di Giovanni Isgrò
Architetto-scenografo, artisticamente vicino a Copeau, Bakst, Gémier, Moholy-Nagy, collaboratore del Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia e delle compagnie più moderne del teatro di prosa in Italia, egli stesso creatore di una compagnia di balletti italo-russi al Teatro La Fenice di Venezia, scenografo alla Scala, al San Carlo di Napoli, all’Opera di Roma, ma anche decoratore e designer, ideatore di grandi allestimenti in esposizioni internazionali, oltre che scenotecnico e rivoluzionario luminotecnico, unico vero pedagogo della messinscena nella storia del teatro d’Italia degli anni ’20 e ’30, al servizio dei teatri filodrammatici dell’Opera Nazionale Dopolavoro, nonché concreto e moderno interprete delle grandiose messe in scena di Gioacchino Forzano, Antonio Valente consente di leggere in controluce vent’anni di vita del teatro e dello spettacolo in Italia, al di là degli ismi e della routine del teatro commerciale.
In questo ampio arco di attività, che comunque non si esaurisce fra le due guerre, essendo l’impegno di Valente apprezzato nel campo della scenografia cinematografica e della architettura civile fino all’inizio degli anni Settanta, può sembrare difficile se non improbabile, cogliere una unica idea fondante. Eppure c’è un filo rosso, una tensione che emerge da ciascuno di questi interventi che porta dalla prima, pionieristica e originale esperienza della «scena-lampada» del 1923 alle ultime realizzazioni per il Regime fino al cinema del dopoguerra. Una tensione che nasce dall’idea del laboratorio come trattamento paziente e geniale della materia, luogo di creazione di mutazioni inattese, di giochi di luce mutevoli, di masse che si spostano e si completano, di piani slittanti, di impianti che piombano all’improvviso in luoghi emarginati dall’istituzione teatro: vera e propria magia del movimento come principio fondante dell’arte rappresentativa, che unisce senza soluzione di continuità cinema e teatro. In questo senso la genialità di Valente si colloca ai livelli più alti della scena nazionale, con una partecipazione forte al processo evolutivo della rifondazione del teatro in Europa della prima metà del Novecento.
La personalità di Valente ha, al tempo stesso, una specificità che lo rende profondamente diverso dai padri fondatori della scena contemporanea; ossia quella della capacità di affidare alla semplicità formale il suo intuito innovatore che lo rese capace di utilizzare con disinvoltura invenzioni di grande risonanza artistica. Una dote, questa, che derivò dalla straordinaria padronanza tecnica che lo rese anche guida sicura di un percorso educativo i cui effetti si vivono in quel complesso architettonico ancora oggi moderno e funzionale che egli progettò negli anni Trenta, ossia il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma da lui stesso diretto e nel quale si sono formati numerosi protagonisti della cinematografia italiana.
Al fine di entrare nel dettaglio del contributo dato da Valente alla storia del teatro contemporaneo, abbiamo scelto di descrivere una delle invenzioni più popolari dell’artista della seconda metà del Ventennio: i Carri di Tespi. Una vicenda che, per quanto collegata alla logica di Regime, consentì a Valente di esprimere in modo originale il suo valore tecnico-artistico.
L’elaborazione del primo progetto di dispositivo di teatro ambulante noto sotto il nome di “Carro di Tespi” risale ai primi mesi del 1928. La motivazione occasionale all’invenzione viene ad Antonio Valente dall’esigenza manifestata dalla direzione dell’O.N.D. (Opera Nazionale Dopolavoro), e in particolare dal segretario del Partito Nazionale Fascista Augusto Turati, di sviluppare una forma di decentramento teatrale nel quadro dell’attività delle filodrammatiche, anche nei piccoli centri lontani dai circuiti commerciali. La scelta da parte del Regime dell’architetto Valente, che ancora alla fine del 1927 prestava la sua occasionale quanto volontaria collaborazione al Teatro degli Indipendenti, è motivata dall’interesse suscitato, oltre che dalle sue invenzioni luminotecniche, dalla moderna e funzionale progettualità dell’edificio teatrale già evidenziatasi negli studi successivi alla tesi di laurea sulla costruzione di un teatro di posa da erigersi in Roma, destinati a perfezionarsi nel progetto per il Teatro Drammatico di Stato, e, nei mesi più recenti, dai suoi studi per la creazione di dispositivi di palcoscenici, utili a consentire il rapido cambiamento di scena a vista.
