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Il corpo della donna e la giustizia in Sicilia tra ‘700 e ‘800

 

La Vecchia dell'Aceto

La Vecchia dell’Aceto

di Bernardo Puleio

Purtroppo le cronache, e non solo siciliane, sono spesso infarcite da storie terrificanti che riguardano i femminicidi. Eppure c’è stato un periodo, il Settecento, razionale, illuminista e libertino, in cui in Sicilia le donne ottennero ampia libertà di scelta in campo sessuale. Gaetano Savatteri, in un suo recente splendido saggio, si sofferma su un episodio che ha per protagonista la cosiddetta Vecchia dell’aceto. Si tratta della palermitana Giovanna Bonanno, che fu giustiziata nell’estate del 1789, ormai ottantenne, pochi giorni dopo lo scoppio della rivoluzione francese, con l’accusa di avere fornito ad alcune donne, per lo più popolane – almeno sei i casi accertati – una pozione velenosa per eliminare i mariti [1]. L’elemento sorprendente della faccenda è che queste donne avevano in corso, perlopiù, relazioni fuori dal matrimonio e che nessuno dei loro mariti, pur consapevoli, mostrò particolare gelosia o pensò di vendicarsi o ricorse al cosiddetto delitto d’onore [2] che invece connota la storia della Sicilia dal secolo successivo.

In questo breve saggio, in maniera cursoria, si farà riferimento ad alcuni fatti e avvenimenti accaduti tra Settecento e Ottocento riguardo alla libertà sessuale delle donne siciliane. Lasciamo la parola a Gaetano Savatteri [3]:

«Alle donnine che vanno a cercarla per affatturare i mariti, ostacoli per tresche e nuovi matrimoni, Giovanna Bonanno consiglia il rimedio di un’acqua miracolosa, in vendita per pochi spiccioli, che manderà i mariti tra coloro che non possono più nuocere. Acqua al sapor d’aceto che, peraltro, non lascia sul corpo dei morti alcun sospetto di veneficio. Il traffico dell’aceto miracoloso andrà avanti per due anni, la voce si sparge nei vicoli e nelle piazze della brulicante casba palermitana. Le mogli, direttamente o tramite intermediarie, comprano la pozione, la mescolano a caponatine, pasta con le sarde, verdure di campo à la vinaigrette, e nel giro di qualche giorno, tra vomito e mal di pancia, i mariti trapassano nell’aldilà, lasciando vedove inconsolabili che già da tempo progettavano nuove e migliori consolazioni. “Oramai le richieste abbondano – dice Rosario La Duca ne I veleni di Palermo – e non si comprende come lo sciocco aromatario La Monica non s’avveda che con tutto l’aceto che ha venduto alla Bonanno si sarebbe potuto ammazzare un esercito di pidocchi”. A forza di dilagare la voce giunge anche alle orecchie degli sbirri che un giorno arrestano Giovanna Bonanno che ha commesso un’imprudenza di troppo. Finiscono in carcere pure l’aromatario, le intermediarie, alcune mogli e complici e parenti, tutti a vario titolo accusati di sei uxoricidi cum veneno propinato. Il processo scoperchia il fittissimo intrecciarsi delle relazioni umane nella grande città ormai abitata da 140 mila abitanti, i rapporti dentro le famiglie, le moralità coniugali modulate sulle convenienze economiche. Colpisce che le stesse donne raccontino ai giudici i loro tradimenti. Ebbene, non c’è nessun caso in cui i mariti abbiano reagito con un delitto d’onore. Anzi, spesso hanno perdonato, al limite mettendo la moglie sotto più stretto controllo. “Invece dell’uccisione delle adultere (quando la Sicilia è diventata terra di elezione del delitto d’onore?) – si chiede la storica Giovanna Fiume – saranno le adultere a cercare nell’uxoricidio l’opportunità di ricostruirsi con nuove nozze una reputazione sociale”».

9788858143360_0_536_0_75Ovviamente qui non si vuole sostenere che nel ‘700 in Sicilia, ma anche altrove, non ci siano stati quelli che oggi chiamiamo i femminicidi, e che tante volte, prima, e durante quel secolo, la volontà delle donne non sia stata costretta dentro forme di tirannide maschile. Però è un dato di fatto che quella settecentesca vicenda palermitana testimoni, anche a livello popolano, una maggiore libertà d’azione da parte delle donne.

