Da Eliade a Propp, per citarne solo due fra i più noti, antropologi e storici delle religioni hanno ampiamente dimostrato come i miti e le fiabe che ne derivano sono, in ultima analisi, sistemi di rifondazione del tempo e dello spazio. Espressioni di una cosmogonia che si rinnova periodicamente attraverso l’irruzione del caos e del sovvertimento nell’orizzonte esistenziale dei viventi. Si tratta infatti di racconti in cui i protagonisti sono spesso esseri ultraterreni, presenze demoniache o spiriti dei morti che dal sottosuolo tornano sulla terra, ma anche divinità del cielo e fate benefiche che garantiscono alla fine il buon esito della vicenda. Attraverso questi linguaggi narrativi avviene, com’è noto, una continua mescolanza, o meglio, un incontro scontro fra cielo e terra, bene e male, vita e morte: una coincidentia oppositorum dai poteri risolutivi per la continuità della vita in generale.
In particolare la fiaba di tradizione orale, diffusa e tramandata presso il popolo, diviene un meccanismo di compensazione delle contraddizioni e dei conflitti esistenziali di un gruppo sociale oppresso dalla miseria (Milillo 1977). Si instaura così, a livello simbolico, un’inversione dell’ordine esistente che ribalta il sistema sociale e le gerarchie e fa sì che i poveri diventino ricchi e viceversa, come avviene nel Paese di Cuccagna (Cocchiara 1980). Le fiabe – diceva Calvino – sono “fiabe consolanti”, offrono per definizione una speranza di riscatto dalla povertà, dall’abuso e dalla subalternità (1988). Sono testimonianze – aggiunge Marina Warner – «di un territorio immaginario, un magico altrove di possibilità; un eroe o un’eroina, e talvolta insieme, affrontano prove, paure e sventure in un mondo che, pur mostrando qualche affinità con la più ordinaria esistenza umana, se ne discosta nel suo stesso funzionamento, che trasferisce i protagonisti in un luogo dove le meraviglie sono consuete e i desideri realizzati…Il luogo immaginario e il tempo immaginario, frutti della magia e delle meraviglie prodotte da esseri che hanno il potere di incantare, sono essenziali per questo atto di proiezione simbolica» (2021: XVII-XVIII). Il lieto fine è in qualche modo assicurato.
Non deve stupire pertanto che in questo quadro di riferimento il cibo e la magia giocano un ruolo determinante e complementare: entrambi condividono infatti il potere metamorfico di rendersi continuamente altro da sé, mutando il corso degli eventi e tutto ciò che li circonda. Il cibo crudo – allo stato di natura come i prodotti della terra o il latte e derivati, ma anche cotto e stracotto per le carni (anche umane!) e la selvaggina – ha dunque un potenziale magico e la magia, per potere esercitare i suoi incantesimi, necessita di zuppe e calderoni, cavoli e altri ortaggi.
D’altra parte non potrebbe essere diversamente se si pensa che il cibo è la prima risposta al bisogno della sopravvivenza e la sua presenza o assenza è spesso demandata, come vedremo, a forze irrazionali. Sul piano fantastico e metastorico, la fame atavica e secolare del mondo contadino si tramuta per incanto in crapula, la penuria in opulenza, la frugalità in gozzoviglia. Si attua così un appagamento simbolico ai bisogni del ventre (Cusatelli 1994), in un continuo migrare fra alto, basso e materiale corporeo, secondo quanto afferma Bachtin (1979).
Su queste tematiche si sviluppa il Mangiafiabe. Le più belle fiabe italiane di cibi e di magia, edite da Donzelli e scelte, tradotte e curate in una ricca introduzione da Bianca Lazzaro, con illustrazioni di Lucia Scuderi. Più di un centinaio di fiabe che attinge alla nostra migliore tradizione sia popolare-orale sia colta: attraverso i corpus originari del Cinque-Seicento, ma soprattutto ai repertori di metà Ottocento e primo Novecento, tanto dei grandi raccoglitori – da Pitrè a Nerucci, da Imbriani a D’Ancona, da Corazzini a Comparetti – che degli autori classici della fiaba italiana come Luigi Capuana e Emma Perodi.
Sul vecchio motto del “cammina cammina”, si scorre dunque lungo tutto lo stivale, dal Piemonte alla Sicilia e alla Sardegna, evidenziando accenti e coloriture che qui vengono ora rispolverati accentuando le diversità anziché uniformandole, ma soprattutto badando a far risaltare i gusti e le diverse usanze a tavola. L’intento della curatrice nell’opera di trascrizione è duplice: ridare aria ai modi dialettali di ciascuna regione rimasti in ombra per un’eccessiva forzatura della lingua italiana e di conseguenza rianimare le trame attraverso l’oralità. Un’oralità che emerge da queste fiabe attraverso l’intercalare del narratore, le ripetizioni, le sgrammaticature e il discorso diretto dei personaggi.