A parte gli interventi di Virgilio Marchi al teatro Odescalchi di Pirandello e il lontano progetto di Fortuny del 1912 per il “Teatro delle Feste” non a caso ripreso nel 1929 nel clima della ricerca teatrale attivata in quegli anni dal Regime, senza trascurare l’idea del palcoscenico multiplo di Bragaglia, l’attenzione rivolta da Valente ai problemi relativi all’edificio teatrale e ai dispositivi scenici (in particolare alla mobilità dell’impianto del palcoscenico), costituisce, al di fuori degli ammodernamenti in parte già effettuati nei palcoscenici dei grandi teatri lirici, l’unica espressione concreta e sistematica di rinnovamento in un campo che anche i futuristi avevano trascurato. Le costanti che distinguono questa zona di ricerca di Valente si basano ancora una volta sull’idea della funzionalità, della essenzialità, della rapida mobilità e quindi del dinamismo come principi fondanti della moderna evoluzione teatrale. Il dispositivo del palcoscenico mobile circolare tripartito, ad esempio, sostanzialmente semplice nella sua struttura, con il piano di calpestio diviso in tre settori, apparentemente simile ai già superati palcoscenici girevoli ad energia meccanica, grazie all’avanzamento della pedana mobile verso la sala, risolveva il problema della mancata utilizzazione degli spicchi esterni della scena, a causa dell’allineamento della superficie esterna del plateau girevole all’arco scenico.
In questo modo, mentre l’avvicinamento dello spazio scenico alla sala con relativa eliminazione della linea di ribalta contribuiva a superare il problema della frattura scena/platea, l’idea della cinesi scenica, sviluppata attraverso i rapidi cambiamenti di scena e mutazioni a vista dello spettatore, senza ricorrere all’uso del sipario, confermava la continuità di quel principio della metamorfosi e della velocità del tempo di trasformazione dell’immagine ad essa collegata, già manifestatosi nelle invenzioni luminotecniche. Lontano dalla sua concezione il grande gioco delle meraviglie col quale Max Reinhardt inaugurava il Josephstaadten Theater di Vienna, con l’uso del palcoscenico rotante a coppia di pedane circolari mobili, l’invenzione tecnica di Valente manifestava apprezzabili analogie con altre esperienze coeve del teatro europeo. Si pensi ad esempio al moderno palcoscenico girevole del teatro Pigalle di Rothschildt diretto da Antoine, in corso di realizzazione proprio nel 1928, e ancor di più all’uso della grande scena girevole da parte di Stanislavskij nel 1929 e nel 1930 al Teatro d’Arte teorizzata dallo stesso regista nel suo programma di messinscena.
All’ “uomo nuovo” Antonio Valente, l’idea del teatro ambulante vagheggiata dall’O.N.D. e tentata timidamente e pionieristicamente con precarie quanto inadatte strutture trasportate su un modesto camion in alcuni paesi della Brianza nel 1927 da un manipolo di filodrammatici guidato da Goffredo Ginocchio dell’O.N.D. di Milano, stimolava non soltanto capacità tecnico/inventive ma anche princìpi portanti del suo tessuto ideologico e del suo modo di intendere il teatro.
Dal punto di vista dell’idea tecnica, il cambiamento continuo del luogo in cui collocare il dispositivo teatrale agli occhi di Valente moltiplicava quel principio della metamorfosi che le operazioni di montaggio e smontaggio dell’intero impianto da un lato, e le rapide mutazioni della scena dall’altro dovevano garantire. Al tempo stesso la possibilità di inventare un edificio scenico, per quanto provvisorio, non poteva non intrecciarsi con la tensione pedagogica che Valente stava vivendo nel clima della riorganizzazione delle filodrammatiche.
