L’opinione comune e il dibattito pubblico imputano spesso agli studi classici un anacronismo che li renderebbe inutili e, se si guarda all’inquietante e incalzante fenomeno della cancel culture, persino dannosi. Le principali obiezioni sono sollevate da chi si ostina a trovare un risvolto pratico nello studio del latino e del greco, riducendoli a meri esercizi logici, e chi, invece, ne difende il prestigio imbracciando la bandiera della cosiddetta civiltà occidentale da difendere e preservare. Reagire allo svilimento e alla strumentalizzazione dei quali sono preda le lingue classiche non è cosa facile, ma è necessaria sia per frustrare l’ossessione utilitaristica che classifica ogni aspetto delle nostre vite in base al profitto materiale che se ne può trarre, sia per scongiurare che esse vengano pericolosamente arruolate nelle battaglie identitarie e nazionaliste. Il presupposto imprescindibile è pensare al latino e al greco come lingue che, in quanto tali, hanno raccontato e continuano a raccontarci due culture lontane dalla nostra; due culture che, però, fra analogie e differenze, possono comunicare con i contemporanei nel segno dell’alterità.
È quanto dimostra ancora una volta Maurizio Bettini nel suo ultimo lavoro, Per un punto Orfeo perse la cappa. Dieci lezioni di antropologia del mondo antico (Il Mulino, 2024). Il saggio si articola in due sezioni, dedicate rispettivamente alla Grecia e a Roma, ciascuna delle quali è costituita da cinque lezioni, scaturite da una domanda che un determinato aspetto della cultura antica ci pone, e alla cultura antica fa ritorno per fornire una risposta. È in questo movimento circolare e interno che si fonda programmaticamente la ricerca dello studioso: per comprendere il senso delle testimonianze antiche senza incappare in errori di prospettiva, è necessario avvicinare il nostro sguardo a quello dei Greci e dei Romani; in altre parole, bisogna tentare di assumere le categorie culturali e mentali vicine all’esperienza di questi popoli, evitando, per quanto possibile, di applicare le nostre. Imparare a prendere le distanze non soltanto ci consente di mettere a fuoco ciò che non conosciamo, ma anche di compararlo criticamente con ciò che ci è già noto e a cui siamo abituati.
Si prenda la domanda che dà il titolo al primo capitolo: Perché Orfeo si è voltato? Infatti, allo sventurato cantore era stato intimato di non girarsi indietro a guardare Euridice prima di uscire dall’Ade. Eppure, proprio mentre sta per uscire, Orfeo si volta: come il monaco Martino che, secondo la tradizione popolare, avrebbe perso la cappa di canonico per aver tralasciato di scrivere un solo punto in un testo intero. Nelle riproposizioni letterarie di antichi e moderni, a questa domanda si sono date svariate risposte: per troppo amore, per assicurarsi che Euridice lo seguisse, per sottrarre all’amata lo strazio di ritornare in vita e morire una seconda volta. Ma le prime occorrenze del mito forniscono una diversa spiegazione: Virgilio definisce Orfeo immemor, e la stessa versione è data da Conone, mitografo a lui contemporaneo. Che qualcuno, dopo aver attraversato gli Inferi per riportare in vita la persona amata, abbia fallito all’ultimo per essersi dimenticato un semplice avvertimento, a noi potrebbe risultare, se non ridicolo, quantomeno di un’ingenuità assurda. Invece, per capire il senso profondo dell’episodio bisogna collocarlo nel contesto culturale in cui è stato generato.
Per i Romani il dimenticare è associato alla morte: i defunti, che Seneca definisce dimentichi di sé, non hanno ricordi; anzi, è proprio la memoria, presente nel regno dei vivi e assente nel regno dei morti, a marcare il confine invalicabile tra i due mondi rendendoli non comunicanti. Una prima conclusione emica alla quale giunge Bettini, dunque, è che Orfeo abbia dimenticato proprio perché si trova nell’Ade, la cui caratteristica distintiva è, per l’appunto, la perdita di memoria. Ma estendendo l’analisi in chiave comparatistica si riscontra la presenza di molti miti, classici e non, che narrano un tentativo di sconfiggere la morte fallito per una futilità: Eracle, Dhul-Karnain, Achille, Eos, la Sibilla Cumana hanno tutti perso per una minima disattenzione, o una dimenticanza propria o altrui, la possibilità di godere di un’esistenza immortale. C’è speranza, allora, di vincere la morte se chi ha tentato non ha avuto successo per poco: è una speranza non lontana dalla nostra sensibilità se pensiamo a quanto, con il progredire della medicina e della tecnologia che sembrano essere sempre più efficaci nel contrastare invecchiamento e malattie, convivere con la morte risulti sempre più innaturale, come se essa fosse non il decorso spontaneo della vita, ma un evento imprevisto e contingente, uno scandalo che poteva essere evitato.
