Victor:
«Scelsi, fra molti altri, un oggetto rispetto al quale mi accertai in anticipo che non esisteva fra lui e la sua governante alcun segno indicatore. Poteva essere, per esempio, il pettine usato per pettinarlo e che volli farmi portare. Sarei stato davvero deluso se, arruffandomi i capelli in tutti i modi e mostrandogli poi la mia testa in disordine, non fossi stato compreso. E lo fui in effetti, ed ebbi presto tra le mani ciò che domandavo» (ivi: 86).
Non a caso agli esercizi didattici, all’intera esperienza pedagogica di Itard e agli effetti che essa provocava sui bisogni e sulle potenzialità dell’allievo è dato grande rilievo anche nel film L’enfant sauvage (1969) che François Truffaut ricavò dalle due memorie di Itard e che lo vede anche come protagonista nei panni del medico ed educatore. Truffaut nella messa in scena del film è attratto dal rapporto umano che si istaura nel tempo tra maestro e allievo, probabilmente in questo influenzato anche dal film di Arthur Penn, The Miracle Worker (1962). La sceneggiatura, che lo stesso Truffaut ha scritto insieme a Jean Gruault, si sofferma in particolare sul processo di rieducazione di Victor, esponendo con nitida precisione gli esercizi e i giochi didattici escogitati da Itard. Al fine di rendere più efficace la rappresentazione cinematografica Truffaut ha trasformato i rapporti scientifici di Itard nel diario di un maestro, in una cronaca del suo insegnamento che ne registra i successi, ma anche i momenti di ripensamento e di delusione; una cronaca che interviene nel film per mezzo di una voce fuori campo che legge i brani del diario di Itard nell’intento di farne risaltare il valore epistemologico.
Per stimolare le capacità di osservazione del bambino Itard elaborò una serie di esercizi didattici che riguardavano il riconoscimento degli oggetti e che erano finalizzati ad estendere la sfera delle idee nella mente di Victor e a generare in lui nuovi bisogni. Al bambino venivano presentate via via rappresentazioni degli oggetti, prima solo in forma grafica e iconica, poi anche, almeno in alcuni casi, in veste simbolica e astratta, secondo una linea di sviluppo dei processi cognitivi che poi, nel Novecento, Piaget individuerà come la fase costituente di ogni processo di apprendimento. Questo fondamentale passaggio dal concreto all’astratto è ben messo in evidenza in quegli esercizi in cui Itard proponeva a Victor i disegni di alcuni oggetti, ad esempio chiavi, forbici, martello, ecc. in un secondo momento il medico lo induceva ad associare le rappresentazioni iconiche con quegli stessi oggetti presenti nella stanza. Victor eseguiva l’esercizio senza sforzo.
Tuttavia Itard voleva verificare che effettivamente i disegni funzionassero come coordinate per una ricollocazione esatta degli oggetti e, in successive repliche dell’esercizio, variava la posizione dei disegni. Il risultato fu che Victor continuò a collocare gli oggetti nell’ordine in cui li aveva messi la prima volta, lasciandosi così guidare dalla sua recuperata capacità rammemorativa, senza però effettuare il confronto tra il segno e il referente. Per questa ragione Itard pensò di moltiplicare il numero dei disegni e di variare le loro posizioni al fine di rendere tendenzialmente inoperante questa nuova capacità del ragazzo selvaggio. Un risultato soddisfacente fu conseguito da Itard proprio con questo secondo espediente:
«Quale progresso ero riuscito a compiere! Non ne dubitai punto quando vidi il nostro giovane Victor rivolgere i suoi sguardi, e successivamente, su ciascuno degli oggetti, sceglierne uno, e cercare poi la figura alla quale voleva riferirlo; e ne ebbi presto la prova materiale, mediante l’esperimento dell’inversione delle figure, che fu seguita da parte sua dall’inversione metodica degli oggetti» (ivi: 89-90).
Per indurre Victor a familiarizzarsi con i segni della lingua, Itard sostituì in seguito le figure con le parole che designano gli oggetti. In questo secondo caso Victor però aveva molte difficoltà a collegare gli oggetti con le rappresentazioni alfabetiche dei loro nomi; Itard si rese conto che, ad esempio, la parola latte, «per quanto non sia per noi altro che un segno semplice, essa poteva apparire a Victor l’espressione confusa di quel liquido alimentare, del vaso che lo conteneva e del desiderio di cui era l’oggetto» (ivi: 119). Era quindi necessario intensificare gli esercizi in maniera da indurre Victor a collegare in maniera più precisa il segno linguistico con il suo referente, in modo da stabilire una sorta di identità tra questi due elementi e fissarli simultaneamente nella memoria. I risultati di questi esercizi furono positivi: un giorno Victor si recò, come di consueto, insieme al suo insegnante a far visita ai vicini di casa e qui, per chiedere alla sua ospite del latte, dispose sulla tavola le lettere che compongono la parola lait; fino a quel momento, invece, per esprimere questa richiesta, si era sempre limitato ad indicare il luogo dove veniva conservato l’alimento, o a mostrare la ciotola usata per berlo. Victor riusciva così a comunicare il suo bisogno utilizzando un segno istituzionale: la ricerca di Itard dimostrava così che, almeno in alcuni circostanziati casi, il sistema espressivo del bambino poteva superare lo stadio del langage d’action in cui fino a quel momento era stato imprigionato.