Certo, durante il suo soggiorno a Parigi, Gémier, che Valente non manca di ricordare anche nel Teatro filodrammatico gli aveva raccontato della sua esperienza di décentralisation, vissuta dieci anni prima, ma nella mente dell’artista, al di là delle motivazioni ideologiche riconducibili al problema del decentramento teatrale e al significato che esso doveva assumere anche per quanto atteneva il rapporto scena/spettatore, il precedente francese doveva presentarsi come esempio che non bisognava imitare dal punto di vista tecnico, dal momento che la cessazione dell’attività del théâtre ambulant nel 1912 in buona parte era stata dovuta proprio alle difficoltà di spostamento, montaggio e smontaggio delle strutture mobili, poco pratiche e ingombranti, ma che semmai bisognava superare con una invenzione estremamente semplice e facilmente manovrabile.
Nel marzo del 1928 Valente presenta a Turati il primo progetto completo di Carro di Tespi. Si tratta di una struttura smontabile, sostenuta da capriate ripiegabili, in grado di opporre la massima resistenza a sollecitazioni di peso, di flessione e di tensione, e quindi resistente alle inclemenze atmosferiche, comprensiva di sala (ampia mq 120) con panche per gli spettatori, di palcoscenico con una superficie utile di 35 mq e con una dotazione di camerini per gli attori, regolarmente provvista di tutti i sistemi di sicurezza per il pubblico (uscita, corridoi, ecc.). L’impianto è attrezzato di dispositivo per l’illuminazione della sala e per le luci di scena (4 riflettori, 4 padelle, 4 bilance a 4 colori), in grado di rispondere alle diverse esigenze tecniche ed artistiche. Il tutto ricoperto da tela impermeabile, facilmente trasportabile per mezzo di un camion; il trasporto degli attori e del personale è previsto invece a mezzo di autobus.
Si tratta di un progetto molto funzionale, dove tutto appare studiato per offrire col minimo ingombro il massimo rendimento. Nessuna concessione alla retorica e al monumentalismo; al contrario, la preoccupazione maggiore sembra rivolta alla sistemazione e alla sicurezza del pubblico, ma anche all’indispensabile confort degli artisti, mentre il rapporto scena/spettatore appare motivato dall’idea dell’ordine, del rigore e dell’essenzialità della sala: trecento posti realizzati su nude panche senza alcuna separazione dal palcoscenico che, privo della ribalta, si avvicina alla platea mediante due comode scale laterali (in un progetto successivo sarà un’unica gradinata continua, ampia quanto tutto il palcoscenico), proprio come nel ricordo del Vieux-Colombier di Copeau.
L’idea originaria di Valente non è certo quella di un dispositivo di teatro per le masse, né tanto meno di un teatro estivo, bensì di un centro vivo di cultura. Lo scopo primario è infatti quello di garantire la massima concentrazione al teatro e di favorire l’effettiva comprensione da parte dello spettatore, come se l’impianto debba a sua volta contribuire alla formazione del pubblico.
Si ha l’impressione cioè di un luogo in cui il pubblico debba essere chiamato da uno stesso desiderio, più che da una forma di curiosità. Realizzare l’unione spirituale di trecento spettatori, sembra in qualche modo l’estensione dell’azione pedagogica di Valente. In un certo senso è come se l’artista continuasse il percorso del recupero dell’uomo pur attraverso l’uso dei materiali moderni e del modo moderno di concepire l’architettura, ma al tempo stesso al di là dell’astrazione dell’arte moderna da un lato e, pur nella coincidenza della doppia fruibilità del risultato, non dominato dall’idea del consenso tout-court che animava le strategie dell’O.N.D.
La nitidezza geometrica di questa struttura smontabile e la sobrietà dell’insieme non sembrano trovare soluzione di continuità nel progetto, successivo di qualche mese, della dotazione scenica del Carro di Tespi: «Una panoramica cielo per esterni, una panoramica viola per interni, una panoramica verde chiaro per interni e scene generali [...] piccole scene sintetiche in legno compensato dipinte, da ripiegarsi a sistema di paravento, in modo da ottenere la massima leggerezza e praticità così consistenti: scena interna borghese generica, scena interna barocca, scena esterna campagna (casetta, albero, cancelletto, scena giardino)». Sono proprio i bozzetti di quelli che Valente definisce «elementi base», e che pubblica nel volume II Teatro filodrammatico: testimonianza implicita del collegamento fra la pedagogia teatrale del saggio e questa prima idea di Carro di Tespi.