Per quanto riguarda le classi alte, i ceti dirigenti, ci sono tantissime testimonianze della assoluta promiscuità, durante quel periodo che fu definito il tramonto dell’isola felice [4], in campo sessuale, in un’epoca caratterizzata dal libertinaggio, che consentì alle donne sposate una libertà d’azione pari a quella dei maschi. La vita dei giovin signori palermitani era assolutamente simile a quella dei nobili milanesi descritti da Giuseppe Parini. Colpiva molto, per esempio i visitatori stranieri, quanto accadeva, complice anche l’oscurità, alla Marina di Palermo quando le carrozze raggiungevano il lungomare, il foro borbonico, e le donne mascherate salivano e scendevano o ospitavano nella loro carrozza i loro amanti, mentre, a loro volta, i mariti salivano e scendevano dalle carrozze di altre gentildonne – evidentemente anche a quell’epoca uno dei problemi maggiori di Palermo era il traffico! –: era la cosiddetta promenade charmante che molto colpì e sconvolse lo scozzese Brydone [5].

D’altronde anche il poeta Meli [6], che, pur essendo religioso era molto sensibile al fascino delle belle donne, ricordava in una delle sue Odi, come ormai a Palermo si usasse alla francese e non ci fossero più mariti gelosi e non ci fosse più né mio né tuo: 

Si tratta a la francisa,
nun sù nenti gilusi;
su tutti affittuusi
nun cc’è né meu né tò

viaggio-sicilia-malta-1770-eb4d3549-d58e-42ff-9822-5e385c2ccbf3Anche nelle discussioni pubbliche palermitane del Settecento – tuttavia giova ricordare che le orazioni erano tenute sempre dai maschi – la donna, la funzione della donna, aveva conquistato una posizione sempre più centrale. Per esempio, sul ruolo della donna, a Palermo, nel 1734, si era tenuta una disputa in cui peraltro erano state sostenute anche tesi misogine ma, nel 1735 sarebbe intervenuto a favore delle donne l’avvocato palermitano Vincenzo Di Blasi (giurista di grande cultura, ottimo conoscitore del Latino e del Francese, amministratore del Monte di pietà e sindaco, padre di Francesco Paolo, l’avvocato giacobino che avrebbe organizzato la sfortunata rivoluzione del 1797, l’eroe de Il consiglio d’Egitto di Sciascia) che compose nel 1737 un testo di straordinaria importanza, anche se purtroppo poco noto, nella storia della evoluzione della emancipazione femminile. Scriveva Vincenzo Di Blasi [7]: 

«Se le Donne, sebbene condannate all’ozio dagli Uomini per non togliere dalle loro mani il Governo, pure sono arrivate, se non tutte, la maggior parte almeno ad eguagliarli in ogni sorta di virtuoso esercizio, che saria poi se si applicassero ad ogni arte, e ad ogni scienza, al par di loro?». 

9788832055191_0_424_0_75La storia di un femminicidio in età borbonica

In un pregevole recente libro di Salvatore Mugno, vengono raccontate in maniera documentata alcune sentenze ed esecuzioni di pene nella provincia di Trapani nel corso del diciannovesimo secolo. Per le autorità borboniche, il marito che uccide la moglie viola la sacralità dell’istituto matrimoniale e deve essere condannato a morte. Certo la vicenda che qui riferisco è un caso di un marito donnaiolo che vuole un’assoluta e sfrenata libertà. Ma perlomeno fino al 1860, nella provincia di Trapani, non ci sono stati casi giudiziari legati o riconducibili a situazioni che a partire dal 1889 sarebbero state definite come delitto d’onore.

Al museo Pepoli di Trapani fa bella mostra di sé, si fa per dire, un efficientissimo strumento di morte: la ghigliottina che fu adoperata anche in Sicilia. Nel libro dello storico Salvatore Mugno, Sentenze di ghigliottinati in Sicilia (Navarra ed. 2019), si ricostruiscono i casi di alcuni condannati alla pena capitale della provincia di Trapani che letteralmente persero la testa nel corso dell’Ottocento sotto le lame taglienti dello strumento di morte d’oltralpe. Nell’Ottocento non esisteva il termine femminicidio ma la legge, la legge borbonica, puniva con la pena capitale l’uxoricida. E così leggiamo che la Gran Corte criminale della provincia di Trapani si riunì il 17 ottobre del 1843 per giudicare il caso di Giuseppe Scuderi, un panettiere di 36 anni di Trapani, accusato di aver ucciso la moglie Rocca Cosentino. In particolare emerge che lo Scuderi era una sorta di playboy e che la moglie era gelosa e scontenta della sua condotta. Questo è quanto viene scritto nella sentenza della Corte borbonica [8]:

«Considerando che dal nesso e dalla coordinazione delle pruove dianzi discorse la Gran Corte resta convinta che l’accusato Giuseppe Scuderi volontariamente nella notte del 24 aprile 1843 spense la vita di una moglie odiata (Rocca Cosentino); e la uccise tra quelle stesse pareti che le Leggi e la Religione rendevano sacre alla pace domestica, ed ai dritti di una mutua assistenza, non è però convinta del concorso della premeditazione, poiché i continui risentimenti gelosi della Cosentino offrono provabilissimo il caso di una altercazione rinnovata col marito in quella notte estrema per la solita causale, ormai troppo fatale, della di lui condotta adultera. [....] Qual è la pena applicabile per legge al divisato Giuseppe Scuderi dichiarato colpevole come sopra? Considerando che l’omicidio volontario del coniuge, misfatto così disorganizzante dei vincoli sociali, è punito dalla legge di morte [....]. Per tali motivi la Gran Corte criminale [....] a voti unanimi condanna il suddetto Giuseppe Scuderi di Trapani alla pena di morte ed alla rifazione delle spese del giudizio in prò del Real Tesoro».

La legge borbonica dunque tutelava il vincolo coniugale del matrimonio e non consentiva al maschio di trovare una giustificazione, per esempio nelle continue altercazioni per la gelosia della moglie, che potesse attutirne la colpa. Ma nell’Ottocento borbonico la donna siciliana aveva ancora quelle libertà che perlomeno erano state accertate, per le donne sposate, nel ‘700 a Palermo, per tutte le classi sociali, dalle popolane alle nobili? Sembrerebbe di no. Per esempio, può essere interessante una annotazione di un fenomeno che si è assolutamente perso e che riguardava un momento particolare della festa di Sant’Agata a Catania. Le fonti che seguiremo sono due autori di straordinario livello: Giuseppe Pitrè e Giovanni Verga.

spettacoli-e-feste-popolari-sicilianeLa festa di Catania e la libertà delle donne

Ci racconta Giuseppe Pitrè a proposito di Sant’Agata che, a parte la disputa sulla città di nascita, a Palermo c’era e durò per tutto il sedicesimo secolo una grande devozione per la Santa. Si hanno bandi (26 gennaio 1502 e 4 febbraio 1516), che stabiliscono solenni processioni e corse, palii in suo onore. Nel ‘600 il culto per la Santa scema ed è sostituito da S. Rosalia.

A Catania c’era l’abitudine, durante la processione del 4 febbraio di sfilare Nudi, indossando un semplice sacco, le donne dalla cintola in su indossavano un manto di seta nera che le ricopriva tutte (da qui il nome di attuppattedde, cioè donne nascoste: in siciliano il nome della chiocciola ricoperta da una membrana mucosa) che lasciavano solo l’occhio destro scoperto per riconoscere i passanti ai quali, se maschi, le donne piuttosto liberamente, si avvicinavano e spesso si facevano comprare dolci o più costosi gioelli. Il Pitrè [9] cerca di minimizzare il carattere sovversivo e licenzioso (nella seconda metà del diciannovesimo secolo quest’uso andava scemando), sostenendo che si trattava di un’innocente mascherata con cui le signore ottenevano regali dai mariti.

Giovanni Verga invece ci racconta tutta un’altra storia, in una novella straordinaria. Una certa tendenza all’assurdo e all’ironia, connotazioni anticipatrici di Pirandello, caratterizza la novella La coda del diavolo, apparsa sulla rivista Illustrazione italiana nel 1876 e inserita nella silloge, pubblicata quello stesso anno a Milano dall’editore Brigola, Primavera e altri racconti. All’inizio, a mò di teoresi filosofica, si specifica l’impossibilità di definire la realtà secondo un’unica direttrice razionalistica e del tipo causa-effetto. La novella è invece basata sull’irrazionale e sull’assurdo, imprevedibile chiave di lettura in uno scrittore verista per interpretare le vicende umane [10]: 

«Questo racconto è fatto per le persone che vanno con le mani dietro la schiena, contando i sassi; per coloro che cercano il pelo nell’uovo e il motivo per cui tutte le cose umane danno una mano alla ragione e l’altra all’assurdo […], per tutti coloro che considerano col microscopio gli uncini coi quali un fatto ne tira un altro, quando mettete la mano nel cestone della vita». 