Due capitoli (Visibilità e invisibilità nei poemi omerici e La grammatica degli dei) sono dedicati alla sfera divina. L’impianto politeistico dei Greci e dei Romani rivela aspetti che, per culture fondate su sistemi religiosi monoteisti, richiedono un intenso sforzo interpretativo. La prima ricerca riguarda la rappresentazione omerica degli dèi: essi non si manifestano mai ai personaggi dei poemi nelle loro sembianze antropomorfe per come le conoscono i lettori, ma assumono di volta in volta l’identità di una persona specifica oppure, più genericamente, le fattezze di un essere umano (un pastore, una donna) o di un animale. A volte è solo un indizio della presenza divina a manifestarsi: una voce, impronte di passi o anche tratti distintivi delle singole divinità come gli occhi brillanti di Atena, la dea galukòpis, che appaiono ad Achille. Spesso, invece, gli dèi si palesano nell’invisibilità che non corrisponde, come per noi, alla trasparenza: nella cultura omerica essa è data da una barriera visiva posta tra il dio e gli uomini. Operatori di invisibilità possono essere l’aèr – definibile come un vapore opaco e sospeso rispetto alla terra –, le nuvole, l’oscurità, dei quali gli dèi si vestono producendo una sorta di inganno ottico: per esempio, quando Odisseo approda ad Itaca, Atena lo avvolge di un aèr che gli impedisce di riconoscere la propria patria. Quindi, l’invisibilità in Omero non è un semplice “non essere visti”, ma un’illusione con cui gli dèi abusano delle ridotte capacità sensoriali degli uomini.
Gli dèi non scompaiono, ma illudono, e non perché siano capaci di trasformarsi in altro da sé: la loro non è un’identità circoscritta e unica come noi intendiamo l’identità di un individuo, ma è seriale in quanto, come notato da Vernant, gli dèi non sono persone, ma potenze. Atena non è la guerriera armata che si trasforma in una rondine o in un eroe, ma è insieme la guerriera, la rondine e l’eroe. Gli antichi concepivano l’onnipotenza degli dèi anche attribuendo loro un’identità plurale in netto contrasto con la singolarità degli esseri umani. Tale fluidità caratterizza anche i numi romani, come si evince dalla loro rappresentazione linguistica che è oggetto della seconda ricerca di argomento religioso. Spesso il numero e il genere non sono categorie grammaticali pertinenti per i nomi delle divinità: nonostante, come ammonisce Arnobio, i nomi propri degli dèi si declinino soltanto al singolare, a volte si trovano al plurale (come Vetumni o Veneres); la distinzione fra femminile e maschile non è rigidamente rispettata (sono attestati ugualmente Liber/Libera o Limentinus/Limentina) e il sostantivo deus può attribuirsi sia ad una divinità maschile che femminile. La neutralizzazione grammaticale del genere e del numero sono propri del genere neutro ed è infatti con un nome neutro, numen, che ci si riferisce spesso agli dèi. La pluralità, di cui si è parlato sopra, e la neutralizzazione, che nega la numerabilità e un’identità di genere univoca, sono due strategie cognitive complementari attraverso le quali si traduce l’alterità ontologica degli dèi rispetto agli esseri umani. Le due analisi esposte dimostrano come la medesima rappresentazione culturale possa essere comunicata attraverso vari linguaggi, come la produzione artistica e letteraria e la lingua stessa.