Dal punto di vista dello “stile scenografico” Valente considera queste scenografie-tipo come parti strutturali di una scena semplificata e allusiva; strumento per costruire situazioni diverse, non già di per sé espressione conclusa, in cui altre componenti supplementari possono aggiungersi, come ogni elemento di dettaglio che precisi una forma o un’epoca.
Una ricca documentazione di preventivi e di offerte di ditte specializzate, direttamente contattate da Valente e di relative ordinazioni per nome e per conto dell’O.N.D. ritma il secondo semestre del 1928. Il «Laboratorio Italiano Impermeabili» di Mosca e Masera, con sede in Milano, per la realizzazione dell’intero impianto complessivo di 30 banchine di m. 3,50 ciascuna per gli spettatori, portico d’ingresso (m. 10 x 2,50), palcoscenico (m. 10 x 5), 6 camerini, sala per gli spettatori (m. 10 x 12,50), biglietteria, il tutto per un’area coperta di mq. 200, nel mese di giugno invia un preventivo di L. 40 mila. L’offerta è accolta, pur con qualche piccola variante, e l’avvio ai lavori dato il 31 agosto 1928. Nel mese di ottobre, e successivamente in dicembre, la Società per il Commercio e l’Industria dei materiali per l’elettrotecnica di Roma assume l’ordine per la realizzazione dell’intero dispositivo di illuminazione e quindi di tutto il materiale volante per la conduzione dell’elettricità. A metà del dicembre 1928 è ultimata la costruzione dell’intera struttura, che rimane al collaudo di resistenza alle intemperie per un intero mese. Accurati anche i collaudi della sala e del palcoscenico. Per quest’ultimo scaturisce l’esigenza di aggiungere alle panoramiche previste nel precedente progetto, altre due, rispettivamente di colore verde e nero, in modo da avere una maggiore articolazione di possibilità di sfondo, e al tempo stesso per evitare, con l’uso del nero, eventuali dispersioni di luce. La meticolosità con cui sotto la direzione di Valente viene preparato, provato e collaudato l’intero dispositivo, i preparativi per il trasferimento dei materiali a Roma dove viene messo a punto il camion Fiat tipo 30 SPA, capace di una portata di 40 ql. per il trasporto del teatro ambulante, l’avvio alla realizzazione dei bozzetti delle scene-tipo preparati da Valente, lasciano intendere, da un lato l’importanza data dall’O.N.D, alla invenzione e dall’altro l’approssimarsi dell’entrata in funzione, probabilmente entro la fine dell’inverno del 1929, del dispositivo stesso.
La storia del primo Carro di Tespi dell’O.N.D., probabilmente ad uso esclusivo delle filodrammatiche, si arresta tuttavia qui, senza che si arrivi ad una rappresentazione ufficiale o regolare. Si ha notizia d’altro canto, proprio alla fine del mese di gennaio, contemporaneamente cioè alle ultime operazioni di messa a punto del primo impianto di teatro ambulante, dell’intenzione di disporre una nuova costruzione. Il nuovo progetto grafico elaborato da Valente, unica testimonianza rimasta, all’apparenza molto simile al precedente dal punto di vista della tipologia con sala chiusa, segna tuttavia il passaggio verso un nuovo orientamento, maturato nel frattempo dalle esigenze dell’O.N.D. Le dimensioni notevolmente maggiori dell’intera struttura, per un’area occupata di mq. 1500 con 612 posti a sedere, oltre a un vasto settore per posti in piedi, con un palcoscenico regolare di m. 12 x 9,20 e dieci camerini, lasciano intendere che si tratta di un impianto di teatro per le masse, verosimilmente ad uso di compagnie regolari. Evidentemente Valente, che non rinuncia al collegamento scena/platea attraverso una estensione della gradinata lungo tutto il fronte del palcoscenico verso la sala, si trova davanti ad un percorso e a una nuova destinazione d’uso della sua invenzione. La necessità di modificare l’idea originaria e di adattarla ad un vero e proprio dispositivo per un vasto pubblico, snaturerà, per così dire, quell’idea di teatro di pedagogia da cui Valente era partito, anche se l’artista tornerà più avanti a coltivare e attuare questo intendimento per altra via e in altri settori, in particolare con la realizzazione del già citato progetto del Centro Sperimentale di Cinematografia.