L’oralità – va detto – è anche parente prossima dell’improvvisazione e come tale regna sovrana sia nell’affabulazione che nella cucina. Dove la cuoca come la narratrice aggiunge di volta in volta qualcosa in più nella versione precedente, un pizzico di fantasia personale, che le rende entrambe simili, ma sempre diverse. Come peraltro sostiene Tolkien in un bel saggio sulla cucina del 1939: «Se parliamo della storia delle storie e in particolare delle fiabe, possiamo dire che il Pentolone della Minestra, il Calderone delle Storie, è sul fuoco a bollire da sempre e via via sono stati aggiunti nuovi ingredienti, prelibati e non […] e visto che si parla di un Calderone, non bisogna dimenticare del tutto i Cuochi. Nel Calderone ci possono essere tante cose, ma i Cuochi non ci tuffano dentro il mestolo alla cieca». E richiamando questa metafora Angela Carter aggiunge: «Chi è stato il primo a inventare le polpette? In quale paese? Esiste una ricetta definitiva della zuppa di patate? Mettiamola in termini di arti domestiche. Questo è il mio modo di fare la zuppa di patate» (2020). La letteratura – avverte Holub – è sempre un corpo risuscitato, o continuamente risuscitato. La sua sopravvivenza dipende dalle sue trasformazioni (2007).
«La scelta – annuncia la curatrice in apertura – è allora quella di sparigliare le carte, di non raggruppare per generi o contiguità territoriali, bensì di accompagnare i lettori lungo sentieri inaspettati, laddove la sorpresa può nascere proprio dall’accostamento delle storie, più ancora che dalla singola trama».
Si tratta di diciotto sezioni in cui le fiabe sono raggruppate allo scopo di farne emergere un’immediata riconoscibilità o, al contrario, un senso di spaesamento, o un dejavù, dato dalla migrazione di motivi che si ripetono in tutte le trame: solo così è possibile cogliere le infinite varianti e versioni che una fiaba assume grazie alla sua oralità, alla continua rielaborazione di “bocca in bocca”, viaggiando da una regione all’altra. Valga per tutti l’esempio più noto, quello di Prezzemolina, di cui esistono almeno cinque versioni, da quella cosiddetta originaria che ritroviamo nel Cunto de li cunti di Basile e cioè Petrosinella, oppure a La vecchia nell’orto, raccolta in Sicilia da Giuseppe Pitrè o quella di Imbriani nel suo corpus toscano dal titolo La novellaja fiorentina. Resta il fatto che in tutte queste varianti la protagonista è una donna incinta colta da una voglia irresistibile di prezzemolo: e le voglie – si sa – nella credenza popolare devono essere immediatamente soddisfatte per evitare presagi di sventure sul parto e il nascituro. Ma la creatura venuta al mondo sana e vispa grazie alle scorpacciate di prezzemolo da parte della madre in gravidanza, rimane ostaggio di antagonisti sempre diversi, fate e orchesse, che la chiedono in riscatto.
Una continua mescolanza di temi e motivi che viaggiano da un intreccio all’altro a prescindere dal contesto geografico e culturale del racconto. Ci si addentra in percorsi di lettura insoliti, malgrado la notorietà dei contenuti, dove è il cibo protagonista nelle sue infinite declinazioni: ora antagonista, ora aiutante magico per richiamare la morfologia di Propp. Ed è sempre Propp a ricordare che proprio dalla mancanza di cibo prende avvio la prima funzione della fiaba, la partenza: l’eroe si allontana da casa alla ricerca di un tozzo di pane, in un viaggio costellato da prove e sventure fino al loro superamento e alla ricomposizione dell’equilibrio.
Fame e magia in un legame strettissimo, come avviene in Dattero-bel dattero, una variante di Cenerentola: un frutto che determina per incanto la metamorfosi di una povera fanciulla, impreziosendola di gioielli e vestiti di lusso e con carrozze fatate per essere accolta alla festa del re. E al contrario, in altre occasioni, un ortaggio dà accesso a un mondo sotterraneo popolato da orchi e orchesse, draghi e mamme draghe che si dilettano in pratiche antropofagiche mettendo a cuocere nel calderone a fuoco lento le povere vittime malcapitate, spesso fanciulli. Pratiche che spesso sconfinano nel gusto dell’orrido, grottesco e raccapricciante, come accade in Bocconi indigesti dove si parla di brandelli di defunti cotti e mangiati da commensali ignari e di focacce impastate col sangue reale, di coscine di gatti da latte e cervello di lupi, arrosto ingrassati a carne umana, ricettario privilegiato di una Befana inquietante elaborata da Emma Perodi.