2560732189018_0_0_536_0_75E pirandelliana risulta pure la descrizione dei tre protagonisti (lui, ingegnere delle ferrovie, l’altro, suo amico e collega, innamorato e ricambiato dalla moglie di lui, ma senza che, oltre l’innocenza maliziosa delle ‘ntuppattedde si sia mai andati oltre). Ora, all’inizio della novella, presentando i protagonisti, il Verga ci dice che lei è morta, il marito si trova in Egitto a lavorare, mentre l’altro [11]  «in certo modo è morto anche lui, si è trasformato, ha preso moglie, non si rammenta più nulla, e non si riconoscerebbe più dinanzi a uno specchio di dieci anni addietro, se non fossero certi calabroni petulanti e ronzanti attorno a sua moglie, che gli mettono lo specchio sotto il naso». 

Per la festa di S. Agata, tutta Catania diventa carnevale, ma stranamente per una società di maschi gelosi, come sono indicati gli uomini siciliani, è consentita alle donne la massima libertà, per alcune ore, durante la festa. Si chiama il cosiddetto diritto dintuppattedda, che consiste, nel fatto che alcune donne (schiette o maritate) si vestono, indossando un abito elegante e severo, preferibilmente nero che consente loro solo di fare scorgere un occhio e dalla 4 alle nove di sera, queste donne diventano le padrone della strada, fermano quegli uomini che vogliono, li possono prendere in giro o chiedere loro di farsi offrire gelati o aperitivi o gioielli. 

«La ‘ntuppatedda [12] è padrona di staccarvi dal braccio di un amico, di farvi piantare in asso la moglie o l’amante, di farvi scendere di carrozza, di farvi interrompere gli affari, di prendervi dal caffè, di chiamarvi se siete alla finestra, di menarvi pel naso da un capo all’altro della città [….]». 

Il Pitrè le chiama attuppatedde e definisce l’abitudine, nascondendo il tono quasi sovversivo descritto dal Verga, un modo grazioso per farsi comprare regali dai mariti. Comunque, sia Verga che Pitrè ne parlano come di un’abitudine che stava per esaurirsi. La moglie, innamorata dell’amico del marito, si vestirà da ‘ntuppatedda, ma l’amico, dopo avere descritto un sogno in cui la bacia, sarà messo da parte dalla donna che continuerà ad amarlo in segreto e proverà gelosia e si ammalerà quando saprà che egli sta per sposarsi, quindi, gli comparirà dinanzi – il gioco è al limite tra innocenza e sovvertimento – nuovamente travestita per ricordargli e dichiarargli il suo amore. 

I femminicidi della mafia di una volta e la giustizia del nuovo Stato: il caso di Agrigento 

Dopo il 1860 sembra che la donna in Sicilia sia ulteriormente compressa. Nel 1875, il Parlamento italiano decise, dopo molte polemiche, di varare la prima Commissione di inchiesta sulle questioni dell’ordine pubblico in Sicilia. Lasciamo la parola a Camilleri [13] che, in maniera straordinariamente sintetica ed efficace, ricostruisce cosa accadde tra il ‘74 e il ’75: 

«Il 3 dicembre 1874 il Consiglio dei Ministri, presieduto da Marco Minghetti, delibera la presentazione alle Camere di uno schema di legge per varare provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza atti a combattere il “malandrinaggio” in Toscana, Romagna e “altre provincie”. Curiosamente, della Sicilia che è il vero oggetto della questione, non se ne fa il nome. La proposta, presentata due giorni dopo da Cantelli, Ministro dell’Interno, provoca vivaci reazioni magari al Senato e, altrettanto curiosamente l’unica regione della quale si viene a discutere è la Sicilia, il “malandrinaggio” da altre parti pare sia improvvisamente scomparso al sol sentire parlare di provvedimenti governativi speciali. Su un solo punto maggioranza e opposizione si trovano d’accordo: la creazione di una Commissione parlamentare d’inchiesta da inviare urgentemente nell’isola. Le sue risultanze serviranno da concreto motivo di discussione circa l’applicazione, o meno delle leggi eccezionali. In data 3 luglio 1875 si dà avvio ad una Giunta di inchiesta (“Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia”), composta da nove membri: tre senatori, tre deputati, tre di nomina regia. Un anno la durata prevista dei lavori, centomila lire il costo».