II nuovo corso dato dall’O.N.D. all’idea del Carro di Tespi, come teatro ambulante da utilizzare nel periodo estivo per vere e proprie folle di spettatori, con presenza di attori professionisti di ottimo livello, con un direttore artistico particolarmente vicino al Regime e al tempo stesso di sicuro consenso, come poteva essere Gioacchino Forzano, a quell’epoca già direttore del Teatro alla Scala, non trova impreparato Antonio Valente, al quale rimarrà per tutta la decennale durata dell’attività dei Carri di Tespi la responsabilità progettuale nonché la direzione della realizzazione tecnica di tutti gli impianti e la messinscena di numerose opere sia nel campo della prosa che in quello della lirica. Dovendo rinunciare alla sala chiusa, anche in ragione della stagione in cui avrebbero dovuto svolgersi le tournées dei Carri di Tespi, e di fronte alla necessità di far giungere il suono e la voce quanto più lontano possibile verso un numero notevolmente più ampio di spettatori, in una situazione di vero e proprio teatro en plein air, Valente accolse l’idea di adattare al dispositivo del palcoscenico la cupola Fortuny, dando ad essa, al di là della funzionalità dell’attrezzo, pieghevole e facilmente smontabile, anche il giusto significato e la giusta interpretazione d’uso in sintonia con l’idea dell’artista ispano/veneziano che lo aveva inventato. La cupola infatti, oltre a consentire di ridurre notevolmente gli elementi di scenografia e a garantire una maggiore profondità prospettica, grazie al sistema di proiezioni anche in movimento, possibili sulla superficie convessa, rispondeva ai principi scenografici di Valente, basati appunto sull’idea della trasformazione continua e della espressiva animazione della scena. In realtà, al di là dell’invenzione di Fortuny e di Valente, anche la cupola, così come l’impianto del Carro di Tespi, moderni e rivoluzionari nell’invenzione, dovettero adattarsi al doppio compromesso di una pratica scenica sostanzialmente ancora vicina ad una concezione di teatro tradizionale, da cui lo stesso Forzano non mostrava di volersi discostare, e di una forma di strumento del consenso e della propaganda di Regime.
La vicenda dei Carri di Tespi, dalla prima sulla terrazza del Pincio a Roma il 15 luglio 1929, in presenza del Duce e delle maggiori autorità del governo nazionale e del P.N.F. si intreccia pertanto con le pratiche di spettacolo di massa all’aperto incoraggiate e organizzate dal Fascismo negli anni Trenta. È così che, nel corso della massacrante routine estiva, iniziata il primo anno soltanto da un carro di prosa e successivamente integrata dagli altri carri di prosa e dai ben più grandi Carri di Tespi lirici, l’idea del teatro di massa ambulante si presta ad evidenziare una commemorazione importante (la rappresentazione a Littoria del 1933 davanti ai contadini dell’Agro Pontino bonificato), o a sfidare il gigantismo delle più prestigiose strutture architettoniche dell’antica Roma (la rappresentazione della Aida a Roma tra il Colosseo e l’Arco di Costantino nel 1938), e comunque a mostrarsi nei centri minori e meno acculturati «come un magico artificio da film», tanto per usare le parole di Mario Corsi».
E in effetti proprio nell’idea del magico artificio della grande macchina scenica smontabile Valente dovette trovare la ragione del suo nuovo contributo. La progettazione e la realizzazione delle grandi strutture dei Carri di Tespi lirici lo impegnarono in un ulteriore adattamento della cupola Fortuny, nella applicazione della sua invenzione del palcoscenico a piattaforme slittanti laterali, appositamente mimetizzate da due strutture prospettiche prospicienti l’ampio proscenio, utili peraltro anche ad articolare lo sviluppo esterno della scenografia stessa: due piattaforme in grado di scorrere su guide fisse, l’una a destra, l’altra a sinistra della bocca d’opera, tali da consentire un repentino cambiamento di scena a vista. Gli effetti della mutazione davanti allo sguardo degli spettatori sono in questo brano di una cronaca dell’epoca relativa alla rappresentazione del Rigoletto del 1931:
«La messa in scena originale apparve in alcuni momenti portentosa per la magia della apparizione e della sparizione di scene che avvenivano sotto gli occhi del pubblico attonito ed ammirato. Particolarmente belle le scenografie del secondo atto, dove abolendo le viete trappole dei sistemi in uso, cioè della divisione centrale della scena, all’entrata del figlioletto in casa, di colpo avviene il cambiamento di scena, e vien fuori come in un gioco di bussolotti il cortile della casa di Gilda. E così meravigliavano il pubblico i pittoreschi effetti scenografici di Antonio Valente al quarto atto nella famosa scena della tempesta».