Altrove è proprio il consumo del cibo e soprattutto dei farinacei a consolidare alleanze altrimenti pericolose come avviene nei rapporti di buon vicinato fra una casalinga e un orco, che anziché dare sfogo ai suoi istinti cannibaleschi, si ritrova a prestare di buon grado la padella alla vicina per friggere le frittelle che divoreranno insieme. Focacce, zippole e frittelle sono pietanze diffuse in tutte le novelle, innaffiate da fiumi di vino, che rimandano alla centralità del grano e della farina nella cucina del Meridione d’Italia. Frequente è inoltre il richiamo all’alimento primigenio per eccellenza, il latte, fonte di vita e per questo associato al sangue: in molti racconti il sangue che esce da una ferita si ritrova a macchiare di rosso una ricotta, dando alla luce una bellissima fanciulla dall’incarnato roseo (vedi Rosaspina o Biancaneve).
Ma i grandi protagonisti dei racconti popolari restano comunque i legumi, ceci, fagioli e lenticchie, cibi poveri per antonomasia. Legumi che inizialmente si contano sulle dita delle mani in un regime di povertà assoluta, ma che hanno il dono di moltiplicarsi o dare accesso alle ricche mense dei signori. Sotto l’aspetto umile di un legume si nascondono, per via di malefici, le reali sembianze di bellissime eroine, come il caso di Cecina. Non manca mai la frutta in tutta la sua varietà tipicamente italiana, e soprattutto i fichi dotati, secondo le credenze, di proprietà divine. Fichi e uva passa a pioggia, come nel caso di Giufà, lo stolto furbo che si distende a pancia all’aria sotto l’albero e rimane a bocca aperta, aspettando di gustare quelle prelibatezze.
Quel che passa il convento è invece la sezione dedicata ai religiosi e in particolare alla figura del frate crapulone e ingordo sempre alla ricerca di banchetti dove sfamarsi a sbafo e al centro di intrecci e triangoli amorosi a danno di donne coniugate e di mariti traditi. Motivi sempre presenti e diffusi nella novellistica siciliana dove il monaco è autore di truffe e soprusi e per questo viene deriso e beffato dalla povera gente che lo dipinge in modo ironicamente opposto al ruolo spirituale che nella società ufficiale dovrebbe assolvere (Sorgi 1989).
Un volume ricchissimo, anche nelle fonti e negli apparati bibliografici, che ha il merito, fra gli altri, di richiamare l’attenzione sul valore culturale del cibo. Se da un lato il riferimento è a un mondo magico che in questa forma appartiene al passato, non si può certo trascurare il ruolo universale che alimentazione e patrimonio culinario rivestono ancora oggi, non soltanto per soddisfare l’esigenza nutritiva, ma come risposta consolatoria e rassicurante all’angoscia esistenziale che affligge il nostro tempo.
Viviamo in un’epoca aggredita da guerre e pandemie, siccità e carestie, dove una grossa fetta della popolazione mondiale, spesso infantile, muore ancora di fame. Un fenomeno inaccettabile che si contrappone in tutta la sua drammaticità ad un Occidente ricco, frutto di un’economia consumistica a capitalismo avanzato. Ogni giorno siamo bombardati da notizie catastrofiche che danno il senso della precarietà dell’universo. E come in un paradosso la cucina e la ristorazione compaiono in modo sempre più invasivo nei nuovi programmi televisivi, spesso caratterizzati da uno spirito di competizione che sottopone tanti giovani in cerca di fortuna a dure prove gastronomiche, sotto l’occhio arbitro degli chef, i nuovi eroi del terzo Millennio.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Riferimenti bibliografici
Bachtin, M.
1979 L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi
Calvino, I.
1988 Sulla fiaba, a cura di M. Lavagetto, Torino, Einaudi
Carter, A. (a cura di)
2020 Le mille e una donna. Fiabe da tutto il mondo, Prefazione di M. Warner, trad. italiana da B. Lazzaro, Roma, Donzelli
Cocchiara, G.
1980 Il paese di Cuccagna, presentazione di L. Sciascia, Torino, Boringhieri
Cusatelli, G.
1994 Ucci ucci. Piccolo manuale di gastronomia fiabesca, Milano, Mondadori
Eliade, M.,
1976 Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri
Holub, M.
2007 Poems before and after:collected english translations, New Expanded Edition
Lazzaro, B.
2022 Il Mangiafiabe. Le più belle fiabe italiane di cibi e di magia, Roma, Donzelli
Milillo, A.
1977 Narrativa di tradizione orale, Roma, MNATP
Propp, V.J.A.
1966 Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi
Sorgi, O.,
1989 Preti, frati e Monache nei racconti popolari siciliani, n.22, «Archivio delle tradizioni popolari siciliane», Palermo
Tolkien, J.R.R.,
1964 Tree and Leaf, London, Allen & Unwin
Warner, M.
2021 C’era una volta. Piccola storia della fiaba, traduzione di Bianca Lazzaro, Roma, Donzelli
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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