9788838913686_134448212_0_536_0_75La Commissione sbarcò in Sicilia nell’autunno del 1875 e procedette per alcuni mesi a un lavoro capillare nell’isola, intervistando ufficiali dell’esercito, magistrati, politici, uomini d’ordine, semplici cittadini, uomini delle professioni, proprietari terrieri. Alcuni dei proprietari terrieri erano inferociti: dicevano che in Sicilia vigeva il comunismo perché dal 1860 non erano più in condizioni di mettere piede nei loro feudi, rischiando di essere uccisi dai mafiosi che col nuovo Stato avevano fatto carriera e gestivano a loro piacimento l’ordine e il disordine pubblico. Furono ascoltati anche semplici operai. Mentre la relazione finale, peraltro interessante sotto l’aspetto sociologico, sarebbe stata pubblicata l’anno successivo, nel 1876, tutta la parte relativa alle interviste e ai documenti, alcuni fatti pervenire per iscritto, è stata pubblicata in tempi relativamente recenti, circa cento anni dopo i lavori della Commissione, nel 1969. E il perché si capisce: ci sono dichiarazioni di magistrati e ufficiali, gli uni contro gli altri, che danno dell’incapace ad altri dirigenti e funzionari di alto livello istituzionale.
Seguiamo la dichiarazione del dottor Cuneo, procuratore del re, di Girgenti (Agrigento). Il dottor Cuneo invia alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni della Sicilia, in data 10 gennaio 1876, una relazione sullo stato dell’arte della Giustizia in quella provincia. Il procuratore lamenta, come d’altronde tutti i magistrati togati importanti, l’assoluta povertà in cui versano i pretori e anche i giurati di primo grado, spesso costretti a ricorrere a prestiti per poter sbarcare il lunario, cosa che evidentemente ha risultanze e ricadute negative sull’amministrazione della Giustizia, perché magistrati poveri possono più facilmente essere influenzati da delinquenti e mafiosi. Il dottor Cuneo critica anche la presenza dei giurati cioè dei magistrati civili che, a suo avviso, spesso sminuiscono la gravità delle accuse degli imputati o comunque amministrano male la giustizia. Quindi fornisce un paio di riflessioni che sono delle autentiche bombe rispetto ai luoghi comuni folcloristici sulla mafia: ma sono dichiarazioni esplosive anche per il cattivo funzionamento della giustizia.

Apprendiamo che la mafia abusava delle donne e le uccideva. Cominciamo dalla osservazione formulata dal dottor Cuneo che la giustizia è per i poveri, nel senso cioè che la giustizia è particolarmente accanita nei confronti dei poveri. Il passo che segue è lungo ma vale la pena leggerlo con attenzione [14]:

«La giustizia è per il povero, si dice in questi paesi, ed i fatti quotidiani, bando a qualsiasi allusione, pienamente lo confermano. I giurati, se capitano dei poveri disgraziati, che non hanno protezioni, impegni, denari, né appartengono alla maffia, si può star sicuri, non troveranno indulgenza alcuna, e si avranno verdetti severi e giusti. Ben altro è poi se gli imputati appartengono a classe agiata, ovvero alla maffia; per qualunque atroce crimine si può stare allora certi di ottenere verdetti di incolpabilità; o se il fatto fosse di tale evidenza di prove da non potersi, se non con spudoratezza, niegare, saranno sempre ammesse dai giurati tutte quelle circostanze introdotte dalla difesa, risultino oppure no dal dibattimento, che valgano a ridurre a minimi termini l’imputazione e la relativa pena.
I buoni ed Onesti cittadini si addolorano di questo stato di cose che talvolta fa raccapricciare.
Bisognava trovarsi a Girgenti quando nelli 25 novembre ultimo fu giudicato un cittadino, notoriamente appartenente alla maffia, il quale fece, vicino ad un suo orto, trucidare barbaramente un’onesta moglie, sol perché aveva respinto le sue proposte amorose! Il fatto era notorio e destò  orrore in tutta la città; le prove erano chiare; eppure con abilità degna di miglior causa la difesa volle proporre tante questioni in favore dell’imputato, che, tutte ammesse dai giurati, portarono all’applicazione di soli anni 8 di reclusione, il maximum che la corte  poté infliggere; mentre il giorno seguente 26 novembre, un disgraziato, imputato di grassazione con  depredazione della somma di lire 1,30 non si ebbe neppure ammesse le circostanze attenuanti pel lieve valore del furto, e si dovette condannare alla pena di lavori forzati per anni venti!
Altro individuo della maffia, non contento di portarsi via la moglie altrui, uccide in presenza di agenti di pubblica sicurezza il marito che va a riprendersela. I giurati ammettono, con generale stupore, la legittima difesa (si noti che l’imputato non riportò offesa alcuna) e fu nelli 2 aprile ultimo posto in libertà. Verdetto mostruoso che destò indescrivibile indignazione. Per ragioni di ordine pubblico un individuo della mafia di Messina fu deferito al giudizio di questa corte di Assise; ma la maffia ha le sue corrispondenti ramificazioni, »e quell’individuo, che avea ucciso un pubblico agente, fu nelli 20 luglio ultimo dichiarato non colpevole!» 