Un’altra corrispondenza fra la dimensione narrativa e quella linguistica si traccia in relazione al concetto greco di destino, argomento del capitolo Un destino a porzioni. Il dono della vita che Alcesti fa al marito Admeto trova riscontro, declinato in forme e contesti diversi, anche in altri racconti mitologici (oltre che nel folclore greco moderno): secondo il mitografo Igino, dato che nello scontro dei Sette contro Tebe era sopravvissuto solo Adrasto, nello scontro della generazione successiva a morire è soltanto il figlio di Adrasto, Egialo, che avrebbe dato la vita al posto del padre (pro patre vicariam vitam dedit); sempre secondo Igino, Nestore visse per tre generazioni avendo ereditato gli anni sottratti agli zii materni, i figli di Niobe; in una favola di Esopo, alcuni animali cedono all’uomo una parte dei loro anni di vita in cambio di un riparo. La controparte linguistica di queste e altre storie simili è uno dei termini che il greco impiega per indicare il destino, móira, che significa letteralmente « parte, porzione », ed è utilizzato in più contesti indicando, per esempio, la parte dell’eredità, del bottino di guerra, del banchetto, del sacrificio. Anche altri vocaboli afferenti alla sfera del fato, come áisa o dáimon, si inscrivono nell’area semantica della ripartizione. Dunque, coniugando il patrimonio mitico all’uso linguistico, si scopre che per i Greci a ciascun mortale è assegnato un destino inteso come porzione di vita quantificabile che in quanto tale può essere trasmessa, intera o porzionata, agli altri.
Come si è visto, Bettini mostra come dall’analisi lessicale e linguistica si possano trarre importanti informazioni o conferme sugli elementi che caratterizzano la cultura di una civiltà; su questa scia, si inseriscono anche i capitoli 5 e 6 (Tacimi o Diva… la Musa del silenzio e Cantare scongiuri e cantilenae). Nel primo di questi due capitoli, la trattazione ha il suo centro nel racconto che Ovidio fa di Lara, una ninfa che, avendo svelato a Giuturna l’intenzione di Giove di violentarla, viene punita per aver parlato troppo: il padre degli dèi le strappa la lingua e la confina al mondo infero condannandola così al silenzio perpetuo e, da questo momento, la ninfa assume il nome di Tacita. La morfologia del sostantivo, formato dalla radice verbale di taceo e dal suffisso -ta, ha valore causativo: come Moneta è traducibile con «colei che fa ricordare», Tacita significa letteralmente «colei che fa tacere».
Questa storia riflette l’importanza che la virtù del saper tacere ha a Roma, specialmente per le donne, al punto da dedicare un culto specifico ad una dea la cui storia e il cui nome ne sono espressamente l’ipostasi. La dedizione sacra che i Romani riservano al silenzio è ancora più chiara se si riflette sul potere che veniva conferito alle parole e al suono emesso nel pronunciarle: i pochi ma affascinanti testi di letteratura magica pervenutici si compongono di giochi di parole, paretimologie, allitterazioni che fondano la riuscita dell’azione magica più sulla potenza della parola in sé che sulla semantica del testo. Nel rituale, sempre descrittoci da Ovidio, dedicato alla dea Tacita e volto a combattere le malelingue, la magia analogica si attua associando sia oggetti e azioni che parole e suoni: così legare dei fili con il piombo blocca le maldicenze esattamente come ingoiare delle fabae, delle «fave», neutralizza le fabulae, un termine che in latino si impiega, per l’appunto, in relazione alle dicerie.
Nel capitolo 6, l’Autore analizza due verbi, canere e cantare, che si riferiscono entrambi all’idea di un’emissione sonora di tipo ritmico-musicale. Essi, però, hanno un uso differenziato in due ambiti precisi: per i vaticini e gli oracoli (che a Roma e in Grecia sono espressi in forma metrica) si impiega soltanto canere; viceversa, in rapporto alle formule magiche è attestato soltanto cantare. Una caratteristica dei testi magici, oltre all’importanza rivestita dalla fonetica, è la ripetizione: Catone suggerisce di ripetere quotidianamente una cantio per guarire un’articolazione lussata; la formula contro il mal di piedi tramandataci da Varrone deve essere ripetuta ben ventisette volte. L’azione del cantare, quindi, è iterativa e ossessiva: in effetti, cantare è il verbo frequentativo derivato da canere. Un altro tipo di struttura cantilenata è rilevata negli scontri verbali inscenati da Plauto e analizzati nel capitolo La « giustizia popolare » a Roma: le liti di Tossilo e Dordalo nella Persa, di Tranione e Misargide nella Mostellaria, di Pseudolo e Clidoro nello Pseudolus sono tutte accomunate da un ripetersi insistito di insulti, lamentele e richieste espressi con un tono di voce dichiaratamente alto. Mentre alcuni studiosi hanno ravvisato in tali scambi una sopravvivenza dell’Atellana preletteraria perduta, che sarebbe quindi stata caratterizzata da una comicità rozza e primitiva, ampliare gli orizzonti di un’indagine esclusivamente letteraria ad altre tipologie di manifestazioni culturali consente di pervenire a risposte diverse: flagitatio, convicium, vagulatio, pisulum sono vari tipi di « conflitti ritualizzati » diffusi a Roma per protestare pubblicamente contro un torto subito o reclamare qualcosa di dovuto, e presentano tutti le medesime modalità espressive delle liti verbali tratte dalle commedie plautine.