Giunti a questa fase della rieducazione Itard si trovò ad affrontare un’ulteriore difficoltà, che consisteva nel fatto che Victor era portato a collegare ogni segno linguistico con una e una sola cosa collocata in un posto preciso. Ad esempio, la parola libro, designava ai suoi occhi sempre un particolare libro, oggetto della sua esperienza diretta e mai un membro qualunque della classe degli oggetti indicata da quel segno linguistico. In altre parole, Victor non riusciva a comprendere la funzione simbolico-astrattiva che presenta il segno linguistico: ogni parola risultava essere per lui un “nome proprio” e non un termine generale che designa una molteplicità di referenti. Il processo astrattivo, essenziale per la costituzione dei segni istituzionali e condizione dell’intersoggettività e dunque del linguaggio stesso, risultava molto difficile da comprendere e padroneggiare per Victor. È interessante, a questo proposito, leggere il commento di Itard:
«Così ogni libro diverso da quello che aveva nella sua stanza per Victor non era un libro. Affinché potesse decidersi a dargli lo stesso nome, occorreva che una somiglianza perfetta stabilisse tra l’uno e l’altro un’identità ben visibile. Nell’applicazione delle parole Victor appariva ben diverso dai bambini i quali, cominciando a parlare, danno ai nomi individuali il valore dei nomi generici nel senso ristretto dei nomi individuali» (ivi: 125).
Entra qui in gioco uno dei temi tuttora centrali della filosofia del linguaggio e anche della semiotica, quello della categorizzazione, cioè quel processo in base al quale le classi di oggetti, denotati dal nome, risultano essere costituite da individui che sono diversi da vari punti di vista, ma che, allo stesso tempo, presentano alcune proprietà comuni che permettono di raccogliere tutti questi diversi individui sotto la medesima denotazione. Victor aveva talmente esercitato l’osservazione visiva che «fra due corpi identici occhi tanto esercitati quanto i suoi trovavano sempre qualche dissimiglianza che faceva credere nell’esistenza di una differenza essenziale» (ivi:125-126). Si trattava allora di far rilevare a Victor le analogie tra gli oggetti per indurlo a capire il funzionamento dei processi di categorizzazione; tuttavia, a conferma di quanto questi processi fossero complessi e necessitassero di un lungo e costante apprendistato, anche in questo caso Victor ritrovava molte difficoltà nel costruire le classi di oggetti denotati da un nome:
«se non avessi represso questo abuso negli accostamenti, avrei visto Victor limitarsi all’uso di un piccolo numero di segni, che avrebbe applicato senza distinzione ad una massa di oggetti completamente diversi uno dall’altro e che hanno in comune fra loro alcune delle qualità o delle proprietà generali dei corpi» (ivi: 126).
Sono infine degni di nota gli altri esercizi didattici che Itard usò con l’intento di far comprendere a Victor la dimensione sintattica dei segni, ad esempio collegando il soggetto con vari possibili predicati, stimolando la sua capacità di giudizio nel discernere quali collegamenti sono ammissibili dal punto di vista logico e quali invece sono da escludersi:
«Un giorno, per esempio, in seguito ai mutamenti successivi dell’uso dei verbi mi trovai dinanzi a strane associazioni di parole come strappare pietra, tagliare tazza, mangiare scopa. Ma egli si trasse assai bene dall’impaccio mutando le due azioni indicate dai due primi verbi in due altre meno incompatibili con la natura della loro funzione. Prese di conseguenza un martello per rompere la pietra, e lasciò cadere la tazza per romperla. Arrivato al terzo verbo, e non potendo trovargli alcun sostituto, ne cercò uno all’oggetto, prese un pezzo di pane e lo mangiò» (ivi: 132).
Come si evince da questi esempi i risultati raggiunti da Victor nell’ambito della sua rieducazione cognitiva sono comunque apprezzabili e, in generale, i suoi progressi diventano davvero considerevoli se si confrontano non con i mezzi espressivi di un adolescente della stessa età (rispetto al quale la distanza resta enorme), ma con la situazione in cui egli si presentava al momento del suo ritrovamento. In riferimento ai rapporti che Victor intratteneva con le persone che lo circondano, Itard scriveva che Victor era in grado «di esprimere loro i suoi bisogni, di riceverne degli ordini e di avere con esse un libero e continuo scambio di idee» (ivi: 151). Questa affermazione appare troppo ottimistica, se consideriamo che il ragazzo non riuscì a esprimersi attraverso i segni linguistici e ad inserirsi appieno nella società, ma è pur vero che Victor aveva dimostrato di poter seguire dei veri e propri ragionamenti, anche di una certa complessità, e non riducibili al meccanismo stimolo-risposta. In questo senso il lungo e complesso programma rieducativo di Itard non è stato vano ed ha lasciato una traccia indelebile nella storia della pedagogia e nel dibattito sull’influenza dei fattori sociali e antropologici nella formazione dell’essere umano.
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
[*] Testo della relazione presentata al Convegno Internazionale “Existence as fieldwork” – Università di Palermo, 6-7 dicembre 2017.
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Alessandro Prato, docente di Retorica e linguaggi persuasivi all’Università di Siena, è redattore della rivista Blityri. Studi di storia delle idee sui segni e sulle lingue ed è membro del consiglio direttivo di Symbolon.- Rivista del centro interuniversitario di studi sul simbolo. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: “La teoría lockiana del lenguaje”, in De Signis, 25, 2017; La retorica. Forme e finalità del discorso persuasivo, Pisa, Edizioni ETS, 2012; Linguaggio e filosofia nell’età dei lumi. Da Locke agli idéologues, Bologna, I libri di Emil, 2012.
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