s-l1600Fedra siciliana 

Qualche ragguaglio interessante emerge anche dalla letteratura. Per esempio, dal bozzetto verghiano Nedda, pubblicato nel 1874, apprendiamo che in un paesino siciliano, sia pure guardati con scandalo e alla fine emarginati, era possibile che due giovani decidessero di convivere, fuori dal matrimonio. Il testo verghiano destò scandalo ipocrita in alcuni lettori ben pensanti perché in maniera naturalistica l’autore aveva descritto il congiungimento di Janu con Nedda col sottofondo del raglio dell’asino. Janu muore giovane per la malaria e Nedda resta da sola con la bambina nata dalla colpevole relazione. Il paese non le perdona non tanto la colpa per così dire sessuale, la trasgressione della relazione della convivenza fuori dal matrimonio, che peraltro la giovane raccoglitrice di olive non ha avuto modo e tempo di celebrare per la morte del compagno, quanto piuttosto la sua ostinazione nel voler essere a tutti i costi una buona mamma. Il paese si sarebbe cioè aspettato, avrebbe preteso, che Nedda, mettendo da parte il suo sentimento materno, umiliandosi e prostrandosi, abbandonasse la figlioletta alla ruota del convento. Di fronte a questa sua riluttanza, il paese chiude il cuore alla pietà e siccome Nedda non è più in grado di lavorare, come prima. nessuno le offre più lavoro sapendo bene che questo avrebbe decretato la morte della bambina e della mamma [15]. 

«Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casupola, al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido.
[…] Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata. Alla povera bimba mancava il latte, giacché alla madre scarseggiava il pane. Ella deperì rapidamente, invano Nedda tentò spremere fra i labbruzzi affamati il sangue del suo seno. Una sera d’inverno, sul tramonto, mentre la neve fioccava sul tetto,  e il vento scuoteva l’uscio mal chiuso, la povera bambina, tutta fredda, livida, colle manine contratte, fissò gli occhi vitrei su quelli ardenti della madre, diede un guizzo  e non si mosse più». 

In due potenti e famose novelle Cavalleria rusticana e La Lupa, l’istinto sessuale prevale sulla legge morale. Anche se poi in Cavalleria si delinea una sorta di delitto d’onore, il possesso sul corpo, la gelosia diventa strumento di lotta tanto maschile quanto femminile da parte di Lola verso Santa quando apprende del fidanzamento di Turiddu, quanto di Santa verso Lola quando apprende del tradimento di Lola. 

s-l500Qualche interessante ragguaglio scaturisce dall’opera di Luigi Capuana che certamente ha rappresentato con misoginia spesso un’idea patologica della donna. Ma non è questo ciò che interessa all’interno di questo saggio. Interessa invece una rappresentazione di un episodio vero che è accaduto nella provincia di Siracusa: anche se poi di questo episodio lo scrittore fornisce una visione che si può tranquillamente definire sessista

In Storia fosca, 1879, (novella che dà il titolo ad una silloge pubblicata nel 1881) viene narrata la storia vera, accaduta a Palazzolo Acreide (Sr) del barone Cesare Iudica, risposato in seconde nozze con la giovane Cassandra Politi, che diventò l’amante del primo figlio del barone, Gabriele. A chi accusava l’autore di avere copiato il Curée di Zola, il Capuana opponeva il verbale stilato da un brigadiere dei carabinieri. Tuttavia, qualche scrupolo di coscienza e il fatto che i personaggi vivessero ancora, induce il novelliere ad usare più delicatezza e circospezione del linguaggio adoperato nel verbale.