In conclusione, secondo Bettini è più convincente credere che Plauto abbia codificato una pratica culturale ben radicata e, quindi, anche ben riconoscibile dai suoi spettatori, piuttosto che abbia registrato forme di una supposta Atellana preletteraria: una tesi del genere, oltre a non poter essere comprovata da nessun tipo di testimonianza, è marcata dal pregiudizio di stampo evoluzionistico che stabilisce una presunta differenza qualitativa tra cultura orale e cultura scritta, i cui esiti sarebbero rispettivamente semplici e complessi, spontanei e raffinati. Questo è un esempio lampante dei rischi interpretativi che si corrono nel classificare la produzione culturale antica secondo le categorie di pensiero moderne.
Il caso del crimine Lemnio (oggetto del capitolo Le imbarazzanti donne di Lemno) permette di inquadrare, attraverso un racconto mitologico greco, una costante antropologica che si declina in varie culture lontane fra loro nel tempo e nello spazio. Filostrato riporta che a Lemno si svolge periodicamente una purificazione per espiare il massacro di figli, mariti e padri compiuto dalle Lemniadi. Tale purificazione è inquadrabile nel rito del new fire, presente in varie culture di tutto il mondo, che consiste nello spegnere tutti i fuochi di una comunità per poi accenderne uno nuovo da ridistribuire: a Roma, per esempio, tale rito veniva effettuato dalle Vestali solitamente ogni primo marzo. Elementi che in apparenza risultano specifici del caso di Lemno sono il cattivo odore che il mito attribuisce alle donne come castigo di Afrodite, causa dell’allontanamento attuato dagli uomini e della conseguente separazione fra i sessi, e la violenza perpetrata. Ancora una volta, procedendo con un metodo comparatistico, si giunge a interessanti conclusioni.
Bettini prende ad esempio il corrispettivo del rito del new fire nella cultura cristiana europea e medievale, che avveniva durante il periodo della Quaresima: nei tre giorni anteriori alla Pasqua, l’ufficio delle Tenebre prevedeva che tutti i ceri della chiesa venissero spenti e che il Sabato Santo si generasse una nuova fiamma per riaccenderli. Anche il rito della Settimana Santa si svolge attraverso la separazione dei sessi, tradotta con l’obbligo di castità, e si pone in relazione con la violenza dell’uccisione di Gesù Cristo. Inoltre, durante il periodo della Settimana Santa, al silenzio imposto alle campane corrispondeva un frastuono prodotto attraverso oggetti di legno. Se, come riscontrato da Lévi-Strauss, c’è un’equivalenza fra rumore e cattivo odore come segnali di una situazione emergenziale, allora si può dedurre che il cattivo odore emanato dalle donne di Lemno e il frastuono prodotto dai cosiddetti « strumenti delle tenebre » durante la Settimana Santa sono due modi equivalenti di esprimere, impiegando la terminologia di Van Gennep, la fase liminale di un rito di passaggio che, per sua natura, è tanto transitoria quanto critica e che ha come esito la rigenerazione della comunità.