Il superamento della frattura scena/platea è attuato da Valente attraverso l’uso di due grandi scale laterali di accesso esterno al palcoscenico dal movimento semicircolare, sì da contenere l’orchestra stessa e da consentire alle masse dei cori e talvolta ai protagonisti stessi, di lasciare il palcoscenico per scendere al livello della platea e viceversa. Per quanto Valente non credesse alle possibilità di una ri-attualizzazione di un vero e proprio teatro di liturgia, e comunque di una partecipazione effettiva di grandi masse all’evento teatro in un rapporto realmente osmotico tra scena e platea, cercò tuttavia pur interpretando l’ideologia del Regime, di fare filtrare e realizzare, dove possibile, la sua idea di teatro.
In campo scenografico e scenotecnico il suo impegno maggiore si espresse nell’inventare, adattare e rendere funzionali in rapporto alle esigenze di rapido montaggio e smontaggio, ma anche di spazio e di rapide mutazioni, le scene di tutti i più importanti spettacoli sia di prosa che lirici. Per quanto soprattutto nel campo della lirica, e in rapporto al tipo di pubblico non certo acculturato alle nuove tendenze della scenografia europea, l’impianto scenico non dovesse discostarsi di molto dai canoni visivi tradizionali, la necessità di semplificare e ridurre, e soprattutto di allestire in breve tempo e in economia (mediamente in due mesi), scene di quattro o cinque opere liriche per stagione (di cui solitamente due assolutamente ex novo), e altrettante scene destinate al teatro di prosa, dovette consentire a Valente di tradurre la concezione illusionistica in forma nuova. Ricorse, infatti, dove possibile a scene sintetiche e a spezzati, e soprattutto all’uso di elementi leggeri, agevolmente componibili pur nella facies scenica tradizionale rivelando, al di là e al di fuori dell’avanguardia, una pratica di allestimento assai vicina a quella utilizzata per il cinema.
Un elenco delle opere da mettere in scena nel 1932 dà la misura del ritmo al quale Valente fu chiamato a rispondere nella qualità di unico responsabile nei confronti della direzione artistica di tutto il programma delle rappresentazioni: «I Pagliacci (ex novo), Bohème (da mettere in piena efficienza), Rigoletto (da mettere in piena efficienza secondo le nuove direttive), Cavalleria Rusticana (da mettere in piena efficienza e completare), Forza del Destino (da mettere in piena efficienza, semplificare e adattare); adattare e modificare le scene esistenti nel magazzino dell’O.N.D. per i lavori di prosa che saranno dati dai tre carri di Tespi drammatici».
Per potere rispettare i tempi di realizzazione richiesti dall’O.N.D., Valente, al quale spettò anche il compito di preparare i figurini dei costumi e di curare l’attrezzeria oltre che di mettere a punto i bozzetti di scena, a partire dal 1932, si avvalse dell’apporto di un atelier di scenografia completamente attrezzato e della professionalità di un gruppo di tre esecutori scenografi, ma anche, dove necessario, del contributo di Polidori del Teatro dell’Opera di Roma, come avvenne nel 1933 e saltuariamente negli anni successivi fino al 1937, e di Parravicini per la straordinaria messa in scena della Traviata nel 1938. Alla fine degli anni ’30, presso le officine dell’O.N.D. ai prati di S. Paolo la realizzazione di un grande studio di scenografia, in grado di operare con ritmi paragonabili a quelli di uno stabilimento cinematografico, fu l’ultimo atto della evoluzione tecnica coordinata da Valente poco prima che la guerra ponesse fine alle tournées dei Carri di Tespi.
Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone è il titolo dell’ultima sua pubblicazione.
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