Il racconto si apre con la descrizione furibonda del barone che ha sentito dal servo la storia del tradimento della moglie (25 anni) col figlio (17 anni). Il barone prende la pistola minacciando di sfogare la sua rabbia incredula sul povero servo, ma poi, ben diversamente dallo stereotipo siculo che vorrebbe il marito geloso e furibondo, decide di chiamare i carabinieri, di appostarsi e di cogliere in flagrante i due amanti, benché il brigadiere avesse voluto intervenire prima di trovare i due carnalmente congiunti. Ma il barone vuole lo scandalo e la prova assoluta della colpevolezza dei due e si limita a dire che egli ha agito con moderatezza senza compiere stragi (avrebbe potuto uccidere anche il figlio). Ma da quel giorno, la sua casa era rimasta con le finestre chiuse. 

Dalla descrizione del racconto emerge un atteggiamento maschilista dell’autore che accusa la donna causa dell’irresistibile e sconcia volontà sessuale senza freni inibitori [16]: 

«La pioggia veniva giù forte ma uguale, con uno scroscio sordo sordo. Tutta la villa dormiva. La baronessa cominciò a spogliarsi, lasciando cadere i capelli snodati sulle spalle ignude. Si passava sulla fronte le mani fredde, madide come quelle d’una malata. Tutt’a un tratto, così come trovavasi, barcollante come una persona ebbra, aveva fatto uno, due passi verso l’uscio … e l’aveva aperto, risoluta.
Era stata lei!
Al povero ragazzo non era mai passato pel capo che ciò potesse accadere.
Ah, tutto gli aveva preparato! E aveva continuato, insaziabili, come due esseri senza coscienza, come due bruti belli e giovani che tracannavano la coppa della vita, per esaurirla.
Nulla era venuto a turbarli: né cura del presente. Né pensiero dell’avvenire». 

La conclusione si snoda tra la testardaggine del barone e l’accusa misogina contro le donne [17]: 

«Il pretore, il brigadiere dei carabinieri e due amici erano stati introdotti dal barone in punta di piedi, allo scuro.
Il barone aveva acceso un fiammifero; la sua mano, che lo teneva in alto per rischiarare il gran letto nuziale a traverso delle cortine, tremava convulsa.
- Per carità signor barone! Siamo ancora a tempo, sia generoso! -
Il pretore lo scongiurava, stringendogli fortemente le braccia.
- È molto se invoco soltanto la legge! – aveva risposto il barone.
Da quella mattina in poi le imposte del palazzo Russo-Scaro non sono state aperte più, chiuse per un lutto eterno. La villa del gelso Nero è rimasta anch’essa deserta.
Quando lo zio del barone, il vecchio abbate [sic] di San Benedetto, passa per caso davanti quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell’ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato:
- Se vedete una grande rovina – suol ripetere colla sua profonda amarezza di cenobita – dite pure, senza timore d’ingannarvi, che una donna è passata per lì!». 

41xnqcygonl(Non) conclusioni

Le vicende descritte in questo saggio e che si dipanano lungo l’arco di cento anni circa, sono troppo eterogenee e disarticolate per potere consentire una benché minima analisi sociologicamente attendibile sul rapporto conflittuale tra libertà e controllo del corpo della donna siciliana. E quindi non mi azzardo a trarre conseguenze o conclusioni di alcun tipo. Sembra però, attraverso il dipanarsi delle vicende raccontate in questo saggio, alcune molto note, altre meno, che si possano individuare alcuni elementi che probabilmente meriterebbero un maggiore approfondimento: da una parte, si può forse dire, ma con grande cautela, che il progredire della storia del diciannovesimo secolo in Sicilia non coincide con un progresso e con una evoluzione e un miglioramento della condizione della donna, anzi, paradossalmente l’evoluzione della storia segna un regresso verso forme sempre più private e antiquate di concezione di nido familiare con una emarginazione più marcata della donna.

La seconda osservazione riguarda il fatto che il progressivo sviluppo del fenomeno mafioso ha maggiormente avuto effetti devastanti sulla psicologia femminile: dalla omertà crescente alla paura della violenza maschile. Cosa che forse ha indotto le donne a trasmettere la omertà [18] ai figli, anche di fronte alla tragica constatazione della violenza (impunita) e dei femminicidi compiuti dai mafiosi per il loro piacere, martoriando il corpo delle donne. E qua poi forse bisognerebbe interrogarsi su quanto, questa mentalità mafiosa di abuso del corpo della donna, abbia inciso ed eventualmente in che misura sulla formazione maschile, sull’idea maschilista del corpo della donna come strumento di piacere, a propria disposizione La storia del corpo attraverso questi pochi episodi raccontati sembra indicare non una storia di progresso e di affermazione ma al contrario una storia di umiliazione di oppressione e di repressione. 