Il capitolo La «biologia selvaggia» dei Romani è dedicato a ciò che Héritier designa come «tutte quelle rappresentazioni o credenze che – a proposito dei liquidi corporei – ricorrono in culture le quali, per motivi geografici o cronologici, sono lontane dalla moderna biologia o fisiologia occidentale». Il latte materno è concepito come un composto di liquido femminile e seme maschile: allattando un bambino gli si trasmettono, dunque, le caratteristiche paterne, permettendo il manifestarsi della somiglianza tra padre e figlio. Infatti, ciò che noi definiremmo come ereditarietà genetica a Roma è esclusivamente patrilineare: è solo il padre a svolgere parte attiva nella propagazione di generazione in generazione dei tratti distintivi, fisici e morali, della stirpe. Le medullae, contenute all’interno delle ossa e connesse alla generazione del seme maschile, e la saliva, il liquido secreto dalle ghiandole salivari, testimoniano una intersezione della sfera fisiologica con quella più intima delle percezioni e dei sentimenti: le medullae, infatti, sono anche la sede dei sentimenti più profondi (medullitus amare significa «amare profondamente»); la saliva, invece, è connessa al senso del gusto ed è assimilabile al sapore provato nell’assaggiare cibi o bevande, soprattutto il vino. Che a Roma la concezione dei liquidi corporei non rimanga circoscritta alla dimensione sensibile del corpo, risulta anche dall’affinità tra il sucus, che Cicerone definisce come la sostanza nutritiva assimilata tramite l’assunzione di cibo, e il genius, la divinità personale degli uomini romani: Petronio definisce i convitati alla cena di Trimalchione valdi sucossi, «assai pieni di sucus», riferendosi alla vita agiata che conducono; dire genio [...] multa bona faciam, «farò molto bene al genius», significa che si ha intenzione di godere di momenti piacevoli. Sia il sucus che il genius pertengono al benessere fisico, alla capacità generativa, al piacere derivato dal gustare pietanze e bevande: mentre la nostra cultura ci ha abituato ad una visione compartimentata dell’esistenza – in cui, per esempio, la dicotomia scienza-religione appare irrisolvibile –, l’approccio olistico dei Romani consentiva loro di concepire un’esperienza umana come regolata sia da operatori fisiologici che da operatori divini.
L’ultimo capitolo del volume (L’incesto a Roma: un crimen indicibile) verte sulla declinazione romana di uno dei temi più indagati dall’antropologia classica. Secondo Lévi-Strauss, la proibizione dell’incesto è transversale ad ogni cultura in quanto costituisce il primo passo per la nascita di una società: tramite la pratica dell’esogamia, i membri di un gruppo sociale ricercano relazioni con altri gruppi in modo da allargare la rete di alleanze e di reciproche prestazioni economiche e politiche. Nella Roma arcaica, il divieto endogamico è esteso addirittura al sesto grado incluso di parentela. L’acuta repulsione culturale che i Romani nutrivano per l’incesto traspare attraverso cautionary tales in cui le unioni fra cugini, consumate o solo progettate, hanno esito tragico, ma anche attraverso i vocaboli stessi che lo designano: incestus, composto dalla particella negativa in- unita al sostantivo castus, -us, è una definizione per negationem, significando letteralmente «mancanza di castus», vale a dire una mancata astensione, in particolare di carattere sessuale, imposta da precetti sacri. L’incestus è, dunque, una violazione religiosa che ha ricadute su tutta la comunità e, in quanto tale, provoca reticenza sia, come si è visto, nel fornirlo di un valore lessicale positivo, sia nel parlarne: nei testi letterari la cui trama si svolge attorno ad un incesto, come le tragedie senecane Edipo re, Fenicie e Fedra, ad esso non si fa mai riferimento esplicito ma vi si allude soltanto tramite perifrasi o aposiopesi.
In conclusione, le dieci lezioni di Bettini attraversano filologia, antropologia culturale, linguistica, sociologia, studi di folclore e psicoanalitici senza mai spostare il centro dell’indagine dall’antichità greca e romana. L’Autore propone un catalogo di casi studio di antropologia del mondo antico dalla natura ibrida di saggio accademico e testo divulgativo, in base all’approccio scelto dal lettore. È una ricerca che cresce su se stessa, in cui ad ogni domanda si danno risposte che, a loro volta, pongono nuove domande: il risultato è una stratificazione di riflessioni e osservazioni scaturite da un rispettoso ascolto delle voci degli antichi che, allo stesso tempo, non trascura di considerare un folto apparato di studi (come testimonia la ricca appendice di bibliografia ragionata curata da Tommaso Braccini e Laura Bevilacqua). Al termine della trattazione, è inserito anche un Indice dei nomi che raccoglie i principali autori antichi e studiosi moderni citati, insieme ad alcuni personaggi storici e mitologici; per agevolare la consultazione, potrebbe essere reso più sistematico ed essere integrato con un indice dei fenomeni culturali notevoli.
Ancora una volta, l’approccio antropologico dimostra di poter aprire ulteriori e inattesi squarci di luce nella nostra limitata conoscenza dei Greci e dei Romani, così lontani, così vicini, ma sempre stimolanti interlocutori.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Francesca Amoroso, laureata in Filologia, Letterature e Storia del Mondo Antico presso l’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi intitolata Figlie ribelli: Tullia Minore e Tarpeia nella storia e nella letteratura di Roma, i suoi interessi si inquadrano nel campo dell’antropologia del mondo antico, con particolare riguardo per le metodologie e le tematiche proprie degli studi di genere.
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