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] La vicenda di Giovanna Bonanno è al centro di un famoso romanzo di Luigi Natoli (La vecchia dell’aceto) ma è stata analizzata anche nelle tradizioni popolari e nella sua dimensione storica da S. Salamone Marino (Leggende popolari siciliane in poesia, Palermo 1880 e da Giovanna Fiume (Mariti e pidocchi. Storia di un processo e di un aceto miracoloso, Roma, 2008).
[2] E qua va precisato che nell’ordinamento borbonico, tanto spesso vituperato e tacciato di oscurantismo, il delitto d’onore non esisteva. Fu invece introdotto dal neonato Stato italiano, dal codice penale Zanardelli, nel 1889. In epoca fascista, con il codice Rocco, il delitto d’onore ebbe una ulteriore connotazione sessista perché era ammesso solo nel caso in cui un maschio uccideva una donna o l’amante della donna, ma non era riconosciuto alle donne il diritto di vendicarsi degli eventuali tradimenti dei mariti. Infine, dopo ampie discussioni, soltanto nel 1981, il delitto d’onore sparì dalla giurisdizione italiana. Qualora i giudici avessero riconosciuto la sussistenza delle condizioni del cosiddetto delitto d’onore, gli assassini avrebbero ottenuto consistenti benefici in termini di riduzione di pena. A prescindere da ogni considerazione di ordine morale giuridico e antropologico, in Sicilia, spesso, il delitto d’onore, il cui archetipico fondamentale troviamo espresso nella Cavalleria rusticana di Verga, diventava lo strumento di cui si serviva la mafia per uccidere i suoi rivali e diffamarli anche da morti. Come scriveva Sciascia, che a lungo si è battuto contro questo selvaggio strumento giuridico, anacronistico e primitivo, il delitto d’onore consentiva allo Stato la gloria di trovare l’assassino, e offriva l’indubbio vantaggio all’assassino, soprattutto se mafioso, di ripulire la propria colpa con una pena minima.
[3] G. Savatteri, Le siciliane, Bari-Roma 2021: 18-9.
[4] S. Correnti, La Sicilia del Settecento. Il tramonto dell’isola felice, Catania 1985.
[5] P. Brydone, Viaggio in Sicilia e Malta, [1770], Milano 1968: 185.
[6] G. Meli, Odi, in, Idem, Poesie siciliane, Palermo 1847 [settima edizione]: 79
[7] V. Di Blasi Apologia filosofico-storica, in cui si mostra il sesso delle donne superiore a quello degli uomini, Catania, 1737: 108.
[8] S. Mugno, Sentenze di ghigliottinati in Sicilia, Palermo, 2019: 71-3.
[9] G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane [1881], Palermo, 1978: 188-92.
[10] G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1977, (vol. I): 68.
[11] Ivi: 69.
[12] Ivi: 72.
[13] A. Camilleri, La bolla di componenda, in Idem, Romanzi storici e civili, Milano, 2004: 326.
[14] L’inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-6) a cura di S Carbone e R. Grispo, 2 voll., Archivio centrale dello Stato, Bologna, 1969, I: 246-7.
[15] G. Verga, Tutte le novelle, Milano, 1977, (vol. I): 58-9.
[16] L. Capuana, Racconti, a cura di E. Ghidetti, t. I, Roma, 1973: 184.
[17] Ivi: 185. Sulla vicenda storica cfr. L. Lombardo, Processo a Cassandra nella Palazzolo dell’Ottocento, Ragusa 2021.
[18] Sul tema dell’omertà trasmessa dalle madri ai figli è intervenuto, suscitando anche aspre polemiche, Leonardo Sciascia. Cfr. Claudia Carmina, Sciascia e il silenzio delle donne in laletteraturaenoi 11 luglio 2013
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Bernardo Puleio, insegna Lettere al Liceo Umberto di Palermo. Tra le sue pubblicazioni: I sentieri di Sciascia (Palermo, Kalos, 2003); Il paradigma impossibile: nuovi saggi su Leonardo Sciascia (Palermo, Nuova Ipsa, 2005); Il linguaggio dei corpi straziati. Potere e semantica del potere nell’Italia del XVI secolo (Firenze, Clinamen, 2007). È redattore dei Nuovi Annali del Liceo Umberto I di Palermo.

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